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Il futuro del lavoro in sei tesi

di Luciano Gallino - 16/02/2010

  
 
Ma attenti alle illusioni della connessione a vita. Essere disponibili al lavoro "h24" non garantisce libertà

L´obbligo, o il desiderio, di essere al lavoro 24 ore su 24, sette giorni su sette, grazie a mezzi di comunicazione sempre più integrati, rappresenta un´estensione al lavoro umano dell´ingegneria industrial-finanziaria sviluppata per estrarre il massimo valore da ogni unità di tempo, misurata ormai in frazioni di secondo. Il suo prototipo è la compravendita ad alta frequenza di titoli o divise: una delle ultime trovate delle borse mondiali. Il computer di una banca esplora i prezzi su diverse piazze, e in un tempo che si aggira sui 40 millesimi di secondo compra tot titoli sulla piazza dove il loro prezzo è più basso, per rivenderli subito su una piazza dove il prezzo è più alto. Anche di pochi centesimi: ripetuta migliaia di volte l´ora, un´operazione con cui si ricavano pochi centesimi per titolo fa guadagnare milioni al giorno.

Visto il successo ottenuto con la compravendita ad alta frequenza di titoli e denaro, qualcuno ha pensato di estendere una tecnologia analoga al lavoro. In questo caso, oltre che programmare i computer si sono programmate le persone. Che sono state convinte nel profondo che il massimo della vita consista nell´essere sempre connessi, senza alcun buco vuoto nello spazio o nel tempo. Risorse immani sono state mobilitate a tale scopo: la pubblicità, i cellulari che funzionano da telefono, pc, videocamera, radio, tv, gps e altro, le tariffe che permettono di usare il tutto a pochi centesimi al minuto o gratis, più i magazine che fanno sentire uno come troglodita se non possiede l´ultima versione dello strumento multitutto. Cominciando l´operazione volta a introiettare l´imperativo "sono connesso, dunque sono" dalle scuole elementari: genitori e nonni ne sanno qualcosa.
L´essere perennemente interconnesso per parlottare al telefono, chattare, scambiare Sms, twitterare, bloggare, gestire la mail inbox e outbox, significa in realtà lavorare senza tregua per qualcuno. Di certo per la propria organizzazione, ma non soltanto per essa. Ogni minuto passato in connessione comporta che flussi immani di bits e di bytes servano a scopi di cui non sappiamo nulla, e su cui non abbiamo la minima possibilità di intervenire. La prima a trarne guadagno è ovviamente l´organizzazione per la quale lavoriamo. Se siamo convinti che sia normale inviare ad essa una e-mail la domenica mattina, per mostrare che nulla ci sfugge, o premurarsi di leggere un suo Sms alle due di notte, ciò significa che abbiamo firmato un contratto che prevede 168 ore di lavoro la settimana, di cui circa 130 non pagate. Nessun rapace imprenditore di Coketown, la città del dickensiano Tempi difficili, avrebbe mai sperato tanto. In secondo luogo, l´interconnessione 7 x 24 di masse di persone fa sì che ogni secondo qualche frazione di euro venga depositata nel bilancio di differenti società che si occupano di telecomunicazione, di ingegneria del software, di produzione e vendita di apparecchi e altro. Si tratterà in ciascun caso di meno di un millesimo, meno di un decimillesimo, i quali però moltiplicati per miliardi di minuti di connessione al giorno diventano milioni, appunto come accade con lo high frequency trade.

Uno dei testi più critici dell´asservimento umano alla tecnica pilotato dall´ingegneria industrial-finanziaria, L´uomo è antiquato di Günter Anders (1956), cominciava citando un articolo di giornale: "I condannati a morte potevano liberamente decidere se i fagioli di contorno dell´ultimo pasto dovevano essere serviti dolci o sottaceto." E´ dubbio che poter scegliere tra due tipi di caviale, senza mutare nulla della condanna, come in fondo postula chi afferma che la prossima generazione trarrà grande soddisfazione dal lavoro ad alta frequenza, sia un passo verso la liberazione.