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Argentina: la comunicazione non è merce ma bene comune

di Juan Gabriel Mariotto - Giulietto Chiesa - 16/02/2010

 

In quest’intervista esclusiva, il responsabile del Ministero della comunicazione della “presidenta” Kirchner, illustra le prospettive della nuova legge di regolamentazione del sistema radiotelevisivo della quale è stato uno dei più influenti ispiratori, che assegna il 33% delle frequenze a soggetti del privato sociale, che non perseguono finalità lucrative. È una vera e propria rivoluzione che sta contagiando anche altri Paesi latinoamericani.

Intervista con Juan Gabriel Mariotto di Giulietto Chiesa

La crisi del cosiddetto villaggio globale è di fronte a tutti. Questa crisi riguarda in primo luogo la società della comunicazione-informazione. Le trasformazioni tecnologiche sono state come uno tsunami, per metà innovativo, per l’altra metà distruttivo. Una delle vittime è stato il giornalismo come "quarto potere", ormai quasi dovunque soggiogato dai grandi centri proprietari del controllo sui media, o dai governi e dai regimi che ne controllano i contenuti.
Qual è la situazione nel vostro Paese e come è nata, perché e da quali stimoli è partita l’idea di una nuova "legge sui servizi di comunicazione audiovisuale” in Argentina?
Il decreto-legge 22285, cancellato lo scorso ottobre, era il prodotto dell’ultima dittatura argentina. I suoi postulati furono fissati in base alla dottrina delle sicurezza nazionale, che è stato un ingranaggio del terrorismo di Stato. È da quella dottrina che promana lo spirito coercitivo della libertà di espressione, l’autorizzazione alla pratica della censura, un ruolo sussidiario dello Stato, una formula che esclude le altre voci, diverse da quelle commerciali. A tutto ciò si aggiunsero, negli anni ‘90, modifiche che accrebbero nelle normative, gli aspetti neoliberisti già presenti.

Queste modifiche favorirono l’accentramento dei sistemi multimediali, centralizzarono le produzioni in quei sistemi, permisero una crescita esponenziale di concentrazioni proprietarie, mentre il sistema diventava sempre più a conduzione estera.

Prendo solo alcuni dati di riferimento. Nel trimestre giugno-luglio-agosto 2009, il 67% di ciò che è stato trasmesso in provincia, altro non era che repliche di trasmissioni dalla capitale. Di questo materiale l’84% proveniva dai due principali gruppi mediatici: Canale 11 (Gruppo Telefonica) e Canale 13 (Gruppo Clarin).

Mettere a punto una nuova legge d’ispirazione democratica, era un debito che tutti i governi eletti con voto popolare dopo il 1983 avevano contratto con la cittadinanza. Il principio del diritto alla comunicazione come diritto umano fondamentale, imponeva di creare una normativa che lo rendesse praticabile. Il fondamento di questo principio era che la libertà di espressione è di tutti e non solo dei giornalisti, e ancor meno deve essere un’esclusività dei gruppi proprietari dei media.

Era indispensabile che la nuova normativa mettesse un limite alla concentrazione proprietaria dei media e, al tempo stesso, consentisse l’ingresso nel mercato di altri soggetti prestatori di servizi informativo-comunicativi. Lo stimolo, per rispondere a parte della sua domanda, venne dalla volontà di
pensare a una comunicazione davvero pluralista, diversa dal passato, nella quale deve comandare il principio che la parola - in senso lato le idee, in
forma verbale o di immagini - deve essere consentita al più ampio numero possibile di individui.
Pensiamo con questa legge di aver cominciato a percorrere questo cammino.

La legge, pur approvata a larga maggioranza dai due rami del vostro Parlamento, ha incontrato una forte opposizione dai grandi media nazionali privati, che hanno accusato la “presidenta” Cristina Kirchner di voler controllare il sistema informativo. Come risponde a queste accuse?

Penso che queste accuse siano assolutamente false e provenienti da chi ha interessi da difendere. Si può dire con sicurezza: se la “presidenta” avesse
voluto controllare i media, la miglior cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stata di non fare niente del tutto, lasciando così com’era la vecchia legge.
In tal modo l’organo di controllo sarebbe rimasto sotto il controllo diretto del potere esecutivo, che per giunta non aveva obbligo di decidere collegialmente, né era tenuto a presentare informazioni al Parlamento. In base alle norme che vigevano era possibile sospendere le trasmissioni su problemi di interesse governativo, adducendo ragioni di “ordine pubblico”.
In verità i grandi media privati difendono i loro interessi corporativi, dato che, con l’introduzione delle nuove norme, dovranno disfarsi, in un periodo
di tempo convenuto, di una parte dei propri mezzi di comunicazione, visto che le nuove disposizioni limitano la concentrazione e aprono lo spazio a fornitori di servizi senza fini di lucro, riservandogli il 33% dello spettro delle frequenze.
Affermare che le organizzazioni senza fini di lucro che accedono alle licenze siano finanziate dal Governo e rispondano ai suoi interessi, manifesta
il disprezzo che questi settori politici e culturali nutrono nei confronti di ogni forma di organizzazione popolare.
Cosa significa per voi, in base alla nuova legge, lo “spazio pubblico”? C'è la necessità di uno spazio pubblico? Non bastano le reti e i giornali privati a garantire il pluralismo?
Attualmente, i mezzi di comunicazione costituiscono essi stessi grande parte dello spazio pubblico. Sono i grandi protagonisti di questo spazio. Sono in grado di creare discussioni e interrogativi, ma anche chiuderli e farli tacere. Sono loro che costruiscono il sentire comune ed è difficile collocarsi

al di fuori dei limiti che essi creano. Noi non siamo partigiani di un determinismo ad oltranza che ritiene che i media obblighino a pensare in un determinato modo, ma siamo convinti che essi siano in grado generalmente, di orientare l’opinione pubblica. Il pluralismo che abbiamo voluto affermare con la nuova legge limita il potere dei media che hanno la stessa voce; di quelli che appartengono allo stesso proprietario, oppure che agiscono con una strategia di comunicazione troppo estesa ed avvolgente. È il caso del Gruppo Clarìn, principale gruppo mediatico del Paese, che possiede 191 licenze di cavo (12 di televisione federale via cavo, 35 di televisione cavo SA, 59 multicanali, 35 digitali via cavo). A queste si deve aggiungere il 20% delle azioni di Supercanal. Tutto ciò rappresenta il 60% degli abbonati argentini, in un Paese in cui il cavo ha una penetrazione del 60%.

Si deve ancora sommare il complesso delle altre imprese del Gruppo: Arte Grafica Rioplatense S.A. (editoriale), Arte Grafico Editorial Argentino S.A, Il
Clarin (quotidiano di massima tiratura dell’Argentina), Olé (principale giornale sportivo), la rivista Genios, la rivista Elle, il giornale serale free press La Razon, Impripost, Papel Prensa (impresa cartiera per quotidiani, associata al giornale La Nacion e Lo Estrado), Cimeco S.A. (in società con il quotidiano La Nacion), La Voz de l’Interior (giornale della provincia di Cordoba), Los Andes (giornale della provincia di Mendoza), Dyn (agenzia di notizie, quota azionaria), Artear S.A.Canal 13 (tv in chiaro), Tn (segnale di notizie via cavo), Volver (segnale di notizie via cavo), Magazine (segnale di notizie via cavo), Metro (notizie via cavo), Tele Red Imagen S.A., TyC Sport (tv cavo), Television Satellital Codificada S.A., Torneos y Competencias (fino a poco tempo fa depositaria dei diritti esclusivi per il calcio), Canale 7 di Bahia Blanca, Canale 12 di Cordoba, Canale 6 di Bariloche, Galaxy Entertainment Argentina, Direct Tv, Pol-Ka (compagnia di produzione televisiva), Patagonik Film Group S.A. (Associato con Buena Vista/Disney e Telefonica Media, produzioni cinematografiche), Clarin Global, Clarin.com, Ubbi Buscator (Internet), Prima, Ciudad Internet, Datamarkets, Fullzero, Teledeportes S.A., GC Gestion Compartida S.A., Radio Mitre, Fm100, Inversora de Eventos S.A., Ferias y Esposiciones S.A. Feriagro. E l’elenco non finisce qui.
Come si vede, questo gruppo controlla una grande quantità di media, ma anche rami diversi, tanto dell’industria culturale come di attività economiche
sparse. In ogni caso è palese la sua intenzione di occupare tutti i campi della comunicazione.
Il pluralismo si incoraggia favorendo e sostenendo l’esistenza di diversi tipi di fornitori di servizi informativi.
Sotto questo aspetto la legge 26522 recentemente approvata, definisce tre tipi di prestatori di servizio: pubblico (Stato nazionale, stati provinciali,
municipalità, università pubbliche nazionali, istituti universitari pubblici, Chiesa cattolica, popolazioni indigene); privato con fini di lucro (settore
commerciale), privato senza fini di lucro (sindacati, cooperative, organizzazioni libere del popolo, fondazioni, etc.). A quest’ultimo settore, e vogliamo
evidenziare l’importanza di questa norma, viene riservato il 33% del mercato totale. Nello stesso tempo il limite alla moltiplicazione delle licenze permette di rendere effettivo l’ingresso di nuovi operatori.

Sembra che in questa nuova legge l’Autorità federale dei servizi di comunicazione audiovisuale sia saldamente nelle mani dell’esecutivo.
Non esiste il rischio che il “pubblico”si trasformi in “governativo” e che i cittadini passino dalla padella del dominio assoluto del privato e della pubblicità alla brace del governo di turno?

Questa domanda le viene dall’Italia, dove il monopolio privato si è addirittura raddoppiato con il dominio dello spazio pubblico informativo da parte
dell’unico monopolista privato. Come ho già detto, l’autorità deputata all’applicazione della legge precedente era completamente nelle mani dell’esecutivo, e questo non aveva niente a che vedere con lo stato di diritto. La normativa prevedeva che il direttore dell’organismo di controllo fosse costituito da un membro di ciascuna delle forze armate e, tra l’altro, vi figuravano con funzione consultiva, anche i servizi segreti. La legge 26522 stabilisce che l’Autorità federale dei servizi di comunicazione audiovisiva sarà governata da un direttivo composto da un presidente e sei direttori. Solo il presidente e uno dei direttori sono proposti dal governo nazionale. Inoltre si crea una bicamerale (composta da 8 deputati e 8 senatori) che, tra le altre loro funzioni, designano 3 direttori: uno per la per la maggioranza parlamentare o per la prima minoranza, uno per la seconda minoranza, un terzo per la terza minoranza. Gli altri due direttori sono eletti dal Consiglio federale dei servizi di comunicazione audiovisiva, con la clausola che uno dei due deve essere rappresentante del settore accademico.
Questa composizione, inoltre, sarà indipendente dall’elezione presidenziale, in quanto si verifica due anni dopo che quel mandato è stato definito e
durerà in carica quattro anni. Esiste poi un’altra serie di controlli incrociati. In particolare il già menzionato Consiglio federale che è composto
includendo rappresentanti la provincia e la città autonoma di Buenos Aires, il commercio, le attività senza fine di lucro, i sindacati di settore, le università, i popoli indigeni.
Dal punto di vista della legislazione comparata, non esiste in nessun Paese presidenzialista come il nostro, un organismo di gestione così diversificato
come quello proposto dalla nostra legge attuale.

Qual è il controllo della società civile? C’è un rapporto stretto tra democrazia nella comunicazione-informazione e democrazia tout court, nel senso che la seconda non può esistere senza la prima. Questa vostra legge affronta questo problema?

La nostra battaglia di militanti del settore della comunicazione e della cultura per sostituire la legge della dittatura, è cominciata 26 anni fa, cioè dal
momento in cui, nel 1983, si ritornò allo stato di diritto. Riteniamo che una piena democrazia sia impossibile senza una piena democrazia della
comunicazione, specialmente senza una democrazia dei mezzi elettronici, che sono appunto quelli la cui produzione è consumata dal grosso della popolazione.
Nella società attuale i media occupano uno spazio predominante nella configurazione dei temi di interesse e nella costruzione della soggettività
individuale e sociale. Senza pluralismo e diversità in questi campi siamo condannati ad ascoltare, moltiplicata all’infinito, un’unica voce, quale che
sia il formato e la piattaforma mediatica che la racconta.
Crediamo che la distribuzione più giusta del diritto alla parola sia intimamente legata alla costruzione di un modello di Paese più giusto e solidale.
Riguardo ai controlli della società civile e al modo come la nuova normativa si riferisca a questo aspetto, oltre alla composizione del Consiglio federale
di cui ho già detto, va considerato il ruolo delle consultazioni pubbliche previste.
Ad esempio il rinnovo delle licenze deve avvenire dopo un’udienza pubblica nella località dove il servizio è stato prestato; altrettanto si deve fare per
comporre l’elenco degli eventi sportivi e d’interesse collettivo che la televisione in chiaro deve trasmettere e ogni volta che il difensore del pubblico lo consideri necessario.
I registri dei prestatori di servizi informativocomunicativi devono essere aperti alla consultazione dei cittadini e, ovviamente, la società civile ha la
garanzia della sua partecipazione effettiva al sistema mediatico mediante le sue organizzazioni.

Una redistribuzione delle frequenze ogni dieci anni sarebbe, in Italia, una rivoluzione. È possibile farla in Argentina?

La legge non propone questo ma che le licenze sono assegnate per 10 anni. Se non sono state violate le norme e la consultazione pubblica è favorevole, la licenza sarà rinnovata per altri 10 anni. Terminato questo periodo la licenza viene messa a bando e nulla impedisce ai precedenti detentori di parteciparvi.
Però è necessario che sia un concorso vero, con diversi concorrenti. La legge precedente, del resto, prevedeva una concessione preliminare di 15
anni e un rinnovo per altri 10, ma si trattava di un rinnovo praticamente automatico. Ovviamente i grandi gruppi proprietari ritengono che questi
spazi siano troppo ristretti e hanno elaborato strategie differenziate, incluse quelle legali, per impedire prima l’approvazione della legge e ora la sua
applicazione. Ma l’azione del Goveno procede nel senso detto, cioè che la comunicazione è un bene pubblico e non una merce tra le altre. Noi pensiamo che i detentori di queste licenze hanno il privilegio di sfruttare un servizio che è pubblico e, per questa ragione, debbono adeguarsi ai controlli e ai limiti temporali stabiliti dalla legge.

Nelle opinioni pubbliche non c’è ancora l’idea che l’informazione sia un diritto umano fondamentale. Per Lei lo è?

La pubblica opinione è una costruzione potentemente percorsa dai mezzi di comunicazione. Ciò che si può osservare è un lento movimento nel corso del quale, ad ogni momento, settori diversi vanno prendendo coscienza di ciò e organizzano azioni per difenderlo. Non è un caso che tra le voci
che si sono levate per difendere la nuova legge vi siano stati organismi che difendono i diritti umani, come il Cels (Centro di studi legali e sociali), e come Le nonne e madri di Plaza de Majo. Come non è stato casuale l’appoggio alla legge dato da Frank La Rue, relatore per la libertà d’espressione delle Nazioni unite.
La legge 26522, all’articolo 2 così si esprime:
“L’attività dei servizi di comunicazione audiovisiva è considerata attività di interesse pubblico, avente carattere fondamentale per lo sviluppo socio-culturale della popolazione, attraverso il quale realizzare il diritto umano inalienabile di espressione, di ricevere, diffondere, ricercare informazioni, idee e opinioni”.
Questa legge è assolutamente in sintonia con gli standard internazionali dei diritti umani e si propone di superare le limitazioni esistenti al diritto
all’informazione che derivano dalla struttura concentrata dei sistemi mediali attuali e dalla inadeguatezza dei limiti del controllo statale. Nel sistema
che ci siamo lasciati alle spalle si è impedito a diversi settori della popolazione di far conoscere le proprie opinioni liberamente e, nello stesso tempo, si è privato il resto della popolazione di avere accesso alle informazioni prodotte da gruppi diversi.
La legge è centrata sul diritto alla libertà d’espressione e fondata sugli strumenti internazionali dei diritti umani. Esplicitamente fa riferimento ai pronunciamenti degli organi politici dell’Onu e dell’Organizzazione degli Stati americani in materia di libertà d’espressione. Sotto questo profilo, e
come risposta a ciò che si è affermato da parte dei gruppi che esprimono gli interessi dei media concentrati, secondo cui il miglior modo di difendere la
libertà di espressione è quello di non regolamentare il settore perché regolare la materia equivarrebbe a “mettere la mordacchia”, noi possiamo rispondere che il diritto internazionale dei diritti umani ritiene che il diritto alla libertà di espressione non è assoluto e ammette restrizioni e regolamentazioni.
Da parte sua la Corte interamericana dei diritti umani ha rilevato che “l’attività dei mezzi di comunicazione non solo può, ma deve essere regolata
dallo Stato. Questa regolazione, ovviamente, deve essere uniformata e protetta dagli standard del diritto alla libertà di espressione”. (Corte Didh,
Opinion Consultiva, OC-5/85, “La formazione obbligatoria collegiale dei giornalisti”, art.13 e 29 della Convenzione americana sui diritti umani del
13/11/1985).

Perché avete previsto nella legge di difendere la produzione nazionale? Era necessario?

Sì, senza alcun dubbio. I mezzi di comunicazione debbono essere concepiti come organizzazioni complesse, che operano mediante prodotti di valore
doppio, materiale e simbolico. E, nello stesso tempo, che operano come attori politici ed economici.
In questo senso la produzione audiovisiva, nella sua dimensione simbolica, ha a che fare con la fisionomia della cultura di un popolo. È responsabilità
dello Stato promuovere la produzione e la diffusione delle proprie culture. In questa direzione si è pronunciata la Convenzione dell’Unesco sulla
protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali (2005).
Se guardiamo alla situazione precedente, possiamo vedere che una regolazione a protezione dell’industria culturale nazionale era necessaria di fronte a una crescente dipendenza sia dalla invasione esterna sul sistema, sia da una forte centralizzazione della produzione a Buenos Aires. Con le nuove disposizioni non solo possiamo promuovere la diversificazione culturale, ma anche sviluppare l’industria audiovisiva che prima era concentrata in
poche mani. Conseguenza immediata è stata la generazione di nuovi posti di lavoro sia nel settore specifico della comunicazione e della cultura, sia nei settori collegati.

La televisione, in una società moderna, costituisce non solo il più potente mezzo di comunicazione, ma anche il più potente mezzo di educazione (o di diseducazione) popolare. Una cosa è certa: la tv conta di più dell’insegnamento scolastico e perfino, in molti casi, dell’educazione familiare.
Questa legge contiene i necessari antidoti alla degenerazione pubblicitaria e all’imbarbarimento culturale? Nei pochi giorni che ho recentemente trascorso a Buenos Aires ho visto della pessima televisione, più o meno come in Italia.

In linea di principio la legge non obbliga alla qualità.
La “televisione spazzatura” continuerà a esistere. La legge può aprire lo spazio a diversi fornitori di servizi che interpretino la comunicazione e l’intrattenimento sotto un’altra prospettiva e, nello stesso tempo, la legge rafforza i mezzi pubblici di comunicazione. D’altro lato viene creato il
Consiglio per la comunicazione audiovisiva per l’infanzia, che avrà tra i suoi compiti l’elaborazione di proposte per aumentare la qualità della programmazione rivolta ai bambini, alle bambine e agli adolescenti.

È questo un impegno dello Stato. Nello stesso tempo tutti i contenuti, sia pubblicitari, sia della programmazione, devono assoggettarsi a quanto stabilito dalla legge, cioè: non possono esserci contenuti che incitino a discriminazioni sulla razza, il colore della pelle, sul sesso, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche, sull’origine sociale e su tutto ciò che offenda la dignità umana, l’ambiente, la salute, l’integrità dei bambini.
Inoltre chi produce, trasmette o in qualsiasi forma tragga beneficio dalle trasmissioni, sarà vincolato al rispetto delle leggi sulla pubblicità del tabacco, contro l’alcolismo, etc. D’altro canto, sono stati istituiti premi attraverso i quali si sottolineano i valori legati ai diritti umani, la diversità culturale, le questioni ni connesse alla diversità di genere, quelle dell’infanzia e tutti quei valori che intendiamo promuovere.
La qualità è un obiettivo che non può essere imposto per legge, ma può essere appoggiato e stimolato.

La battaglia sui media e nei media vede l’Argentina di Cristina Kirchner in primo piano. Più avanti del Venezuela di Chavez? Più indietro? Da un’altra parte?

La squadra di esperti che ha preparato la legge 26522 ha fatto uso della legislazione comparata e lo si può vedere esaminandone il testo.
Sono stati usati elementi della legislazione degli Stati Uniti, del Canada e di alcuni Paesi dell’Unione europea, ma anche della Repubblica del Venezuela.
Questo potrebbe far pensare che ci siamo mossi dietro al Venezuela per una avanzata contro la prospettiva liberal-conservatrice del sistema mediatico.   E invece, come ha rilevato il relatore dell’Onu per la libertà di espressione, la nuova normativa mette l’Argentina in posizione di avanguardia in questo processo.
E parimenti, si può dire che riservare il 33% dello spazio delle frequenze radiotelevisive per il settore privato senza fini di lucro, colloca il mio Paese in
posizione di punta nell’interpretare la comunicazione come un bene sociale e il diritto all’informazione come un diritto umano fondamentale. A questo
proposito è interessante ricordare ciò che il direttore di Telesur, Andres Izarra, ha detto in un’intervista rilasciata al quotidiano Pagina 12, il 16 novembre scorso: “in Argentina la legislazione è più avanzata che in Venezuela: un terzo degli spazi delle frequenze viene riconosciuto in quel Paese alle comunità organizzate, alle Ong. Ciò significa che la legge conferisce ai media alternativi di reclamare spazi per la comunicazione. Penso che ciò sarà
molto positivo per l’Argentina, perchè la mette in sintonia con i tempi. Lo spazio comunicativo non è più soltanto lo spazio dell’oligarchia né quello dei
privati: si sta democratizzando. Questo è un dato comune dei nostri processi. Compaiono nuovi attori che prima non si sarebbero sognati di entrare
nella comunicazione”.
Andres Izarra così argomentava, illustrando come la nostra legge sta influenzando altri Paesi latinoamericani: “dopo l’approvazione della legge in
Argentina, anche in Ecuador ha preso avvio la stessa discussione, e adesso si sta trasformando in una legge per regolamentare i media. Perfino in
Messico c’è stato un risveglio di dibattito su questo punto.
La legge televisiva è stata respinta dalla Corte Suprema [...]. L’altro fattore comune a tutti questi dibattiti è il tema del recupero del ruolo pubblico.
L’Equador non aveva nessun canale di televisione pubblica; adesso lo ha grazie a Correa; in Argentina sono apparsi nuovi canali pubblici come
Encuentro, che ha un grande successo; in Venezuela hanno cominciato a trasmettere tre nuovi canali pubblici: Vtv, Tevés (Fundacion televisora
venezolana social), e Vive television.

 

Juan Gabriel Mariotto (Lomas de Zamora, Provincia de Buenos Aires, 1964) è un docente universitario e politico argentino, attualmente a capo del Comité Federal de Radiodifusión (COMFER).
Laureato in Giornalismo e Comunicazione Sociale, è titolare di una cattedra universitaria di Comunicazione e Cultura.
Da Mariotto sono provenuti i maggiori stimoli e contributi che hanno portato all'approvazione della Legge sui Servizi e la Comunicazione Audiovisiva, promulgata il 10 ottobre 2009.
Juan Gabriel Mariotto illustrerà la legge a Roma durante un incontro intitolato “La Comunicazione come un Bene Comune”, il 23 febbraio 2010, organizzato da FNSI, l'associazione Megachip e la rivista Cometa
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