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E(x)migrazione?

di Stefano Vaj - 22/02/2010

Il recente trasferimento all’estero, a tempo indeterminato, di un giovane amico che ha la sfortuna di fare il ricercatore mi ha ricordato una volta di più l’orgoglio commosso, le ammonizioni celebratorie ed altisonanti con cui la retorica immigrazionista è solita nel nostro paese richiamarsi moralisticamente e quasi biblicamente (“perché anche voi foste schiavi in terra d’Egitto”) alla storia dell’emigrazione italiana.

Un processo che in realtà rappresenta non un edificante e glorioso precedente che inviti all’accoglienza, ma una vergogna nazionale, una ferita non rimarginata che ha consegnato non solo generazioni di italiani allo sfruttamento in terra straniera e ad un’alienazione malamente compensata da un folclore talora grottesco, ma intere regioni del nostro paese al sottosviluppo, all’assistenzialismo ed alla corruzione endemica; e che, foss’anche per ragioni sociologicamente più che spiegabili, ha finito per creare la criminalità organizzata più famosa del mondo.

Un processo che soprattutto non appartiene al passato e non è affatto concluso, anche se si è oggi spostato, se possibile ancora più tragicamente, in settori relativamente più elevati o “nobili” del mercato internazionale del bestiame umano: perché esattamente la stessa realtà di declino nella competitività tecnologica, industriale, imprenditoriale, scientifica che porta oggi il nostro paese a cercare un rimedio a breve termine nell’importazione di manodopera a basso costo ci rende simmetricamente un facile bersaglio dei comportamenti predatori di chi drena per proprio uso, foss’anche ad un livello superiore della “catena alimentare”, risorse umane eccellenti che sono prodotte in gran parte a spese della comunità nazionale, del suo sistema educativo e delle sue residue potenzialità umane e culturali, aggravando il declino stesso.

A fronte di entrambi i fenomeni, da tempo la neolingua della political correctness dominante sta tentando di far passare il termine di “migranti”. Simpatica parola che suggerisce la rimozione della realtà concreta degli immigrati che trasformano il panorama culturale e demografico del nostro paese, della realtà concreta degli emigranti che lo lasciano per sempre per mettere a frutto altrove ciò che hanno imparato a fare, a favore dell’immagine onirica di una qualche sorta di “ritmo naturale”, simile a quello delle rondini o delle oche selvatiche, o di un fenomeno storico da sempre in atto. Ma se le parole devono ancora avere un senso, le vere migrazioni (quelle indoeuropee in Asia, quella dei dori in Grecia, quella dei longobardi in Italia, quella dei vichinghi in Islanda…) rappresentano, in analogia con il mondo animale, lo stanziamento in nuovi territori di popoli interi, che vi si spostano con le loro istituzioni, la loro organizzazione politica, la loro struttura socio-culturale, i loro beni; e non viceversa il fatto di estirpare singoli individui (e-migranti) dalla loro comunità di appartenenza per “integrarli” (im-migrarli) in una società di destinazione destinata di riflesso alla stessa alienazione e disarticolazione mercantilista che è loro inevitabilmente riservata.

Perché, parliamoci chiaramente: emigrazione di massa non significa nient’altro che sfruttamento capitalista. E’ del tutto ovvio, ed apertamente confessato da parte di chi predica la libertà di traffico di carne umana, che l’immigrato serve a fare i lavori che gli autoctoni non vogliono fare, non sanno più fare, a condizioni che non accetterebbero più, non avendo la sua importazione nessun altro plausibile scopo (salvo forse oggi quella di puntellare governi fantoccio delle nuove colonie occidentali dando una valvola di sfogo alla parte più intraprendente ed irrequieta di ciascuna nuova generazione).

Ora, l’assimilazionismo già è odioso nel suo distinguere e privilegiare, secondo una logica stile “capanna dello zio Tom”, e rispetto a chi manifesta distruttivamente l’ovvio e giustificato disagio sociale della sua posizione, lo schiavo “rispettoso” e “sottomesso” che più è pronto a sottomettersi alla norma sociale della società di accoglienza, scimmiottarne i modi, accettarne le regole, occuparne i gradini sociali più bassi, rinnegare la sua identità e nazionalità di partenza. Ma nella sua improbabile versione in buona fede, e al di fuori di una logica di brevissimo termine (“dopo di noi il diluvio”) l’assimilazionismo appare  d’altronde anche suicida, perché l’immigrato che fosse davvero “integrato” sino in fondo diverrebbe (e diviene) per definizione indistinguibile dall’autoctono: ugualmente indisponibile a fare i lavori  che (nel nostro caso) “gli italiani non vogliono più fare”; ugualmente portato a ottenere un master in business administration per ricercare bonus milionari come banchiere, o alla peggio per infilarsi in qualche nicchia assistita e parassitaria, anziché a studiare chimica o ingegneria o semplicemente a imparare a maneggiare un tornio; destinato a percepire lo stesso salario e la stessa pensione, e magari alla fine persino a fare… altrettanti pochi figli, salvo poi magari invocare a sua volta l’importazione di una nuova generazione di schiavi che lo mantenga, in un’escalation la cui accelerazione non si vede come e perché potrebbe essere sostenuta consentendo a tempo indeterminato a società decadenti (e rese vieppiù decadenti dal processo suddetto) di continuare a vivere al di sopra dei propri mezzi in territori le cui risorse sono già spremute  all’osso da generazioni, e che malgrado tutto continuano a presentare una densità di popolazione di  gran lunga superiore a quella delle terre che l’emigrazione viene a spopolare dei suoi elementi più essenziali. Servo di oggi, concorrente (magari meno smidollato) di domani in uno sfruttamento nazionale ed internazionale sempre più esteso e spietato…

Ciò che ha potuto reggere, non senza inconvenienti, per la pompa aspirante rappresentata dai grandi spazi e dalla potenza crescente degli Stati Uniti del diciannovesimo secolo e della prima metà del ventesimo, non rappresenta certo una soluzione nell’Europa del ventunesimo. E in ogni modo l’esperienza storica conferma l’insegnamento di Nietzsche che la schiavitù è un pericolo mortale per lo schiavista prima ancora che per lo schiavo, dato che l’abbondanza di manodopera a basso costo è sempre stata una maledizione per le società che ne hanno goduto, e che ne sono state invariabilmene condannate, alla fine, alla stagnazione tecnologica e produttiva, al parassitismo, alla frantumazione sociale. Mentre gli sviluppi tecnici, economici, organizzativi, imprenditoriali che hanno assicurato il dinamismo e la competitività storica di una società sono sempre stati sostenuti dallo stimolo di una manodopera qualificata e produttiva ma costosa, non escluso mediante la vivace domanda interna e l’innovazione forzata che questa inevitabilmente ingenerava.

Ma diciamo la verità: l’emigrazione non è solo una sorta di eroina economica, demografica, politica per i paesi di destinazione, una droga che alimenta ed aggrava i problemi che sarebbe chiamata a risolvere, e che li condanna  – come si meritano – alla perdizione come vendetta postuma dei popoli depredati dalla loro migliore gioventù, e con essa del loro futuro. E’, soprattutto, il simbolo di una cocente sconfitta per i paesi e gli individui che sono più o meno obbligati (o indotti con successo) a ricorrervi, solo un accecamento ideologico potendo indurre a confondere la pena suprema dell’esilio con la posizione dell’esploratore, dell’avventuriero, del colono, del conquistatore. Una sconfitta che può e deve ispirare umana comprensione, ma che – per chi non sia animato dal pregiudizio cosmopolita che è oggi come ieri il marchio invariabile della decadenza – non può in alcun modo costituire oggetto di ammirazione, nostalgie o celebrazioni. O tanto meno di colpevole, compiaciuto incoraggiamento.