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Le misteriose città morte della Siria

di Kevin Rushby - 18/02/2010


 

Sul davanzale di pietra ci sono due file di sette buchi poco profondi e io sono seduto accanto a questi, cercando di ricordare dove ho già visto questo schema. Lontano da qui, oltre le enormi fortificazioni e il fossato, si trovano le montagne dalle cime innevate del Libano. Non mi aspettavo di vedere così tanta neve in giro, ma la Siria riserva ogni volta delle sorprese. Anche questo castello dei crociati, risalente al XII secolo, il Krak dei Cavalieri, un luogo fantastico che è stato a lungo studiato da archeologi e storici, è pieno di misteri. Come questa iscrizione logora che ho trovato nascosta in un angolo: “Ceso: LT: Bor…” Cosa significava? Forse era un messaggio segreto di uno dei Cavalieri di Malta durante l’ultimo periodo dell’assedio musulmano del 1271? La mia guida - solitamente eccellente - ai monumenti del Paese, scritta da Ross Burns, non ne parla. 
 
Improvvisamente ecco un’altra sorpresa: un ragazzo del posto che mi aveva visto esaminare con attenzione il davanzale dice improvvisamente: “È un gioco”,  toccando con il dito i 14 buchi. “Mancala”.

Mi torna alla mente il passatempo africano, simile al backgammon. “Ma come ci è arrivato qui? Intarsiato sul davanzale della torre più alta di un castello crociato”.

Scuote le spalle e si affaccia alla finestra, con le braccia distese come ad abbracciare il panorama. “Non lo so, ma non è fantastico? Sono stracontento di essere qui”.

Il suo inglese ha il sibilo lontano ma nitido dell’Essex. Che abbia un antenato crociato?

"No, Top Gear", spiega ridendo. “ Ho visto quel film non so quante volte sulla tv satellitare. È meraviglioso. Non sono mai andato fuori dalla Siria”.

Lo lascio lì e torno all’entrata passando per le merlature, guardando i villaggi sparsi qua e là, alcuni con le moschee, altri con le chiese. In Siria ho trascorso solo un paio di giorni, ma l’incredibile complessità  della storia e della cultura sono già chiare. Il pomeriggio precedente mi ci sono volute tre ore per percorrere a piedi un paio di chilometri nella parte vecchia di Damasco. Le colonne romane sono infilate nei muri medievali, la strada segue un percorso su cui è passato Alessandro il Grande e i negozi riversano sui passanti gli oggetti più comuni – tappeti, cetrioli, pantaloni turchi – e rarità – sciarpe di pelo di capriolo d’acqua, anelli di corniola dello Yemen e lapislazzuli del Badakhshan.

Da Damasco mi sono spostato a nord, al Krak dei Cavalieri, facendo una sosta al villaggio di Ma’alula, un agglomerato di case ai piedi di una collina dove ho avuto un’altra sorpresa: questo è l’ultimo luogo sulla terra dove si parla ancora l’aramaico, la lingua parlata da Gesù. Nella chiesa greco-ortodossa di San Sergio alcuni turisti iraniani sedevano ascoltando il Padre Nostro in aramaico. La guida non nutre speranza sulla sopravvivenza della sua lingua madre. “Se verrete qui tra cinque o sei anni”, dice con un tono di tristezza nella voce, “ l’aramaico sarà una lingua morta. Attualmente ci sono solo cinquanta famiglie che lo parlano in casa a Ma’alula”.

Tuttavia, Ma'alula e il Krak dei Cavalieri, sono state delle soste interessanti sulla strada che porta al mio reale obiettivo, un vero e proprio mistero della storia siriana: le città morte. Sono 780 insediamenti che risalgono al periodo che va dal V all’VIII secolo, sparsi su una lunga striscia di terra nel nord del Paese.

A Serjilla, situata a un’ora di macchina a sud di Aleppo, ho trovato uno dei siti meglio conservati sparsi lungo un’area collinare e montuosa di pietra calcarea frastagliata brulla – a prima vista sembra un paesaggio estremamente inospitale. In realtà era qui che nei primi anni di Bisanzio la produzione di vino e olio d’olio arricchivano gli abitanti della zona. Le enormi presse di pietra per l’olio e il vino si trovavano accanto a magnifiche ville con colonnati sebbene i loro proprietari fossero semplicemente spariti.

Passeggiavo in mezzo alle antiche e imponenti ville, esplorando le terme e la chiesa della città, ammirando l’architettura ellenistica con le sue pietre rosso acceso. Gli ultimi raggi di sole che illuminavano le mura bucherellate, rivelando croci ornamentali e antiche iscrizioni. Questo è un luogo magico e misterioso, soprattutto sul tardi della giornata quando non ci sono più visitatori e in giro ci sono solo un paio di famiglie del posto che si divertono facendo picnic e partite di calcio – con le colonne dell’VIII utilizzate come pali delle porte.

Adnan al-Hamwi, la mia guida, nonché storico stimato che ha pubblicato molti libri e guide, ha ammesso che non c’è una spiegazione effettiva sul perché queste città siano state abbandonate.

“Forse cambiò l’economia e i prezzi dell’olio d’oliva diminuirono drasticamente. Oppure una serie di terremoti spinse la popolazione a trasferirsi altrove. La verità è che non lo sappiamo, è un mistero”.

Alcune delle città morte sono state scoperte dagli archeologi e sono indicate ai visitatori con segnali e informazioni; altre si trovano all’interno di villaggio moderni: strane torri di pietra spuntano nei giardini, frammenti di architravi scolpiti giacciono all’ombra degli alberi di pistacchi. In una di queste città, a Qatura, siamo passati in un recinto di pecore per raggiungere l’ingresso di una tomba scavata nella roccia sotto la casa di una famiglia. All’interno del vestibolo di ingresso c’erano tracce di iscrizioni greche; poco oltre c’è un sepolcro buio con panche di pietra dove vengono conservati sacchi di fertilizzante.

Ho trascorso la notte ad Aleppo, in uno dei tanti piccoli hotel di lusso che si trovano nel quartiere Jdeida, mangiando nel miglior ristorante della città, Beit Sissi, dove cameriere vestite di nero servono un eccellente vino siriano a prezzi molto ragionevoli. Nella galleria i musicisti suonava l’oud, il liuto arabo, insieme al violino – un tributo alla natura variegata di questa città diversa e piena di colori, che una volta era uno dei maggiori caravanserragli sulla Via della Seta.

La mattina seguente sono partito con Adnan per dirigermi a nord, vero le città morte. Ad Ain Dara siamo saliti su una collinetta che dà sulla valle di Afrin dove si stendono vasti frutteti di melograni e pistacchi. Sulla cima c’erano le rovine di un tempio dell’Età del Ferro che risale al 1200 a.C.: due grandi recinti, uno circondato da leoni mitologici incisi nel basalto.

"I defunti venivano portati qui, nella prima stanza”, spiega Adnan, “e i leoni li giudicavano e decidevano se potevano passare nella seconda stanza, il paradiso”.

"Il Giorno del Giudizio”.

"Esattamente. Pensiamo che l’idea venga dalla Persia. La dea venerata qui era la divinità della fertilità, Ishtar. Dal suo nome deriva quello inglese di Esther”.

Siamo riscesi dalla collina e siamo partiti per raggiungere il sito archeologico più famoso, il santuario di San Simeone Stilita. La grande chiesa in rovina, considerata la struttura più ambiziosa per la fine del V secolo, contiene il podio della colonna dove S. Simeone ha trascorso gli ultimi 36 anni della vita fino alla morte avvenuta nel 459 d.C. Si dice che mangiasse una volta alla settimana, naturalmente in modo frugale.

"Le persone del posto dicono che non ha mai rivolto la parola a una donna, neanche a sua madre”, spiega Adnan, aggiungendo “ Io non ci credo”.

Il tentativo di Simeone di isolarsi dal mondo vivendo su una colonna alta 18 metri aveva un effetto principale; le persone si riunivano per vederlo. E quando è morto non c’è stata tregua: il suo corpo divenne una pedina nel gioco forza tra Bisanzio e la sua provincia lontana e soggetta all’eresia. La chiesa fu abbandonata nel XII secolo e ora è una rovina in balia degli agenti atmosferici dove il vento ulula tra i pini e le coppiette esplorano i resti ancor più in rovina dell’insediamento.

Il giorno successivo, essendo domenica, avevo deciso di visitare le chiese di Aleppo e di mettere alla prova quella tolleranza che Adnan diceva esser propria della Siria. Anche lui è venuto con me. “Perché no? Noi musulmani non abbiamo nulla da temere, Gesù è anche il nostro profeta”.

Abbiamo fatto tappa prima alla Cattedrale armena dei Quaranta Martiri, dove stavano mettendo in scena uno spettacolo teatrale per un piccolo gruppo di persone. Sotto lo sguardo attento di una grande icona che rappresenta il Giorno del Giudizio, i presti facevano canti e contro canti nella navata. Gli abiti venivano donati e scambiati. L’incenso asperso. I testi sacri svelati e coperti. I riti della chiesa armena risalgono al quarto secolo, ed è come uno scorcio di Bisanzio nel suo periodo d’oro.

Le chiese maronite, siriache e latine passano senza destare troppo la nostra attenzione e Adnan si addormenta. Lo sveglio per andare a bere un caffè e fumare il narghilè in uno dei vecchi caffè dove gli anziani trascorrono ore e ore giocando a carte e a domino. Poi ci dirigiamo verso il santuario sciita di Mashhad al-Hussein dove si dice che sia stata portata la testa mozzata di Hussein, nipote del profeta Maometto, dopo il suo martirio nel 680 d.C.

Non è stato semplice trovarlo nonostante l’importanza che ha nel mondo sciita. I pellegrini stavano pregando, colpendo leggermente le loro fronti con minuscole tavolette di terracotta di Serbala, in Iraq, luogo del martirio. Dietro uno paravento ornato, attaccato con vessilli verdi, si trova la piccola pietra sulla quale è rimasta per una notte la sacra testa, lasciando una traccia di sangue del suo passaggio a Damasco. Il califfo Ommayade, sperando di porre definitivamente fine a questa fastidiosa disputa per la successione, aveva ordinato di trasferire la testa nella capitale del suo regno per umiliazione. Tuttavia, come accade spesso nelle questioni religiose, la violenza ha solo rafforzato i suoi nemici.

Uno degli uomini ha finito di pregare ed esce fuori con me. La faccia seria, mi aspettavo un’omelia di qualche tipo, ma mi sbagliavo.

"Dall’Inghilterra?" mi chiede con un buon inglese, con un accento spiccato. “Non avete possibilità. Sono certo che vincerà di nuovo il Brasile”. Rimaniamo per un po’ sulla soglia parlando della Coppa del Mondo di calcio di quest’estate. Adnan viene fuori e mi porge una delle piccole tavolette fatte con l’argilla di Serbala; “Un piccolo ricordo di questo luogo”.

In città il suono delle campane della chiesa si sente da lontano, unendosi alla chiamata del muezzin alla Grande Moschea.

(Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq)
The Guardian
L’articolo in lingua originale