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Il festival della “filastrocca italiana”, anzi “italiota”

di Carmelo R. Viola - 21/02/2010

Ci si stanca anche a dover dire male sempre, di tutto e di tutti. Già perché sarebbe anche bello potere dire: “bravo, hai fatto bene, mi hai divertito, sono contento di te, complimenti!” E così via. Ma che posso farci? Mi pare che sia diventato perfino un punto d’onore da parte del pubblico potere, anche solo mediatico e ricreativo, di riuscire ad ingannare non dico la buonafede della massa bensì perfino l’aspettativa del padreterno in cui  dice di credere!
 Sapevo certamente che il festival, di cui è piena la cronaca di questi giorni, avrebbe contenuto di tutto e di più, meno quella “canzone italiana”, cui si dice dedicato. E perché la canzone italiana, come ogni altro genere musicale, specie folcloristico, non si crea a tavolino con un pentagramma ed una penna per scriverci sopra. Altrimenti, potrei farlo anch’io, che, pur amando la musica, la lirica e, nel caso specifico, la tipica canzone italiana, non dispongo degli strumenti culturali e tecnici per inventarmi testi che non sento nascermi dentro come, al contrario, sento nascermi dentro un flusso di pensieri e di cogitazioni con cui costruisco ancora articoli e saggi come e forse meglio di quando avevo poco più di vent’anni. Ognuno può dare solo ciò che ha. Donde lo slogan “ad ognuno il suo”.
 Io e la mia compagna abbiamo voluto ascoltare quasi per intero la seconda serata del festival in questione. Non vi dico che sacrificio… Fra uno sbadiglio e l’altro siamo arrivati sonnecchianti, ma più infastiditi, quasi fino alla fine, saturi di sconcerto al limite del vomito. Ma ce l’abbiamo fatta. Mi compete quindi il diritto di parlare con cognizione di causa. E non certo per entrare nel merito dello spartito ma di quella dolce sensazione, che per anni abbiamo chiamata “canzone italiana”.
 Ci siamo invece ritrovati a dovere ascoltare fino alla nausea un “festival della filastrocca”, italiana, se vogliamo ma forse sarebbe meglio dire italiota o meglio ancora italo-yankee (secondo lo spirito di sudditanza integrale alla casta della Casa Bianca)! Non saprei se piacevole – ma forse sì – alle orecchie di una novissima generazione, partorita al ritmo di aree nordamericane o afroamericane, che ci riportano ad antiche tribù del continente nero seppellendo decenni di quella melodia che ha costituito appunto la bella inconfondibile canzone italiana. E’ vero che il passato è sempre più bello perché ci riporta ad una età più aperta alla percezione-fruizione del bello dell’esistenza, ma non si tratta solo di questo. La verità di base è che della canzone italiana è rimasta solo la denominazione e non lo si vuole ammettere probabilmente per una questione di “pubblicità commerciale”, ancor più riprovevole quanto più offende un genere che ha una fisionomia a sé stante, che ha riempito almeno un centinaio di anni a cavallo fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.
 E’ accertato che la specie umana, come qualunque altra, può evolvesi ma anche involversi a seconda delle circostanze ambientali che, per noi uomini, si dicono storiche. La cosiddetta “american way of life” che, con la seconda guerra mondiale, ha invaso imperialisticamente anche l’Europa – e non solo – con il pretesto di salvarci dal fascismo, ha solo prodotto danni enormi e, al momento, sembra irreversibili.  La dinamica del costume si fonde con la filogenesi al livello del Dna. E va bene! Ma resta – almeno lo voglio credere – la presenza autocritica del soggetto-uomo che, in quanto tale, può e deve evitare di aggiungere ai guasti delle incrostazioni civili anche la menzogna per salvare l’apparenza di una realtà che non esiste più.
 Orbene, presentare un festival di un’inesistente canzone italiana è una menzogna così grossolana e così palese da trasformare in vergogna una manifestazione che potrebbe essere interessante anche solo per quello che è senza bisogno di ricorrere a bugie infantili. Un festival della canzone italiana è impossibile perché la canzone italiana di nuova generazione non esiste più e non esiste più perché mancano dei soggetti creativi capaci di sentirsela nascere dentro e di tradurla in note musicali. La canzone italiana è tale perché ha certe caratteristiche, la prima delle quali è la melodia. Una canzone senza melodia non può mai essere una canzone italiana perché manca del requisito essenziale.
 E’ evidente che le canzoni di questo festival – sempre che di canzoni si possa parlare – siano state scritte-composte “a freddo” senza quello slancio, quel moto d’animo geniale, quel lampo di intuizione, che preesiste a qualsiasi opera d’arte del genere. Tutte le canzoni che, per necessità di cognizione “giornalistica”, mi è toccato sopportare, sono sembrate, a me e alla mia compagna, coetanea, variazioni di una stessa filastrocca, introdotta quasi in sordina, poi via via gridata come nel tentativo di recuperare una risonanza lirica, alfine rotta da un silenzio totale. Composizioni senza testa né coda, senza armonia, senza poesia, cariche di sussurri senza significato, di rabbia improvvisa a volontà, prive di accenti lirici, vuote… Io, che ho conosciuto la musica araba, trovo questa molto più bella. Sono così i pezzi che ho attentamente ascoltato, aspettandomi una sola nota magica, quelle che giunge in fondo all’animo come una nota solitaria dei notturni di Chopin o come una canzone di Modugno o come i versi della famosa canzone “Vento” o come la Rosamunda che cantavamo in coro i ragazzi del ginnasio negli anni Quaranta o come “Besame mucho” o “Amado mio” e centinaia di altre composizioni, che ci hanno fanno sognare e perfino piangere dolcemente per molti decenni. Per non parlare di “Fontana Muta” o di “Vivere” degli anni Trenta!
 La fantasmagoria degli effetti tecnologici, così stando le cose, sa di presa di presa in giro, di fumo negli occhi, di messinscena che presuppone un pubblico fatto di tonti o di “americanizzati”. Lo si chiami come si vuole questo festival ma non “della canzone italiana”, che le persone più anziane, come chi scrive, conoscono bene e per averla vissuta tutta una vita. Ricordo la semplicità della vecchia tradizione: uno sfondo uniforme, privo di evanescenze oniriche, di  giochi cromatici, da sogno ad occhi aperti, un cantante, serio, composto, che non si agita come un forsennato, che non salta con la chitarra a tracollo, che non corre da un punto all’altro della ribalta come uno schizofrenico, poche note musicali, sentite, profonde, suonate da un’orchestra, magari fatta di soli strumenti essenziali e popolari, note che arrivano fino al cuore, che ci commuovono, che ci fanno rimpiangere o sognare, magari con gli occhi umidi di una gioia triste, o che ci esaltano, che ci fanno fare propositi di bene, che ci fanno crescere dentro, diventare più umani…Al contrario, la filastrocca – questa filastrocca – non ti fa nemmeno sentire bambino, semmai un bamboccio che scatta e applaude per vibrazione. Questa filastrocca, spacciata per canzone italiana, mi ha fatto sentire, soffrendo, una “cosa che vive di ritmo”, di colpi di batteria, che  scatta come un animale da circo. Quanta differenza con la vecchia vera canzone italiana, talvolta puerile e stupidina ma pur sempre capace di richiamare un sentimento piacevole e buono.
 La grande impostura non può essere compensata dall’introduzione di qualche vecchio glorioso cavallo di battaglia del reuccio Claudio Villa – per altro non nominato! – come Granata, che sta a questa manifestazione come un mantello dorato sul groppone di un animale da soma. Quanto sarebbe stato meglio – più culturale – dare un nome appropriato ad un genere “canzonettistico” assolutamente a sé stante. Sic transit insania mundi!