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Lo scrittore e il suo doppio. L’uomo Simenon

di Fiorenza Licitra - 15/02/2010


 

Il prolifico Georges Simenon nel 1980 scrive Memorie intime, mille e passa pagine autobiografiche, escluse quelle in appendice al manoscritto, scritte dalla figlia suicida.

Lo stile del romanzo resta quello che a cui il suo vastissimo pubblico è abituato: discorsivo nella sua semplicità, asciutto e raffinato anche quando tratta di temi scabrosi.

Se la ferrea regola simenoniana di non giudicare emerge dai romanzi più duri, così come dai semplici gialli -in cui un goffo Maigret non si pronuncia mai e sembra quasi non pensare-, in questa autobiografia la regola è applicata alla lettera, con l’unica differenza che a mettersi in gioco è l’uomo Simenon e non il suo doppio, lo scrittore.

Lungo tutta la sua opera Simenon abbraccia una vera e propria filosofia di vita che non può essere detta né cinica né indifferente, ma irrevocabilmente fatalista.

Negli Stati Uniti, separandosi dalla moglie che gli ha dato il primo figlio, sposa Denyse Ouimet, donna che lo renderà padre per altre tre volte e che, nel tempo, rivelerà gravi disturbi mentali.

E’ per una sorta di pudore che Simenon, a volte, “mantiene le distanze”, senza intromettersi nei comportamenti e nelle scelte  della sua stessa famiglia, anche quando sono sbagliate, se non addirittura dannose. Più spesso, però, è quel credo fatalista e fatale di lasciar vivere ad ogni costo che non gli consente d’intervenire in faccende di cui, non essendo lui il protagonista, non ha quasi il diritto di metter parola.

Tuttavia Simenon non è assente, anzi, sottolinea a più riprese che il suo primo mestiere è quello di padre; partecipa alla crescita dei figli attivamente, mostrando loro la bellezza del mondo per mezzo di piccole scoperte e di grandi viaggi, compie il possibile e tenta l’impossibile per soddisfare le esigenze dei suoi cari. Esigenze, però, che con l’andare degli anni si rivelano via via più pretenziose, specie nel caso della sua seconda moglie, che mina pericolosamente l’equilibrio della famiglia, più di tutti della figlia Marie-Jo.

La fine però non è rapida e di certo non è indolore: in quegli anni, per assistere la moglie, sempre più afflitta da gravi turbe psichiche, Simenon la privilegia di concessioni pazzesche, a discapito spesso dei figli, non dovutamente protetti  dalla nocività della madre.

Più le cose in famiglia vanno precipitando e più lo scrittore la sommerge di ricchezza.

Il dialogo c’è, ma forse quello più importante, quello che può davvero aiutare -come il dire “sì, si deve, no, non si deve” a qualcuno di cui si è responsabile e che si ama- resta silenzioso.

Nessuna indagine sulla vita interiore di ciascuno e nessuna domanda atta a comprendere meglio un disagio nascosto. E’ meglio non ferire, non invadere, non infierire.

La libertà e l’assenza di giudizio prima di tutto. E le distanze s’infittiscono, mentre i suoi figli crescono apparentemente” liberi” e nella più completa bambagia.

Lui che ha in uggia tutto ciò che è in odore di benessere borghese, sguazza nel lusso più sfrenato, si circonda dei papaveri dell’alta società e concede tutto ciò che può essere acquistabile, pensando che questo possa donare anche un benessere mentale. E’ un modo di aver cura, forse.

Paradossalmente, in tutta la sua magnifica opera, l’autore ha sempre avuto come punto focale la ricerca dell’uomo per l’uomo, fiutando le sue tracce ovunque: dai salotti alto borghesi ai bar del porto, dalle ambasciate ai postriboli. E l’ha scovato ovunque, ma l’ha visto più vero nella miseria e nella sfortuna, nei fallimenti a cui -anche deliberatamente- si vota e nell’impotenza ad agire.

Come a dire che la sofferenza rende l’uomo più uomo, sebbene quella che Simenon predilige, evidentemente, non è una sofferenza di tipo morale: è più legata al contesto, a delle condizioni esterne, che possono essere definite volgarmente economiche e di sussistenza.

Lo scrittore e l’uomo in questo caso non coincidono: il primo cerca l’uomo così com’è e lo trova nelle balere, nelle strade mal frequentate, nei visi sfatti, crudi e in fondo bonari delle donne e degli uomini privi di un avvenire preciso, ai quali facilmente si affeziona. Svela pienamente la condizione umana nella decadenza perchè è lì che si manifesta l’autenticità dell’esistenza: nelle debolezze e nelle miserie, nel tran tran quotidiano così infelice e così reale che persino gli odori e gli umori della pelle si fanno più vivi…si sputa sangue e si trasuda umanità.

Il secondo, l’uomo Simenon, resta fedele alla sua ricerca, ma solo romanticamente dal momento in cui dà tutto ciò che, secondo il suo punto di vista, allontana l’uomo dall’uomo.

E questa sembra essere una contraddizione in termini e di fatto.

Se così stanno le cose, vuol dire che le condizioni esteriori e contingenti dettano e dirigono quelle interiori di un individuo, che sono quindi conseguenze passive e non cause protagoniste e durature?

Quando la figlia si suicida, Simenon dirà che così doveva essere, che questo era il suo destino portato a compimento.

Alla fine troverà una donna semplice, senza ambizioni, senza sovrastrutture, amante e materna insieme, guardiana fedele della sua sorte, buona o cattiva che sia.

Alla fine non potrà più scrivere: il dolore per la perdita della figlia e forse anche il rimpianto e il senso di colpa per non aver dato un indiviso sostegno morale lo scavalcano.