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Un'Italia senza cuore?

di Franco Cardini - 23/02/2010

 

Ebbene, no. Le “celebrazioni” per il 150° dell’unità d’Italia non si annunziano affatto tranquille. Ed è bene che non lo siano. L’evento non va “celebrato”: va meditato, ripensato, magari reinterpretato. E’ evidente che ci saranno, e sono già appostati, i soliti “cecchini” dell’historically correct, pronti a sparare sui “revisionisti” di turno. Lo facciano pure. La storia o è revisione, cioè rivisitazione critica, o non è nulla. Va detto con chiarezza: qui non si tratta certo di offendere né la memoria, né la sensibilità di nessuno. Solo che non si sente proprio il bisogno di tornare a vecchi rullar di tamburi: anche perché i Tamburini Sardi non commuovono e tantomeno convincono più nessuno. Si tratta di esaminare pacatamente come fu “fatta l’Italia” e come avrebbe potuto esser fatta, dal momento che la convergenza tra il progetto militare e centralista sabaudo, di marca bonapartista (e difatti almeno fino al 1860 fu Napoleone III a sostenerlo), e quello centralista e anticlericale se non anticattolico di segno mazziniano-garibaldino dette luogo a un’Italia “unitaria” che non rappresentava per nulla l’esito della sua storia millenaria, ch’è al contrario storia policentrica e particolaristica, quindi suscettibile semmai di un esito federalistico “alla svizzera” o “alla tedesca”, anziché centralizzato “alla francese”. Ed era quanto veniva sostenuto da personaggi pur tanto diversi fra loro, quali un Rosmini, un Gioberti, un Cattaneo.

I governi centralistici e sabaudo-garibaldini, e più tardi quelli dell’Italietta crearono la “questione meridionale” e gli scompensi dell’immigrazione interna”, ma anche di quella esterna della quale non si curarono (ci pensarono semmai uomini di Chiesa, come il vescovo di Piacenza Scalabrini); gettarono il paese nella sconsiderata avventura coloniale abissina; repressero nel sangue le lotte operaie e affrontarono la questione sociale a colpi di “tassa sul macinato”, di “leggi speciali” e di protezione agli sfruttatori; risolsero con il sistema delle annessioni forzose e dei sequestri unilaterali il loro rapporto con la Santa Sede. Per quanto non sia certo il caso di sostenere che nella soluzione unitaria del Risorgimento era già in nuce, deterministicamente, il fascismo, va detto che le sue premesse erano già largamente presenti fin dagli esiti ultimi di un certo garibaldinismo, dal Crispi all’Oriani; che esso non fu quindi per nulla la “calata degli hyksos” come sosteneva il Croce, che ne era obiettivamente per alcuni versi egli stesso un precursore; e che se non altro il fascismo ebbe il merito obiettivo di fondare definitivamente nel nostro paese lo stato sociale, dopo qualche timido tentativo giolittiano.

Ma, su tutto ciò, abbiamo per fortuna già cominciato a litigare. Ed è giusto, equo e salutare che il primo ad essere attaccato sia proprio il breviario dei buoni e ipocriti sentimenti, il libercolo di propaganda unitaria, liberale, ipocrita e strappalacrime scritto per mettere a posto la coscienza d’una borghesia egoista e retorica: Cuore di Edmondo De Amicis. Ora, in un denso saggio, Pino Boero e Giovanni Genovesi scoprono che non si trattava per nulla di un “libro per scolari”, bensì di un progetto utopico per la scuola d’un’Italia unita senza essere né adatta, né pronta a divenir tale. Non c’è dubbio che la scuola primaria e la leva militare, entrambe obbligatorie, furono le due misure più impegnative e più efficaci del tentativo di “fare gli italiani”. Oggi riscontriamo che hanno tragicamente fallito entrambe: ma, date le premesse postrisorgimentali, non possiamo certo dire che fossero inopportune. Erano anzi necessarie: solo che erano insufficienti. A fare gli italiani mancarono anzitutto le premesse morali e culturali, che avrebbero richiesto una sollecita pacificazione con l’unica forza davvero popolare e unificante delle genti d’Italia (non della sua ridicola borghesia): la Chiesa cattolica. E mancò inoltre la giustizia sociale: mancò una seria riforma agraria in un paese ch’era largamente contadino e proletario, mancò uno sviluppo imprenditoriale e industriale equamente distribuito (si preferì rapinare il Sud per sviluppare il Nord), mancò una cultura della solidarietà nazionale in grado di disciplinare sul serio e secondo giustizia l’immigrazione interna e di arginare se non impedire (e si poteva farlo) l’emigrazione all’estero. L’Italietta fu un’Ingrata Patria: tutto quel che seppe fare, cinquantacinque anni circa dopo l’unità, fu di mandare 600.000 suoi figli all’infame e inutile macello del 1915-18. Ma nemmeno le trincee furono un crogiolo in grado di attuare la fusione del mai davvero nato popolo italiano. In quelle condizioni e con quelle premesse, nel ’19, ci aspettavano soltanto il comunismo o il fascismo. E così fu.

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Sul “Corriere della Sera”, Giorgio De Rienzo ha dato conto del saggio di Boerio e Genovesi dedicato al deamicisiano Cuore inquadrandolo nella restante ampia produzione del De Amicis, mentre Sergio Rizzo e Gianantonio Stella hanno indagato con finezza sul rapporto tra la vecchia scuola torinese deamicisiana, che accoglieva “fraternamente” (in teoria…) gl’immigrati dall’Italia meridionale nel nome del compiuto Risorgimento nazionale, e la scuola d’oggi, piena di ragazzini “non-italiani” (il che vuol dire rumeni, albanesi, marocchini, cinesi…) che sono in molte classi la maggioranza ma che non vengono dai “loro” paese, anzi magari non li hanno mai visti, perché sono nati in Italia. Questo è uno dei problemi nodali da affrontare oggi: bisogna di nuovo “fare gli italiani”. Il che vuol dire che bisogna “fare degli italiani” proprio da quei piccoli rumeni, albanesi, marocchini, cinesi. E’ poi così arduo, così ributtante? Certo, ci vorrebbe più tempo: ma in fondo che cosa sono gli “italiani”, storicamente parlando, se non un patchwork di greci, di celti, di fenici, di etruschi, di illirici, di albanesi, di longobardi, di arabi, di berberi, di catalani?

Il fatto è che Cuore non era per nulla un libro per gli scolari: per loro, al massimo, c’era il raccontino mensile, ch’è quello che poi si è salvato. Cuore rappresentava in parte un sogno utopistico, in parte una proposta politica. Che alimentasse i desideri e le speranze di tanti e di tante uomini e donne di buona volontà – professionisti, educatori, militari, gente che aveva seriamente e sinceramente creduto nel “liberi-non-sarem-se-non-siam-uni” – è una fatto: insieme con i versi di Manzoni e la musica di Verdi, il progetto unitario italiano si è sostanziato senza dubbio di quei sogni e di quelle speranze, nei e nelle quali molti hanno creduto tanto generosamente da giocarcisi la vita. Ma non basta: non poena sed causa facit martyrem. Tutto ciò aveva il suo dark side: quei buoni sentimenti furono giocati cinicamente sul tavolo verde (il colore non è scelto a caso) della storia da una composita élite d’imprenditori e d’affaristi d’assalto, di borghesi piccoli piccoli in cerca di stipendi e di prebende, di giacobini in ritardo accecati da un astratto, utopistico, sacrilego e spesso perfino occultistico anticlericalismo che in molti casi era vero e proprio anticattolicesimo. L’unità d’Italia non ha unito: ha diviso, ha lacerato, ha umiliato. Ha perseguitato preti come don Bosco e ha chiamato in blocco “briganti” della povera gente che non accettava di veder sommare alle antiche prepotenze subite delle violenze nuove, compiute (come dice quel personaggio di Tomasi di Lampedusa) “perché tutto deve cambiare se vogliamo che tutto resti uguale”. Ha gettato in galera operai colpevoli solo di chiedere giustizia e ha obbligato centinaia di migliaia di delusi e di disperati a cercar un pezzo di pane e un briciolo di dignità all’estero, magari oltremare. Quindi, con la sua scuola, ha fatto di tutto per cancellare l’autentica storia del paese preunitario e le vere tradizioni dei suoi popoli.

Quanto a Cuore, uggiosa descrizione di un’Italietta che non c’è mai stata (perché i buoni borghesi non si scoprivano commossi la testa quando passava un martire del lavoro: ci guadagnavano sopra, e aveva ragione l’infame Franti a sorridere), va tenuto presente che, come del Decameron alla fine la gente comune legge solo le novelle di Calandrino e di Andreuccio da Perugia, cosìi di Cuore finisce che si “salvano” (ma si fa per dire…) solo il Tamburino Sardo, la Piccola Vedetta Lombarda, Dagli Appennini alle Ande. Ma le storielle della guerra del ’48 o del ’59 e la tragedia dell’emigrazione dell’Ottocento dicono davvero qualcosa ai nostri ragazzini tutti antenne e messaggini, quelli che scrivono “xche 6 = a me”? Questi ragazzini hanno a casa qualcuno con cui parlare dei Tamburini e delle Vedette? Lo sanno che il Savoia non era un cantante di Sanremo? E a quegli altri ragazzini, o magari alle ragazzine che portano il velo e che inspiegabilmente durante il Ramadan non possono far merenda come gli altri, che cosa gli raccontiamo, della Bella Gigogin e delle Cinque Giornate di Milano?

Edmondo de Amicis fu un grande scrittore. Chi ha letto i suoi reportages di viaggio lo sa bene. Lasciamo perdere la Vita militare, sulla quale aveva ragione Antonio Gramsci. Ma, con Cuore che lo rese definitivamente famoso, gli fece fare un mucchio di soldi e gli permise anche di darne in beneficenza, egli aveva scritto un libro che metteva al servizio d’un ceto dirigente interessato ad autoelogiarsi l’utopìa di un paese adatto al massimo per divenire una federazione di piccoli e non ingloriosi stati regionali che più o meno parlavano lo stesso idioma (che cos’altro erano la Svizzera o, più in grande, la Germania?) e che una banda di astratti teorici, di militari prepotenti e di furbi affaristi volle far diventare uno stato unitario alla francese per far piacere prima alla politica mediterranea di Napoleone III, quindi agli interessi marittimi e industriali inglesi e prussiani. Cuore fu funzionale a quel disegno, di cui Mussolini fu interprete unilaterale e avventuristico ma non incoerente (altro che hyksos!). E’ un progetto esaurito, se proprio non vogliamo per carità di patria (è il caso di dirlo) dichiararne il fallimento. Affidiamolo alla storia: e chiediamoci, a centocinquant’anni da quella falsa partenza, che cosa vogliamo fare della nostra Italia, dei nostri piccoli italiani che vengono dalla Romania, dall’Albania, dal Marocco e dalla Cina così come migliaia o centinaia di anni fa venivano dalle isole ionie, dalle coste anatoliche, dalle steppe eurasiatiche, dai deserti africani. In fondo, se siamo davvero una “nazione” e se esserlo ha un senso, rispetto ai grandi modelli “nazionali” europei siamo una nazione giovane. L’Italia ha appena centocinquant’anni, Francia e Inghilterra ne hanno più di cinquecento ciascuna. Se queste sono mature, essa è ancora un’adolescente. Ha tutta la vita dinanzi per cambiare. Se ha sbagliato fino ad oggi, ha tutto il tempo per cambiar vita. L’Inghilterra lo ha fatto nella seconda metà del Seicento, la Francia tra Sette e Ottocento. Perché noi non potremmo farlo adesso?