Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Le tre società della crescita

Le tre società della crescita

di Eugenio Orso - 16/02/2010

Fonte: pauperclass

Continua la presentazione dei capitoli della mia parte [Alienazioni e uomo precario] di un futuro libro, scritto a due mani con il filosofo Costanzo Preve.

 

 

Oggi pubblico la terza parte del quarto capitolo, che riguarda i lineamenti principali di quelle che io chiamo le tre società della crescita: la società postfeudale e precapitalistica caratterizzata dal superamento dell'Evo Medio, della sua dimensione culturale, e dall'affermazione delle pratiche e delle politiche mercantilistiche, la società caratterizzata dal modo di produzione capitalistico del secondo millennio e la nuova società che si è delineata, nel periodo di transizione che abbiamo alle spalle, 1989/1990 - 2009, in cui l'ordine sociale precedente e i rapporti [sociali] di produzione hanno subito rilevanti modificazioni.

 

 

Concludo, dunque, con la terza società della crescita: il nuovo modo di produzione sociale, la profonda modificazione dell’ordine sociale e il capitalismo “transegenetico”, a scorrimento liquido dei capitali finanziari, che si stanno affermando nei nostri anni. 

 

 

 

 

Per la nascita di quella che io chiamo la terza società della crescita, che sta muovendo i primi passi nel nostro presente, non è stata certo sufficiente la mera vittoria nella terza guerra mondiale del modello liberista anglo-americano dell’economia dei servizi [definiamolo pure in tal modo, sinteticamente] sul modello collettivista sovietico quale principale concorrente planetario, per produrre un simile, storico risultato.

Il dato strategico-politico-militare è certo rilevante, ma non è l’unico ad influire sui grandi cambiamenti, sulle “svolte di Evo”, perché l’elaborazione e l’imposizione di nuovi aspetti culturali ed ideologici possono avere pari se non superiore importanza.

Parimenti, la manipolazione dell’ordine sociale e le nuove regole dettate – in un clima di evidente deregolamentazione che ha favorito la libera circolazione planetaria dei capitali – per il funzionamento dei sistemi economici e degli scambi internazionali non devono essere trascurate o sottostimate, perché frutto di un mutamento culturale che in primo luogo ha investito le élite e poi ha avuto pesanti ricadute nella società, in termini di sconvolgimento dei passati equilibri sociali, di precarizzazione del Lavoro e di flessibilizzazione delle masse, e questo cambiamento culturale ha costituito l’indispensabile premessa delle grandi “innovazioni” in campo economico, finanziario, commerciale e nella macchina dell’organizzazione sociale.

Lo stesso cambiamento che ha investito in questi ultimi due decenni i modelli di business delle imprese, a partire da quelle del credito in campo micro-economico, è frutto della vincente “rivolta delle élite” nord-americane e della loro metamorfosi in classe globale, nonché dell’”allargamento dei mercati” e della progressiva rimozione di tutti gli ostacoli allo scorrimento liquido dei capitali, e la stessa origine rivela la moltiplicazione dei prodotti finanziari nonché l’aumento vertiginoso, dagli anni ottanta, dei volumi delle contrattazioni di borsa.

La rottura del Patto fra Stato e Mercato [si legga il Capitale] ha avuto grande importanza ed ha, per così dire, ribaltato i reciproci rapporti di forza, con lo Stato, in particolare nella parte occidentale e settentrionale del mondo, che è stato “imbrigliato” da accordi internazionali e soggetto all’autorità di organismi sopranazionali – ho accennato prima alla OMC, per la sua importanza planetaria, ma un discorso analogo vale per l’Unione Europea Monetaria e per il ruolo effettivo di FMI e Banca Mondiale – diventando un testimone dello sviluppo del Mercato e della libera circolazione dei capitali, quando non un utile veicolo [e un complice nella controriforma de-emancipatrice in atto] per privatizzare, con sempre meno riguardo alla salvaguardia dei “beni pubblici puri”, per vendere il patrimonio pubblico, per comprimere la spesa sociale e “riformare” il costoso Welfare riducendone progressivamente i servizi.

Naturalmente la globalizzazione finanziaria, economica, commerciale, salariale, non sarebbe stata possibile, nei termini in cui si è concretamente manifestata, in un mondo ancora bipolare, con il contrappeso del competitore sovietico e con il permanere dell’alternativa al liberalcapitalismo da lui rappresentata.

Se la storia avesse preso quest’altra direzione, con la sopravvivenza della vecchia Unione Sovietica, o ancor meglio in seguito ad una sua ripresa di potenza – in luogo del rapido e dissennato smantellamento gorbacioviano/ eltsiniano – tutt’al più gli Stati Uniti, con Europa occidentale e Giappone al seguito, ma forse anche la stessa Cina attratta da mercatismo e “modernizzazione” capital-comunista-denghiana dopo la morte di Mao, avrebbero costituito una vasta area di “libero scambio”, e un reame allargato del dollaro, temperando un po’ la libertà di circolazione dei capitali con l’esigenza di mantenere in piedi forme efficaci di stato sociale, particolarmente in Europa occidentale, ed evitare repentini impoverimenti di massa, permanendo minacciosa l’attrattiva ideologica e l’alternativa sistemica rappresentata dal polo avverso.

Così non è stato e le porte di un nuovo Evo della storia umana si sono prematuramente aperte, a mio sommesso avviso nel modo peggiore.

La nuova concezione della ricchezza, finanziaria, immateriale, legata al monopolio della conoscenza scientifica e degli altri saperi, fondata, di fatto, sulla “creazione del valore finanziario, azionario e borsistico” [paradigma già presente in Capitalism and Freedom di Milton Friedman del 1962] sembra oggi sussumere completamente persino la classica estorsione del pluslavoro/ plusvalore svelata da Marx nell’ottocento, a vantaggio del profitto capitalistico e cruciale nello scorso millennio, che diventa perciò una sua componete secondaria, quando non un utile residuo storico appartenete ad altre età.

Anzi, una concezione più “liquida” della ricchezza, che ha abbandonato [e travolto] la solidità dei capannoni industriali, delle scorte di prodotti e semilavorati, degli impianti produttivi, delle catene di montaggio tradizionali e delle “isole”, smaterializzandosi come certe produzioni che connotano questa era nelle “fabbriche dell’immateriale e del culturale”, è un ottimo mascheramento dell’illimitatezza autocoscienze che il Capitale ha raggiunto.   

Le strutture produttive, gli stabilimenti, le aziende, sono il mezzo e non il fine, la mera giustificazione sul terreno dell’economia reale, per questa creazione del valore che accresce la potenza dei nuovi dominanti.

Infatti, come mi ha spiegato un analista di borsa all’inizio degli anni novanta, quello che conta, ormai, è l’orizzonte di breve periodo in cui si muovono i “grandi prenditori” [o i fondi pensione e d’investimento privati] che frequentano i mercati finanziari, e nel breve che si tratti di automobili, di prodotti elettronici, di farmaceutica, di vasi di terracotta o di “sacchi di patate” e partite di legname non ha molta importanza, perché tutto si pone sullo stesso piano indifferenziato, date le vere finalità speculative, che puntano [se “rialziste”] ad una crescita del valore azionario temporanea, non di rado artificiosa e drogata … e seguiranno “le prese di beneficio”.

Si compra già con l’intenzione di vendere, magari dopo una ristrutturazione penalizzante per l’occupazione e per la stessa efficienza degli organismi produttivi, all’unico scopo di creare rapidamente, per tale via, nuovo e maggior valore.

Niente di strano, dunque, se le “cordate” azionarie chiudono le fabbriche o cercano di sbarazzarsi sempre più spesso di stabilimenti e di intere aziende che sono in piena attività, che mantengono possibilità espansive future e che fanno qualche utile, essendo all’interno di queste logiche secondari, a volte irrilevanti nella decisione di investimento e di disinvestimento, i vecchi “fondamentali”, i quali per manifestare la loro positività, quanto a occupazione e contributi offerti alla crescita del prodotto sociale, richiedono solitamente periodi di tempo più lunghi.

Ecco che allora lo stesso stabilimento di Termini Imerese nelle mani della Fiat [e di Marchionne] a conti fatti ha lo stesso valore, per i decisori [la proprietà, Marchionne stesso, i referenti e i ”partners” americani], di un enorme magazzino di “sacchi di patate” e i dipendenti siciliani, dell’azienda e dell’indotto, pesano nella decisione quanto i tuberi …

Se poi c’è un governo debole e comunque tributario dei grandi potentati finanziari d’oltre oceano ad assistere alla vicenda, non si andrà al di là di qualche pubblica invettiva, a scopi elettorali, di qualche fumosa promessa da marinaio e di qualche “tavolo di confronto”.

In tale contesto, anche la socializzazione delle [possibili] perdite private è un dato acquisito e metabolizzato, e la rottamazione auto che potrà essere nuovamente concessa alla Fiat dal governo italiano messo sotto ricatto, per evitare che la casa automobilistica abbandoni con i propri impianti l’intero territorio nazionale, ne costituirà un’ulteriore prova, anche se sembra che questa volta Marchionne [e gli interessi che si nascondono non troppo bene alle sue spalle] abbia rifiutato sdegnosamente il denaro pubblico e intenda “puntare su altri mercati”, delocalizzando e dando un contributo significativo alla de-industrializzazione del paese.

Ma c’è di peggio, perché queste logiche si intrecciano non di rado con autentiche manovre geopolitiche che fanno saltare qualsiasi razionalità economico-finanziaria, da inserire nell’aspro conflitto in corso fra gruppi di vertice della classe globale, e per tale motivo, se si vuole “salvare l’auto” negli Stati Uniti d’America, tanto per fare un esempio, si può penalizzare il settore in Italia, fino alla sua scomparsa dalla penisola e con buona pace per sistema-paese, concertazioni con Confindustria e sindacati e fantomatiche politiche industriali.

Così, se si vuole aggirare la Federazione Russa con i gasdotti, per evitare che passino sul suo territorio dandogli un maggior potere nei confronti dell’Europa, si può cercare di colpire anche l’ENI, azienda tipicamente “sana”, non in aperta crisi, non ancora parte della così detta economia-zombie, frazionandola, togliendole autonomia o ancor peggio privatizzandola interamente [un rischio che potrà materializzarsi in futuro], rea di aver avviato una partnership con Gazprom, di vedere di buon occhio il South Stream russo e quindi di remare contro certi interessi, ancora dominanti in occidente.

La stessa crisi che ha interrotto la prima parte della globalizzazione, prospettandoci un “secondo tempo” carico di incognite e di drammi sociali, è la spia dell’intensità dei conflitti scoppiati al vertice della Global class.

La Grande Finanza domina l’occidente, organismi sopranazionali, stati e popolazioni, demolendo uno ad uno i pilastri dell’economia reale e della socialità, e i “banchieri” mossi da un’arroganza senza pari hanno definito in modo sprezzante PIGS i paesi europei, quasi tutti dell’area mediterranea e appartenenti al Club Med, soffocati dal debito pubblico e a rischio di default.

L’acronimo PIGS significa, oggi, Portugal, Ireland, Greece and Spain, ma fino a poco tempo fa si parlava più propriamente di PIIGS, perché una delle due lettere era l’acronimo di Italy.

Questi Bastardi – è giunto il momento di chiamarli con il loro nome – di recente riunitisi a Davos assieme ad altri VIP e agli stessi governatori delle banche centrali per discutere “dei problemi dell’umanità” e di massimi sistemi[1], si permettono di chiamare porci ben quattro popoli, e altrettanti stati in evidente affanno che nel complesso totalizzano oltre settanta milioni di abitanti [nella versione PIIGS che comprende l’Italia, circa cento e trenta milioni].

Dopo aver profittato del danaro pubblico, offertogli a piene mani da politici compiacenti che si trovano al loro fianco – e in certi casi ai loro ordini –  nei “salotti buoni” internazionali, e soprattutto dopo aver dato un contributo non da poco allo scatenamento della prima crisi globale, speculano con la manovra dei tassi sulle difficoltà finanziarie di intere nazioni, negano il credito perché l’usuraio, in accordo con la sua vile natura, non ama certo rischiare se non per enormi guadagni, e chiedono agli stati più “rigore nei conti pubblici”, improbabili rientri dal deficit, sacrifici a fondo perduto – quanto le centinaia di miliardi di dollari che hanno ricevuto in regalo dai mercenari della politica – a carico delle popolazioni maggiormente colpite dalla crisi.

Inoltre, pretendono di dettare loro le regole per regolamentare i mercati finanziari, concordandole con le banche centrali, anch’esse private, che dovrebbero controllarli … e gli stati stanno a guardare, come fecero le stelle di Cronin.

La stessa manipolazione del prezzo del petrolio, che è il prezzo fondamentale che influenza tutti gli altri, con la repentina discesa da un picco che andava oltre i cento e cinquanta dollari al barile ad un prezzo che attualmente si muove fra i settanta e gli ottanta dollari, altro non è stata che una manovra per rastrellare risorse in prima battuta e, cosa importante, per mettere in seguito in difficoltà i gruppi antagonisti emergenti della classe globale, colpendo ad esempio quelli che tengono in pugno la Federazione Russa e che fondano il loro potere su quelle “armi non convenzionali” rappresentate da gas naturale e petrolio.

E’ chiaro che la partita giocata dai “banchieri”, nella veste di agenti del Nuovo Capitalismo autocosciente della propria illimitatezza, è quindi e prima di tutto una partita strategico-politica, con la piena consapevolezza della potenza dell’arma che hanno fra le mani –  il capitale finanziario a scorrimento liquido – e con la consapevolezza, a quel livello, dei danni irreparabili cagionati al “capitale umano” e all’intero impianto che regge ed organizza la convivenza sociale, allo scopo di flessibilizzare il primo e di plasmare il secondo unicamente sulla base di interessi elitistici.

Chi sono allora i veri PIGS?

Ha un bel dire l’economista moderatamente obamiano e premio nobel Joseph Stiglitz – il quale ha ricevuto la laurea honoris causa alla Luiss Guido Carli ed ivi ha tenuto la sua lectio magistralis sulla crisi globale – che nel futuro si dovrà “investire di più su un mercato globale delle menti”, quando è fin troppo chiaro chi decide nella realtà della destinazione delle risorse, private e pubbliche, e soprattutto che le “menti” che decidono hanno un’idea leggermente diversa da quella di Stiglitz di come dovrebbe procedere la globalizzazione e di quelle che dovrebbero essere le sue vere finalità …   

La forza lavoro e i “ceti medi”, intere popolazioni di paesi in crisi, rappresentano dunque le patate in sacchi dell’esempio di prima, delle quali ci si può sbarazzare facilmente, previe distruzione del sistema di garanzie che prima li metteva parzialmente al sicuro, svalutazione dal punto di vista culturale del Lavoro, precarizzazione sociale ed esistenziale, colonizzazione dell’immaginario con simboli non propri ma indotti e previa la diffusione di una nuova ideologia-religione centrata su liberaldemocrazia, individualismo, società aperta [ma soltanto ai capitali “scudati”], “diritti umani”, Mercato, e dopo un adeguato trattamento flessibilizzante/ precarizzante i lavoratori operai e i ceti medi ri-plebeizzati serviranno alle élite in lotta come docile massa di manovra, spendibile negli scontri futuri.

Nella nuova struttura di classe che si sta formando, notiamo dunque qualche preoccupante aspetto neo-feudale, riflesso dalle dinamiche di questo capitalismo che la modellano “a sua immagine e somiglianza” e presente nella sua stessa natura.

Non soltanto, ma come rilevato nel precedente capitolo, in cui sono state elencate le forme di estraniazione che coesistono nel nostro tempo storico, lo schiavismo precapitalistico e [addirittura] prefeudale non è per nulla scomparso, ed anzi, riappare anche in Europa, alimentato da un’immigrazione dai paesi del “sud” del mondo che deve essere inquadrata, per trovare un’adeguata spiegazione, nelle nuove dinamiche culturali, produttive e sociali.

Inutile precisare che la precarizzazione/ flessibilizzazione di massa crea l’ambiente culturale e sociale adatto per far accettare supinamente, come se fosse una fatalità che discende da un qualche, improbabile “diritto naturale”, differenziali di ricchezza e potere tendenti all’infinito fra i membri della classe globale e tutti gli altri.

Come dovrebbe risultare ormai chiaro anche ai più distratti, questi sono anni in cui stiamo vivendo il periodo di transizione dalla seconda alla terza società della crescita, di passaggio dalla precedente tripartizione sociale Borghesia/ ceti medi figli del welfare/ Proletariato alla nuova dicotomia Global class/ Pauper class, con tutti gli sconvolgimenti, i drammi personali e collettivi che ciò può comportare.

Stiamo assistendo, altresì, alla nascita di un nuovo tipo umano destinato forse a soppiantarci, un tipo umano per il quale il filosofo Costanzo Preve ha coniato l’espressione di uomo precario, trattandosi di un uomo del futuro che difficilmente potrà raggiungere l’autocoscienza e mettere in discussione l’ordine costituito, per modificarlo e correggerne le iniquità, un uomo che si piegherà al vento come fanno i rami degli alberi e non si interrogherà sul senso della vita, con possibilità e prospettive di crescita più limitate rispetto ai tipi che hanno caratterizzato gli evi precedenti, poiché nel nuovo ordine l’illimitatezza sarà riservata, prima ancora che ai suoi agenti, esclusivamente al Capitale che ha raggiunto la piena coscienza di sé e della propria forza, divorando la nostra coscienza e neutralizzando la nostra forza.

La nostra vera speranza è che questo processo non giunga a compimento, che il meccanismo si inceppi durante questo decennio, appena agli esordi, e che le coscienze non si spengano ad una ad una come le luci di una fabbrica che chiude.

 



[1] I consessi globalisti sono molti e non c’è soltanto il celeberrimo Bilderberg club, anche se questo è chiaramente preferito agli altri dai soliti “complottisti” e da agguerriti giornalisti investigativi, come Daniel Estulin e Jim Tucker, che sembrano attribuirgli una suprema importanza per quanto riguarda le effettive decisioni elitistiche sul “futuro dell’umanità” e dell’ambiente.