Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Bisogna integrare la totalità dell’esperienza per ritrovare la sorgente dell’Essere

Bisogna integrare la totalità dell’esperienza per ritrovare la sorgente dell’Essere

di Francesco Lamendola - 17/02/2010

 

L’uomo, e specialmente nelle condizioni specifiche del mondo moderno, è intimamente scisso e frammentato.
La situazione esistenziale così efficacemente descritta da Svevo, Pirandello, Kafka, Musil, Joyce, Thomas Mann, Proust, Montale, e che sembrava descrivere una minoranza di individui disadattati e straniti, alienati da se stessi e dai propri simili, ormai è dilagata ovunque e si può applicare alla quasi totalità delle persone.
Nello stesso tempo, lo sviluppo sempre più ipertrofico del Logos calcolante e strumentale, che conferisce all’uomo un effimero dominio sulle cose e alimenta in lui un ingannevole senso di onnipotenza, ha accentuato in maniera esponenziale la frattura già esistente fra lui e gli altri enti, in mezzo ai quali egli si sente come un conquistatore accampato in terra nemica, pronto a saccheggiare e manipolare tutto: senza amore, senza bellezza, senza armonia.
Del resto, la frattura esistente fra noi e le cose non è che la proiezione verso l’esterno della frattura che si è prodotta fra noi e noi stessi, all’interno della nostra anima: la stessa incapacità di cogliere, con amore, l’armonia e la bellezza della nostra esperienza esistenziale; la stessa attitudine strumentale e calcolante che ci induce a ignorare o rimuovere la parte più vera e profonda di noi stessi, per inseguire il miraggio dell’apparire, anziché coltivare il nostro essere.
La disarmonia e la sofferenza che caratterizzano la nostra condizione esistenziale sono, pertanto, in larga misura una conseguenza della nostra profonda ignoranza e della nostra inconsapevolezza, le quali fanno velo alla semplice verità che non si può procedere nel proprio cammino se non si è capaci di integrare via via il passato nel presente e, più in generale, le proprie esperienze di vita in un tutto unitario e luminosamente cosciente.
Il male sono la divisione, la frammentazione, l’alienazione; il male è l’inconsapevolezza; il male è il dualismo schizofrenico tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, tra ciò che siamo e ciò che potremmo e dovremmo divenire.
Il bene sono l’unità, la coesione, l’armonia dell’esistenza; il bene è la piena e gioiosa consapevolezza del proprio posto nel mondo e del proprio legame con tutti gli altri enti e con la fonte perenne di tutti e di ciascuno: l’Essere infinitamente splendente e beato; il bene è realizzare la propria vocazione esistenziale, puntando a far coincidere l’essere attuale con l’essere potenziale: in altre parole, portando in luce la pietra preziosa che è in fondo alla nostra anima.
Questo significa che, per trovare la pace e l’equilibrio interiore, noi non possiamo ignorare, disattendere o reprimere quegli aspetti del nostro presente, e ancor più del nostro passato - che non è mai veramente tale - che ci hanno mandato dei segnali importanti, e sia pure in negativo, al punto da svolgere una funzione  significativa nel nostro vissuto.
A rigore, noi non possiamo ignorare nulla: perché essere desti e consapevoli significa che tutta la nostra esperienza di vita, nella sua globalità, deve essere assunta, rielaborata, trasformata, sino a permetterci una reale crescita e una ulteriore possibilità di evoluzione.
È come quando facciamo una passeggiata in campagna: se siamo distratti da altre cose, ad esempio da un telefonino cellulare, vediamo e godiamo ben poco di quello che ci circonda. Invece, se ci immergiamo nella freschezza e nella bellezza del paesaggio e della stagione, ecco che, un poco alla volta, dapprima gli alberi, il fiume, le nuvole, poi, via via, anche le cose più minute: la singola fogliolina sul ramo, la formica che corre lungo il tronco, i minuscoli cerchi disegnati sulla superficie dell’acqua da qualche insetto che vi si è posato, entreranno a far parte del nostro campo di consapevolezza, insieme agli odori, ai suoni, alle sensazioni tattili, ivi compresa quella del venticello che ci accarezza la pelle: finché ci renderemo conto di essere parte di un grande tutto armonioso e onnicomprensivo.
Non è bene vivere scartando e rifiutando le esperienze che non sappiamo capire, e dalle quali non siamo disposti ad imparare; non è bene vivere chiudendo la mente e il cuore davanti a tutte le occasioni di maturazione e di consapevolezza che la vita, nella sua saggezza e nella sua generosità, continuamente ci offre.
Consumisti e spreconi anche nell’ambito spirituale, noi ci comportiamo come se appena un due, tre per cento delle nostre esperienze di vita fossero meritevoli della nostra attenzione e della nostra riflessione; come se il novantasette o novantotto per cento fosse da gettare nel cestino, come si fa con la frutta avariata o con le confezioni che avvolgono la merce.
No: tutto ciò che la vita ci manda è prezioso: il gelo dell’inverno e l’ardore dell’estate; la luce e la tenebra; la gioia e il dolore; la salute e la malattia; l’amore e l’odio; la vittoria e la sconfitta; la bellezza e lo squallore: tutto, tutto, tutto.
Ovviamente, questo non significa che di tutto si possa o si debba gioire allo stesso modo: è umano essere sollecitati positivamente da alcune esperienze, e negativamente da altre. Però, se davvero vogliamo metterci in sintonia con l’Essere, dovremmo imparare a spogliarci dell’atteggiamento giudicante, che crea polarità e opposizioni e che corrisponde al “piccolo io” del Buddhismo, ovvero al falso Ego; per porci sul piano della Mente superiore, dal quale si gode di un panorama più vasto e si arriva a comprendere che tutto, nella vita, è fatto per il nostro bene, e che molti dei nostri dualismi sono il prodotto della nostra vista troppo corta.
Aprire la facoltà della vista interiore, significa incominciare a comprendere che le opposizioni e le contrapposizioni sono prodotte dalle azioni e reazioni del nostro atteggiamento fondamentalmente sbagliato nei confronti della vita: un atteggiamento egoico, insicuro e prepotente al tempo stesso, basato sull’attaccamento alle cose, nella sua duplice veste della brama e del timore.
La brama e il timore ci fanno volare basso, tolgono incanto alla bellezza del mondo e ci trasformano in macchine da guerra sempre pronte a colpire l’altro, prima che l’altro possa colpire noi; sicché ogni rapporto umano, anche quello che dovrebbe essere un rapporto di amicizia o di amore, finisce per diventare un rapporto di potere, ove il più forte si impone sul più debole, lo ricatta, lo minaccia, lo manipola e ne fa tutto ciò che vuole.
Ma questa non è vita; questo ha un nome ben preciso: si chiama l’Inferno.
L’attaccamento ci fa vivere all’Inferno; l’ignoranza ci fa vivere all’Inferno; la vigliaccheria ci fa vivere all’Inferno. Noi siamo i volonterosi demoni di un Inferno che abbiamo creato con le nostre stesse mani, per un miscuglio di pigrizia e di stupidità. Da soli abbiamo acceso le fiamme, da soli ci straziamo l’un l’altro con i raffi e ci gettiamo a vicenda nella pece bollente, come i diavoli danteschi delle Malebolge.
Sì: abbiamo ben poco pietà per gli altri, perché vogliamo poco bene a noi stessi; e ci vogliamo poco bene perché ovunque vediamo nemici da sconfiggere o cose da sottomettere e perché non abbiamo occhi per la luminosa unità di tutte le cose, né orecchi per l’armonia del concerto formato dal loro reciproco accordo.
In sostanza, ci siamo costruiti l’Inferno perché abbiamo voltato le spalle alla nostra esigenza fondamentale: il ritorno alla dimora dell’Essere. Ogni nostro male, ogni nostra sofferenza, ogni nostro fallimento hanno questa origine, e non altra. Se ci ricordassimo di avere in noi un riflesso e una scintilla della luce dell’Essere, saremmo già sulla via della consapevolezza; saremmo già parzialmente guariti dalle nostre ferite.
Abbiamo anche detto che non solo il nostro presente, ma anche il nostro passato chiede, esige di essere accolto e integrato nel disegno complessivo della nostra vita; e che, anzi, il nostro passato non è mai veramente passato, e quindi esercita sempre un ruolo decisivo nel nostro qui e ora. Quello che volevamo dire è che il passato non è altra cosa dal presente; non è un tempo qualitativamente diverso, come se più non ci toccasse né in bene, né in male
Al contrario: il passato non è altro che il presente che si trasforma, che si deforma, che scivola attraverso il setaccio dell’esperienza; presente e passato non sono che due modi differenti di guardare la stessa cosa.
Ciò significa che, per poter evolvere spiritualmente, noi dobbiamo integrare tutte le nostre esperienze, sia del presente, sia del passato; anche di quel passato in cui eravamo del tutto inconsapevoli e, quindi, più lontani e più diversi da quel che siamo divenuti oggi e che saremo domani.
Non solo. Il passato entra con forza nel nostro presente anche per un’altra via: vale a dire la percezione che gli altri hanno di noi. Gli altri non ci vedono così come siamo ora, ma come eravamo un tempo: vicino o lontano, questo è secondario; perché, nella vita di un essere umano, vi sono istanti che valgono anni e vi sono anni che passano in un istante.
Per noi vale una legge fisica fondamentale: quella della luce. Noi non vediamo mai le cose come sono attualmente, ma come erano un tempo: e quelle stelle che osserviamo brillare nel cielo notturno, forse non esistono più, perché il raggio luminoso che ce le rivela è partito molti anni fa. Noi non vediamo il presente, mai; noi vediamo il passato.
Allo stesso modo, noi non udiamo il presente, ma il passato: il suono che è arrivato al nostro orecchio, era partito prima; il tuono che scuote la terra durante il temporale, diviene percepibile all’udito solo molto più tardi del lampo che ci è rivelato dalla vista.
E ciò che noi tocchiamo, non è la cosa presente, ma la cosa passata: prima che il nostro cervello abbia ricevuto la sensazione tattile, quella cosa non è più la stessa. Si obietterà che sono passate appena delle frazioni di secondo, ed è vero; ma che cosa diremmo se, in quelle frazioni di secondo, quella cosa scomparisse, o se scomparisse il mondo intero?
Ecco perché, ad esempio, la condanna a morte di una persona che aveva commesso un delitto molti anni prima, ora che essa è divenuta completamente diversa, e magari si è profondamente pentita, è un totale non senso, oltre che una aberrazione sul piano etico. È come mandare alla morte un’altra persona, né più, né meno: la persona sbagliata. Non c’è giustizia, nemmeno per chi creda nella legittimità della pena di morte.
Ma che cosa significa, esattamente, che noi dobbiamo integrare nella nostra coscienza tutte le esperienze e tutto il passato, insieme al presente? Significa che dobbiamo trasformarli in sostanza vivente della nostra anima, utilizzandoli come un trampolino per tuffarci verso le profondità dell’Essere, nelle quali soltanto troveremo la chiarificazione interiore e, con essa, la pace ed il senso ultimo della nostra vita.
Noi non siamo qui per caso.
Siamo stati chiamati ed abbiamo risposto.
A partire da quel momento, che successivamente abbiamo dimenticato, noi siamo entrati in relazione profonda con tutto ciò che esiste, che è esistito, che esisterà, che potrebbe esistere: con tutto il bene e con tutto il male del mondo, con il coraggio e con la paura, con la verità e la menzogna, con la vita e con la morte. Ma non dobbiamo credere che queste cose siano antitetiche; al contrario, sono complementari: e noi dobbiamo acquistarne consapevolezza, se vogliamo progredire ulteriormente.
Quando i veli ci cadranno dagli occhi, finalmente vedremo il reale come è in se stesso, e non come ci appare nella prospettiva deformata dal timore e dalla brama. Allora capiremo tutto e ogni contraddizione svanirà completamente.
Potremo udire il sussurro della singola foglia con la stessa chiarezza con cui, ora, percepiamo lo stormire della foresta; potremo udire il passo della formica sul tronco, vedere il volo di ogni singolo moscerino, odorare il profumo di ogni singolo fiore.
Comprenderemo che tutto è armonia, che tutto è luce, che tutto è amore.
Perdoneremo e saremo perdonati.
Una pace immensa ci riempirà il cuore, traboccando, come una cascata viva e perenne, che balza gioiosamente giù dal fianco della montagna.
E l’Essere luminoso, beato, supremamente consapevole, ci avvolgerà nel suo fulgore imperituro.