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L’Iran e l’uso legittimo della forza

di Fabrizio Fiorini - 15/02/2010


 

 

La piazza è sempre più calda e a stento la si tiene a freno. In tutte le maggiori città e finanche nei piccoli centri è un continuo susseguirsi di manifestazioni di dissenso. Da una parte il governo, sempre più arroccato su posizioni conservatrici (posizioni che ormai riesce a tenere solo grazie all’ala protettrice della polizia, della magistratura e delle forze armate), dall’altra una società civile giovane, stanca di un Paese uscito già vecchio dagli ancora recenti eventi bellici e che si sente tradita da chi, solo pochi lustri addietro, aveva promesso grandi cambiamenti e benessere. I centri di comando delle forze di pubblica sicurezza si fanno portavoce dei diktat governativi: non saranno tollerate manifestazioni di sorta, ogni genere di assembramento sarà sciolto con la forza. Fanno sul serio, e si vede: durante i cortei è lo stesso servizio d’ordine interno che, con degli altoparlanti fissati sopra le automobili, esorta i manifestanti a lasciare la piazza, a sciogliersi, pur di preservare la loro sicurezza dalla repressione.  Il governo si chiude ulteriormente a ogni dialogo, barricandosi nel suo isolamento; arriva ad accusare l’opposizione di ricevere ordini da un’ostile potenza estera, rinfacciando al capo del suo maggiore partito di aver recepito tali direttive nel corso di un recente viaggio durante il quale avrebbe incontrato i rappresentanti delle istituzioni di tale Paese nemico. Ma la piazza continua ad infuocarsi, e il numero degli oppositori cresce di ora in ora, tanto sono determinati a fare sentire la propria voce di libertà e tanto si dimostrano incuranti di ogni appello alla calma e di ogni minaccia. Gli assembramenti, esplicitamente vietati, diventano inevitabili. Un nutrito gruppo si raduna presso una piazza, dove comincia a scandire slogan contro il governo, contro la polizia e contro le istituzioni. La misura è colma: i militari, dopo qualche carica, imbracciano le armi e mirano ai manifestanti, che tentano di ripararsi come possono dietro qualunque cosa si trovi nelle loro vicinanze; ma alcuni già cadono a terra. Altri, che riescono a imboccare una via di fuga, vengono inseguiti e bersagliati dal piombo dello Stato, come il cacciatore fa con la selvaggina. Alla fine della giornata, in una sola città, si conteranno numerosi feriti, centinaia di arresti, e cinque giovani vite spezzate. Ammazzati sul marciapiede. Teheran 2010? No: Reggio Emilia, 1960. Tanto per mettere in luce l’autorità del pulpito da cui le prediche provengono.

Chi in questi giorni è incorso nella disavventura di abbeverarsi dalle notizie – relative alla questione iraniana – della cosiddetta “grande informazione” avrà trovato, su autorevoli quotidiani, sui tele-radiogiornali nazionali e sui blog colorati alla “twitter”, cronache simili a questa. Con la non trascurabile differenza che quelle recenti relative alla Repubblica Islamica sono frutto di una interessata fantasia: a Reggio Emilia fecero fede gli esami autoptici, altro che “twitter”. Le falsificazioni sono state molteplici, e perlopiù grossolane: fotografie delle manifestazioni in sostegno della Rivoluzione islamica – al suo trentunesimo anniversario – accompagnate da notizie relative ai dozzinali raduni di dissenso; notizie rimbalzate chissà dove e chissà come sul web secondo cui ci sarebbe stato un manifestante ucciso, in chissà quale città, e che sarebbe stata opera della polizia. Un crescendo di esempi di pessimo giornalismo, in cui la più perversa fantasia si è congiunta carnalmente alla volontà di mistificazione, partorendo una mostruosa mistione di mediocrità e disinformazione pilotata.

Un principio giuridico, tanto profondo quanto lineare, si è conservato pressoché immutato transitando attraverso i millenni: quello secondo cui allo Stato (e, nello specifico, alle forze armate e alla polizia) spetti l’uso legittimo della forza. E’ il fondamento su cui si basa la conservazione fisica delle strutture di patto sociale, il mezzo attraverso il quale l’uomo delega a una forza superiore l’affermazione – talvolta forzosa – della giustizia, della legge, della convenzione, liberandola così dalla doppiezza, dalla parzialità e dalla forza delle passioni di cui il singolo essere umano è naturalmente portatore. Si può certamente metterlo in discussione, e addirittura sfidarlo; anzi, ben venga. La storia del mondo è piena di queste rotture: sono queste che hanno alimentato il motore della storia, che hanno determinato il dinamismo del mondo e delle nazioni, che ne hanno mutato le sorti; e tali rotture hanno preso il nome di “guerre civili”, di “rivoluzioni”, di “rivolte”. Ma il principio permane immutabile: a un detentore dell’uso legittimo della forza se ne sostituisce un altro. Ora: secondo alcuni, e secondo le sirene della libera informazione qui in Occidente, questo principio deve valere per tutti e per sempre, con l’eccezione dell’Iran islamico. Colà dei gruppetti di contestatori (eterodiretti o meno che siano) devono avere la libertà di devastare città, saccheggiare, assaltare banche e uffici dello Stato, manifestare apertamente la propria volontà di sovvertire le istituzioni. La polizia, chiaramente, dovrebbe stare a guardare compiaciuta; anzi, a sentire gli starnazzanti tromboni del giornalismo addomesticato, è scandaloso che non passi dalla parte dei manifestanti. Questa è la tara che grava sulle loro povere coscienze: lo scandalo. Reputano scandaloso che un Paese sovrano voglia tutelare il suo legittimo modello di sviluppo così diverso dal (sotto)sviluppo cui ci hanno abituati, che voglia farlo autodeterminandosi liberamente, difendendo la sua volontà, se necessario, anche con la forza.

L’ordinamento costituzionale dell’Iran è allo stesso tempo complesso e funzionale. L’inserimento di strutture parlamentari, elettive e rappresentative nel più ampio schema della velayat-e-faqih (tutela, guida del giuriesperto), prosecuzione temporale e prassi politico-rivoluzionaria della teologica velayat-e-amr, invera nella contingenza politica del XXI secolo lo    “gnôthi seautón”, il “conosci te stesso” comandato all’uomo dalla sapienza greca. E’ l’unica strada che conduce alla libertà dello Stato e al benessere del popolo: l’affermazione della propria identità svincolata da ogni condizionamento. Un modello di sviluppo sovrano nel quale trova spazio una dialettica politica interna e un pluralismo sociale molto rilevanti, checché ne dica la propaganda di questa parte del mondo. L’Iran è infatti un Paese in cui – nel quadro del sistema islamico – vige il sostanziale rispetto delle libertà civili, è garantito il diritto al dissenso nei confronti della gestione del potere (provate a fare una manifestazione – non necessariamente politica, anche di aeromodellismo – in Arabia USaudita: poi fatemi sapere), è garantita la libertà di culto e di manifestazione dello stesso per le principali religioni minoritarie ed esiste un pluralismo partitico che non ha pari in tutta la regione vicino e medio-orientale. Non sono consentiti i partiti dichiaratamente anti-islamici ovvero le formazioni che mettano in discussione l’ordinamento islamico della Repubblica. In Italia, invece, la Carta costituzionale laica, democratica e – non ultimo – antifascista vieta espressamente che la forma repubblicana dello Stato possa essere oggetto di revisione costituzionale, e – in deroga al suo art. 48 – proibisce la costituzione di partiti non-antifascisti. Eppure qui nessuno si straccia le vesti, nessuno leva piagnistei perché “non c’è democrazia”.

Ma torniamo alle manifestazioni. Piaccia o meno, in Iran il popolo è con lo Stato; anzi, il popolo è lo Stato. Non necessariamente con il governo o con Ahmadinejad, nei confronti del quale alcuni settori della società possono essere critici, ma con la Repubblica Islamica. E’ nelle strutture dello Stato e sotto la sua tutela che gli iraniani manifestano la loro identità di popolo. Nel nome dello Stato hanno combattuto, hanno sfidato e sfidano l’arroganza delle più forti e più guerrafondaie potenze della Terra e hanno costruito una società della cui natura e della cui sovranità vanno giustamente fieri. Si è visto la settimana scorsa a Teheran: la manifestazione di commemorazione della Rivoluzione è stata una festa del popolo, delle forze armate, degli studenti dei comuni cittadini, che si sono riuniti in pace – insieme ai propri rappresentanti – per gridare in faccia all’Occidente che non lo temono e che non si azzardino a pensare di poterli opprimere. Sono stati la voce possente di ogni uomo libero della Terra, che sovente di questa voce è privato. Anche in questa occasione non hanno mancato di fare la loro comparsa i twitterini colorati di verde, che si sono dimostrati per quello che sono: pochi e violenti. Ma per l’Occidente gli interlocutori sono loro, sono loro che rappresentano il popolo dell’Iran (si vede che sono proprio messi male); anche questa volta, infatti, non sono riusciti a fare a meno di accusare la polizia iraniana di aver avuto ragione di una manifestazione sovversiva, e hanno mosso queste accuse facendo ricorso alla più miserevole e ipocrita delle lamentele: quella di chi “va per suonare ma viene suonato”. Alla polizia di Teheran bisogna semmai rimproverare una tolleranza e una pazienza davvero ‘francescane’, visti la diffusa devastazione e gli effetti violenti che le manifestazioni di questi gruppuscoli  riescono ogni volta a sortire. Avessero fatto come Tambroni, i ‘verdi’ ora farebbero meno i gradassi.

E l’Italia? Duole il solo parlarne, tanta è la vergogna di cui si è coperta. Il capo del governo, con stuolo di ministri al seguito, è andato in viaggio premio in Israele, e da lì ha mosso un attacco all’Iran che neanche gli israeliani stessi si sognavano. Sposando toto corde la dottrina guerrafondaia e di supremazia del sionismo, ha detto che la Repubblica Islamica va fermata. Che il suo governo è il più grande pericolo per la pace dell’umanità. Che il suo presidente è un sanguinario. Ha affermato che chi nega l’olocausto non può sviluppare studi sul nucleare. Ha accusato uno Stato sovrano di essere l’avanguardia armata del terrorismo e il retroterra politico di ogni malefatta. Ha offeso la memoria di migliaia di vittime della violenza dello Stato ebraico. Ha troncato ogni cooperazione economica. Ha auspicato sanzioni internazionali e inasprimento dei rapporti diplomatici, e ha chiesto all’Europa e al mondo intero di seguire l’Italia (e Israele) su questa strada. E gli iraniani? Pensate, non gli hanno nemmeno detto “grazie”. Hanno manifestato sotto la nostra ambasciata. Sotto l’ambasciata di Teheran a Roma un giorno sì e l’altro pure organizzano manifestazioni di dissenso, spesso neanche troppo pacifiche. Ma una manifestazione contro la nostra rappresentanza diplomatica è stata lesa maestà. Le più rumorose rimostranze sono state quelle del ministro Frattini che, dimenticandosi che fino a un’ora prima si era lamentato della mancanza di libertà di manifestazione in Iran, ha inoltre offeso i manifestanti definendoli «basiji travestiti da civili». Proprio non l’ha digerita il Ministro questa protesta; chissà se è arrivato a comprenderne almeno i motivi. Ancora un po’ e gli mandava la digos.

Il governo iraniano, dal canto suo, ha risposto alle flatulenze verbali dei nostri rappresentanti con fermezza e compassione. La fermezza che si addice a un popolo che non ha intenzione di svendere la sua libertà e che non è intimorito né dalle più ostili superpotenze né tantomeno da Frattini. La compassione di chi, con mestizia e comprensione, assiste alla nostra nazione – altrimenti amica – piegata agli interessi di chi l’ha sconfitta in guerra e tuttora la sottomette.

Ha proprio ragione chi sostiene che quello in atto sia uno scontro di civiltà. Ma, in questo scontro, di civiltà ce n’è una sola e – ahinoi – non è la nostra