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Jung e l'alchimia

di Alessandro D'Alonzo - 23/02/2010

 


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Premessa.

Il presente elaborato è incentrato sull’interpretazione junghiana degli scritti di Zosimo di Panopoli, in particolare il Peri aretes. Ho riportato nella nota bibliografica i diversi testi di Jung dedicati all’alchimia. In particolare, Zosimo ed il Peri aretes diventano oggetto di studio specifico con Le visioni di Zosimo, contenute in Studi sull’alchimia. Ho ritenuto utile, inoltre, approntare un’introduzione sommaria alla tradizione alchemica nei suoi diversi contesti storico-culturali, evidenziando i tratti peculiari di quella occidentale e confrontandoli, in particolare, con quella indiana e cinese. Ho poi ricostruito il contenuto del Peri aretes, basandomi sulle traduzioni e sui commenti del testo di Tonelli e su quello della Mertens. I paragrafi 3-6, al contrario, sono dedicati all’esegesi junghiana di Zosimo e alle fondamentali interazioni tra alchimia e psicologia del profondo. Alchimia e psicologia sono, infatti, connesse da interazioni ermeneutiche vicendevolmente fertili: se la seconda, infatti, è indispensabile per comprendere le reali finalità sottese all’inesausta ricerca di una tradizione millenaria, la prima, per contro, getta una luce chiarificatrice sul significato recondito di tanti archetipi inerenti la dimensione onirica individuale e collettiva.

1. Introduzione generale all’alchimia.


Il difetto sostanziale della metafisica occidentale è sempre stato, per Heidegger, dal mito della caverna platonica a Nietzsche, il dualismo e la volontà di predominio sull’ente. La stessa dicotomica scissione è presente in alcuni passi della Genesi, dove la natura è declassata alla stregua di un dono divino da sfruttare e manipolare. Al contrario, la tradizione alchemica- ed in generale l’esoterismo- hanno cercato di stabilire, sotto il profilo teoretico, delle differenti modalità relazionali con il mondo sensibile. Non è più l’uomo che domina una phýsis ormai desacralizzata, ma un lavoro di trasformazione della materia in grado di perfezionare la totalità del mondo naturale e dello spirito, capace di ricongiungere quest’ultimo alla matrice universale, opus di riconciliazione nell’unità dello spirito e della materia, teoretico ed al contempo sperimentale, in cui l’alchimista “mette a morte” la realtà esistente per ottenere un nuovo inizio foriero d’incorruttibilità ed immortalità, gettato nell’hic et nunc del mondo contingente e non soltanto negli orizzonti escatologici di una promessa oltremondana.
In Occidente ai tempi di Keplero, Newton e Descartes, circolavano una grande quantità di testi alchemici (lo stesso Newton attinse a piene mani da questi documenti). Con la Rivoluzione Industriale si produsse tuttavia l’eclissi di queste ricerche: il modello meccanicistico soppiantò la cosmologia e la fisica degli alchimisti. L’interesse degli stessi scienziati del XVII secolo era focalizzato sulle dinamiche della trasformazione biologica da osservare in laboratorio: la mutazione del bruco in farfalla. Gli scienziati del seicento adottavano gli stessi metodi usati, a suo tempo, dagli alchimisti nei confronti della fisica aristotelica: quest’ultima, ritenuta insoddisfacente, veniva integrata con nozioni attinte dallo stoicismo e dall’ermetismo; allo stesso modo, gli scienziati accogliendo parzialmente gli assunti alchemici ne avvaloravano le dinamiche “sperimentali” attraverso l’irrobustimento teoretico fornito dalla fisica newtoniana. Ovviamente, sparivano le tracce degli elementi peculiari dell’arte, come, ad esempio, il lapis philosophorum capace di garantire- una volta trovata- la trasmutazione in oro del vile metallo. Dopo la rivoluzione industriale e lo sviluppo della chimica moderna, l’alchimia entra in crisi e sembra destinata a scomparire. I nuovi scienziati guardano ad essa con sufficienza, ne deridono l’ingenuo ed oscuro simbolismo iniziatico, compatendone l’assenza di chiarezza metodologica. Tuttavia, l’alchimia, non per questo, cessa di esistere: semplicemente se ne smarriscono le tracce nei circoli dei filosofi della natura, ma continua a tramandarsi, ripiegata su se stessa, all’interno delle società iniziatiche occidentali.
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Si deve ricordare come l’arte regia si sia sviluppata in variegati contesti storici, quindi, se non è lecito pensare all’esistenza di diverse alchimie, si deve, quanto meno, tracciare un breve excursus sulle similitudini e sulle differenze inerenti la sua presenza nelle diverse tradizioni culturali e religiose. In ogni caso, possiamo sostenere come il filo rosso, in grado di ricollegare tutte le diverse scuole e correnti, debba essere evidenziato nella cerca di un oggetto- riconducibile ad una pietra, ad una tintura, a dell’ acqua o ad un elixir- dotato di miracolosi poteri. Quest’oggetto, desideratum degli alchimisti di tutte le epoche, non sarebbe dovuto servire soltanto a fabbricare l’oro dal vile metallo, ma anche ad assicurare l’immortalità, o quanto meno a prolungare indefinitamente l’esistenza: motivo che richiama la saga di Gilgamesh ed anche il vello d’oro degli Argonauti.
Del resto, in tutte le tradizioni alchemiche, in particolare in quella cinese, determinate piante e frutti sono in grado di prolungare la vita, procurando all’adepto una perenne giovinezza. Un testo indiano dell’VIII secolo a.C., il Śatapatha Brāhmana, proclama che «l’oro è immortalità». Nella tradizione ayurvedica il termine sanscrito che traduce la parola “alchimia”, rasāyana,, designa una serie di tecniche volte al ringiovanimento del corpo. Probabilmente, in India la ricerca della prolongevità è funzionale al perfezionamento della vita ascetica: enfatizzando l’uso del mercurio e delle droghe, nella realizzazione e nella trasmutazione di un corpo perfetto e immortale, l’alchimia induista può essere definita come alchimia “mercuriale” (Dhāturvāda), al contrario dell’alchimia buddhista nota come Rasāyana (letteralmente, “la via del rasa o delle essenze”)) . La differenza fondamentale tra l’alchimia indù e quella buddhista risiede nel maggior risalto dato da quest’ultima ai procedimenti interni yogici rispetto a quelli esterni e “chimici”. Nell’alchimia buddhista, la prolongevità, assicurata dalle sostanze chimiche, è soltanto un mero mezzo per realizzare la Bodhi, lo stadio dell’Illuminazione. La “chimica” induista e quella yogica buddhista, tuttavia, condividono molte tecniche e trovano il loro perfezionamento nei veicoli tantrici Nāth, Siddha, Sahajiyā e Vajirayāna. La ricerca cinese dell’immortalità fisica, invece, passa attraverso la formazione di un corpo incorruttibile, in grado di salvaguardare dalla migrazione ultraterrena le anime yang hun e yin p’o. Mentre in India la ricerca dell’immortalità si incentrava sulla conoscenza delle piante officinali e dell’antica erboristeria, in Cina era la fabbricazione dell’oro potabile a perpetuare il mito dell’eterna giovinezza. Nell’alchimia occidentale, la ricerca della prolongevità si sviluppò soltanto dal Medioevo. Il mito alchemico dell’immortalità si fondava sull’archetipo della Madre Terra dispensatrice di doni sublimi, a beneficio di chi sapeva carpirne gli arcani linguaggi: la stessa epopea di Gilgamesh, alla ricerca dell’erba moly, testimonia la possibilità che nel grembo della Natura si celi la salvezza dalla morte fisica. In questo quadro ideologico, strutturalmente dualistico, non poteva certo attecchire, prima del Medioevo, l’archetipo della Madre Terra e della Natura come riflesso speculare del mondo divino.
Il recupero dell’idea della prolongevità fu possibile, per l’Occidente, soltanto in seguito all’incontro con la cultura islamica, anche se la vera e propria dottrina originaria dovette essere riplasmata in funzione delle convinzioni teologiche cristiane, renitenti ad ammettere la possibilità di sfuggire alla morte e, dunque, al giudizio oltremondano. Per questo, gli alchimisti occidentali sono sempre stati maggiormente interessati alla trasmutazione dei metalli in oro.
D’altro canto, presso molte culture tradizionaliste assume una certa importanza l’idea che l’alchimia sia in qualche maniera riconducibile ad una pratica ostetrica. La Madre Terra – venerata essenzialmente nelle civiltà che hanno conosciuto la coltivazione dei cereali- partorisce dal proprio grembo l’oro, qualora non la si ostacoli o disturbi: caso quest’ultimo, in cui si trova costretta ad abortire altre varietà di metalli impuri, mentre soltanto l’oro è da considerare come il figlio legittimo della Madre Terra. In questa chiave di lettura, l’alchimista deve completare l’azione interrotta della Natura. Nell’Alchimist (1610) di Ben Jonson è espressa chiaramente l’’identificazione dell’alchimista con l’ostetrico. Per Simone da Colonia la trasmutazione/parto della Natura deve essere aiutata da uno specifico elixir, il quale versato sui metalli imperfetti, conduce alla loro completa raffinazione e perfezione.
Del resto, la formazione del lapis philosophorum o elixir (il termine “elixir”deriva dall’arabo, ed a sua volta trasforma un vocabolo greco: “el” corrisponde all’articolo arabo “al”, mentre “iksir” è un’arabizzazione del greco “xerion”, cioè “qualcosa di secco”, “polvere secca”, ecc.) era tutt’altro che semplice. Thomas Norton, un alchimista inglese del XV secolo, nel suo Ordinall of Alchemy descrive le difficoltà- e la conseguente frustrazione intrinseca- alla ricerca. È molto probabile, naturalmente, che anche il Lapis Philosophorum non fosse altro che una trasposizione allegorica della trasformazione interiore realizzata dall’adepto; tuttavia essa era anche qualcosa di più di una metafora. Al contrario, essa costituiva l’oggetto di un’accanita ricerca sperimentale condotta all’interno dei laboratori alchemici. La sua realizzazione era assicurata dal conseguimento e dal superamento di quello stadio, indicato dagli alchimisti, come fase “rossa” , preceduto in ordine decrescente da una fase “bianca” e da una “nera” . Quest’ultima deve essere intesa come una sorta di “morte profana” o “discesa agli inferi”, o anche nel “ventre di un mostro marino”. La fase “bianca” , invece, segna il momento della rigenerazione mistica, della rinascita iniziatica. L’ultimo stadio, la fase “rossa” è destinata a pochi e indica la realizzazione dell’opus.
La trasmutazione, infatti, per gli alchimisti doveva avvenire gradualmente attraverso tre passaggi, simboleggiati dai tre colori sopra indicati. L’inizio della ricerca era contrassegnata dalla fase “nera” (nigredo) , durante la quale si credeva di uccidere le sostanze deposte nei recipienti, procedimento corrispondente alla calcinazione in cui si cercava di ottenere l’ossidazione delle stesse. Il procedimento dell’ossidazione faceva assumere alle sostanze, appunto, un colorito nerastro, simbolicamente associato dagli alchimisti alla “morte”, alla “putrefazione” o alla “bara”. Successivamente, si procedeva alla purificazione della sostanza così ottenuta- mediante la distillazione, la filtrazione e la decantazione- fase denominata “bianca” (albedo) . La fase “rossa” (rubedo) indicava l’ottenimento della pietra filosofale.
Il numero delle operazioni necessarie al processo completo dei tre stadi era oggetto d’accese discussioni da parte degli alchimisti rinascimentali, sovente incapaci di elaborare una metodologia comune. Un alchimista come Daniel Stolcius prescriveva undici operazioni chimiche; altri, dodici come George Ripley o sette come Salomon Trismosin. Sinteticamente, si può ritenere la calcinazione, o coagulazione come una sorta di “putrefazione” della materia, mentre il recipiente usato nell’operazione assurge al ruolo di “bara”: la dissoluzione equivale, perciò, ad una “purificazione”. La fermentazione-moltiplicazione-proiezione rende la pietra simile ad un lievito in grado di trasmutare le sostanze cosparse. Uno dei grandi problemi dell’alchimia operativa era quello di ottenere una corretta regolazione del fuoco, giacché nel XVIII secolo non esisteva ancora il termometro: secondo Norton, all’alchimista che otteneva il giusto dosaggio, spettava il titolo di “perfetto maestro”. Ovviamente, la trasmissione degli insegnamenti avveniva segretamente da maestro ad allievo ed anche il contenuto dei testi era velato da una scrittura segreta e criptica. L’oscurità dei testi alchemici- un continuo intreccio di metafore e rimandi simbolici – era dovuto al palese tentativo di scongiurare le inquisizioni della Chiesa; ma anche al timore degli alchimisti di essere fatti prigionieri da parte di avventurieri e sovrani, che avrebbero potuto estorcere i segreti alchemici con la forza. Un ulteriore motivo della difficoltà dei testi alchemici è che essi rientrano in quelle tradizioni esoteriche che devono presentarsi con un linguaggio cifrato (si veda il caso della magia):gli ermeneuti del tempo, privi di sofisticati strumenti esegetici, si trovarono in, difficoltà nelle traduzioni, per cui decisero, nella maggior parte dei casi, di lasciare nella forma originaria ciò che non poteva essere reso in modo efficace.
In ogni caso, l’alchimia, come dottrina iniziatica, conserva sempre il suo carattere di segretezza, a tutte le latitudini. Una leggenda tramanda di come il più antico testo ellenistico Physikē kai mystikē (200 a.C.) fosse stato nascosto nella colonna di un tempio egizio. Nella tradizione brahmanica, Śiva si rifiuta di rivelare il segreto dell’alchimia addirittura ad una dea; mentre il più antico alchimista cinese Ko Hung (260-340 d.C.) ricorda come la segretezza sia essenziale per le “ricette”. Nel Rosarium philosophorum si avverte il lettore che questa conoscenza deve essere trasmessa per “via mistica” come le poesie e le fiabe. Una volta bevuto l’elixir che rende immortali (hsien) , l’adepto – secondo Ko Hung – deve continuare a mescolarsi con i mortali, evitando di rivelare il proprio segreto. L’appello al segreto, del resto, porta con sé la necessità di richiamarsi ad un linguaggio molto allegorico; quindi, molte pratiche “operative” non sarebbero altro che metafore del cambiamento interiore e spirituale dell’alchimista: metafore proibite, attraverso le quali potenziare l’autocoscienza e la coscienza spirituale dell’iniziato.

2. Zosimo di Panopoli e le visioni del Peri aretes.



Il testo principale di Zosimo prende l’avvio da una breve riflessione sulle acque e sullla loro composizione, con cui egli descrive il processo di separazione e ricongiungimento tra spirito e corpo, tematiche peraltro ricorrenti nella tradizione alchemica ed ermetica. Nel racconto, Zosimo viene colto dal sonno ed inizia a sognare. Il protagonista si trova di fronte ad un altare a forma di coppa, al quale si accede mediante una scala di quindici scalini. Sull’altare, ed ai piedi di esso, si trovano il sacrificante e la vittima designata che annuncia la discesa e la successiva risalita dei gradini di tenebra e luce: allegoria evidente del processo di progressivo perfezionamento spirituale, raggiungibile mediante la discesa in interiora terrae, ossia tramite l’integrazione dell’oscurità interiore nella coscienza e lo stato della “morte profana”, la nigredo alchemica. Il sacrificato svela a Zosimo la sua identità- si chiama Ione- e rivela di essere stato assalito improvvisamente, smembrato ritualmente con una spada e bruciato: è chiaro il richiamo allegorico al processo di lavorazione dei metalli. Ione si trasforma sotto lo sguardo di Zosimo in un omuncolo che divora e vomita le sue stesse carni, processo circolare che evoca il simbolo dell’ l’ouroborus, il serpente che si mangia la coda. Nel frattempo, Zosimo si sveglia e si riaddormenta di nuovo. Strani personaggi compaiono nel sogno: il barbiere, la folla, l’uomo di rame, tutti intorno ad un altare, non più luogo sacro dell’iniziazione di Ione, ma ricettacolo dell’acqua divina. Gli uomini-metallo s’immergono e vengono cotti senza morire, altro richiamo evidente alla trasmutazione delle sostanze. Il barbiere simboleggia la capacità di purificare e trasformare, l’uomo di rame è la rappresentazione antropomorfica del metallo più affine all’oro; il barbiere svela a Zosimo che l’uomo di rame è al contempo il sacrificante ed il sacrificato, dunque l’ uomo di rame, destinato a tramutarsi in oro, è lo stesso Ione. Zosimo si sveglia di nuovo, s’interroga sul sogno e comprende che la causa delle visioni è l’acqua divina. Zosimo riflette, adesso, sull’importanza dell’armonia della separazione e della congiunzione di tutte le cose che- attraverso il metodo quantitativo naturale- diventano natura. A questo punto, Zosimo si rivolge ad un interlocutore immaginario e lo esorta a ergere un tempio, formato di una sola pietra, ma, al contempo, senza inizio e senza fine. L’accesso al tempio è custodito da un serpente che dovrà essere scuoiato e trasformato in uno scalino: all’interno si trova una sorgente di acqua purissima, mentre l’uomo di rame che raccoglierà un oggetto misterioso, diventerà dapprima d’argento e poi d’oro. La prima parte del trattato si avvia a conclusione con una domanda sul «che cos’è della natura trionfante sulle nature», cui seguono delle riflessioni su quello che Tonelli chiama la “maschera del tutto”.
La prima parte si chiude con una curiosa affermazione di Zosimo, sul carattere istrionico della natura, che, in quanto «imita colui che parla la lingua ebraica», fa giustizia a se stessa e diventa più leggera, mescolando le proprie membra. Secondo Tonelli il passo potrebbe alludere sia al processo alchemico di assimilazione, evaporazione e dissoluzione della materia, sia all’autosacrificio della natura naturata- che attraverso un rimescolamento delle proprie membra- ritorna all’essenza originaria, al pneuma, diventando «più leggera di se stessa».
La seconda parte del Peri aretes si apre con una salita, che si dipana attraverso sette gradi. Zosimo incontra ancora un barbiere, vestito di un manto rosso regale: in realtà, si tratta dell’uomo di rame, che nella visione precedente vigilava sulla cottura degli altri uomini-metallo. Successivamente, Zosimo incontra un vecchio vestito di una tunica bianchissima e splendente: il suo nome è Agatodèmone. Secondo Tonelli, Agatodèmone incarna una funzione profetica, una guida spirituale in grado di condurre Zosimo attraverso i misteri della trasmutazione dei metalli; inoltre, è un altro evidente simbolo dell’ ouroborus, perché si getta tra le fiamme, riproducendo, così, la circolarità della conoscenza alchemica . Agatodèmone prima dell’autosacrificio rivela a Zosimo di essere l’uomo di piombo.
Nella terza parte del trattato, Zosimo- che sta di nuovo sognando- incontra un sacerdote, ancora di bianco vestito, che si proclama «sacerdote del più intimo santuario. Vuole trasformare i corpi in sangue, rendere gli occhi veggenti e resuscitare i morti». Zosimo, presumibilmente dopo essersi svegliato, si riaddormenta di nuovo e vede arrivare da Oriente una figura, con una spada in pugno. Dietro quest’ultima, compaiono altri due personaggi: l’ultimo, ancora vestito di bianco, è legato e si chiama «Culminazione del Sole». Egli sarà decapitato, squartato, e i suoi muscoli saranno separati dalle parti grasse e cotti nel fuoco: Zosimo comprende che quest’ultima visione rappresenta, ancora una volta, una metafora del processo di lavorazione dei metalli. Per Tonelli, un’altra figura «ouroborica» , alla pari di Ione, dell’uomo di rame e di Agatodèmone. Il sogno si conclude con la proclamazione, da parte della figura che impugna la spada, dell’avvenuta ascesa per sette gradi, mentre l’altro personaggio proclama il compimento dell’arte . Contemporaneamente, le fonti iniziano ad irrigare il terreno umido.

3. Jung, studioso di dottrine esoteriche e della tradizione alchemica.


Jung è consapevole che «la psicologia potrà pure spogliare l’alchimia dei suoi misteri, senza però riuscire a svelare il mistero dei misteri». L’alchimia è una tradizione storicamente determinata che non può essere considerata come mera produzione onirico-simbolica. Il “mistero dei misteri”, di cui scrive Jung, non concerne la concreta esistenza storica di un insieme di pratiche alchemiche perseguite nei secoli e nei diversi contesti culturali, quanto piuttosto il fondamento di questo sapere, ossia la relazione tra spirito e materia. Lo psicologo svizzero intravedeva nell’alchimia un campo del sapere arcaico, inesplorato dalla scienza sperimentale, sul quale fondare le proprie teorie attraverso lo studio dei processi psichici d’integrazione: lo stesso Jung rivela come fosse stato un sogno rivelatore ad indirizzarlo verso l’’alchimia.
L’alchimia, per Jung, sarebbe una sorta di antica “tecnica dell’anima”, in grado di realizzare– mediante l’apparato simbolico – il Sé, il principium individuationis, strutturato attraverso l’esplorazione integrativa dell’Io nell’inconscio. Tramite questa chiave interpretativa acquista particolare rilevanza l’immagine del laboratorio come metafora della personalità, attraverso cui ottenere la trasmutazione (principio d’individuazione) del metallo (Io) nell’oro (Sé). Le applicazioni alchemiche simboleggerebbero, ritualmente, il processo di perfezionamento interiore. Il lavoro dell’alchimista non sarebbe altro che un’allegoria inconscia del percorso di perfezionamento introspettivo: anche quando egli opera empiricamente, riproduce- consapevolmente o meno – la parabola del viaggio interiore del Sé. In Psicologia e Alchimia, Jung estende la sua ermeneutica simbolistica all’analisi della ricezione storica delle correnti alchemiche occidentali, allargando diacronicamente il campo di ricerca strutturale all’esegesi testuale, mentre la materia è identificata con il principio di ordine femminile che compendia sinteticamente la trinità cristiana, esprimendo così la reintegrazione dello spirito con il mondo materiale ed il negativo.
Nel Rosarium philosophorum, ad essere evidenziate sono soprattutto le “nozze chimiche” del re e della regina, funzionali all’analisi del fenomeno del transfert. È proprio il quarto fattore dialettico, di contro all’idealismo hegeliano, a garantire la riabilitazione della polarità femminile e del principio passivo, giacché,

«il lavoro sulla materia riabilita simbolicamente la polarità femminile e oscura della realtà, quella che chiamiamo “male”, che la teologia cristiana di Agostino, dopo la sconfita dello gnosticismo e del manicheismo, aveva privato di realtà ontologica».

Jung dedica grande spazio agli scritti di Paracelso, allo “spirito Mercurio” ed al simbolismo dell’albero. Ma è soprattutto la figura di Zosimo di Panopoli (III-IV d. C.), ad essere al centro dell’interesse junghiano. Ad affascinare Jung, nei trattati di Zosimo, è stato, probabilmente, l’aspetto visionario dell’opera, sono state le proiezioni oniriche sull’oggettività della materia, percepita dagli alchimisti come sostanzialità intrinseca e non come mera risultante delle dinamiche del processo inconscio d’individuazione. Nel Mysterium Coniunctionis, l’ultima opera prima della scomparsa, Jung sembra rendersi conto che l’integrazione dialettica del quarto termine- la materia- nello schema trinitario divino, pur esprimendo simbolicamente la Totalità, non la realizza concretamente, limitandosi ad indicarne la mera possibilità. La concretizzazione del lavoro alchemico è data soltanto dall’unione effettiva, ossia spirituale, tra uomo e cosmo ( Unus Mundus, secondo la terminologia dorniana). Alla fine, dunque, Jung nel suo costruttivo approccio all’alchimia, rinuncia ad oltrepassare il confine dottrinale tra la rassicurante riva dell’interpretazione psicoanalitica e i turbinosi ed oscuri flussi carsici dell’operatività iniziatica. A fronte della sterminata erudizione in materia, egli rimane uno psicologo, distante anni luce dai seguaci della neognosi contemporanea. Il compito di ampliare l’orizzonte epistemologico delle ricerche junghiane sull’alchimia è stato raccolto da due continuatori della sua opera, Marie Luise von Franz e Robert Grinell. La prima collega le elaborazioni junghiane sulla coniunctio alchemica con la teoria della sincronicità, riallacciandosi al lascito della classica dottrina esoterica del micromacrocosmo, ossia della dimensione antropocosmica del Tutto. Grinnell, dal canto suo, preferisce concentrarsi sulla rielaborazione “alchemica” dei processi psicoidi, definiti come interazioni inscindibili di spirito e materia, escludendo del tutto la possibilità di una qualunque lettura unilaterale che prescinda dalla coniunctio dei due termini.
Possiamo dunque sostenere come la scienza alchemica, nell’opera dello psicologo svizzero, assurga a linguaggio privilegiato per esprimere una serie d’interazioni fondamentali obliterate dal paradigma del dualismo cristiano e cartesiano, dominante nella civiltà occidentale. L’alchimia, secondo Jung, compensa, integra, ricongiunge la lacerante scissione del corpo dell’uomo moderno con il Regno della Natura, riuscendo ad armonizzare nell’Uno la dicotomia del soggetto e dell’oggetto, dell’osservatore e del fenomeno. Non siamo alla presenza di un controparadigma dunque: ma, piuttosto, di un tentativo di rettificare, con l’armonia degli opposti, lo squilibrio ratiocentrico causa di tante nevrosi contemporanee.
Jung, ha confessato di essersi sentito a lungo isolato, nella sua lunga attività di ricerca. Di essere stato un solitario, perché interessato a cose «che gli altri ignorano, e di solito preferiscono ignorare». Jung fu dapprima emarginato per il suo interessamento alle teorie freudiane ed a quello strano metodo- la “psicoanalisi”- che si proponeva di curare gli isterici con la terapia dell’ascolto e prescindendo da terapie coatte. Ma il pensiero di Freud era troppo focalizzato sulla libido e sulla «numinosità» del tema dell’incesto- in altre parole, ratiocentrico e illuministico- per sfiorare nel profondo gli interessi culturali e speculativi dello psicologo di Basilea, da sempre stimolato da argomenti inerenti la dimensione sovrapersonale del simbolismo religioso e mitologico. Jung arriva presto a cogliere la valenza di strutture inconscie declinate nelle modalità di
a-priori collettivi, definiti “archetipi”, minimizzati da Freud. Si consuma dunque la rottura con Freud ed inizia, per Jung, un nuovo periodo di disorientamento interiore ed isolamento. Tra il 1918 ed il 1926, Jung comincia ad interessarsi alle dottrine gnostiche, giudicandole, tuttavia, culturalmente troppo distanti dalla mentalità contemporanea. L’incontro con l’alchimia fornisce il “ponte” del legame storico tra il passato stratificato nelle dottrine gnostiche e neoplatoniche ed il presente, costituito dalla moderna scienza dell’inconscio. L’alchimia fornisce a Jung le basi storiche su cui strutturare le proprie ipotesi di lavoro e le prefigurazioni letterarie dell’esperienza interiore maturata durante la giovinezza e nel primo periodo freudiano. Nel 1928, Jung riceve dal grande sinologo tedesco Richard Wilhelm un testo di alchimia taoista, Il segreto del fiore d’oro, che dischiude a Jung nuovi orizzonti speculativi. In particolare, grazie alla lettura dei testi di alchimia, egli riesce a interpretare il significato di un sogno, in cui si trovava imprigionato nel XVII secolo. Lo psicologo svizzero sogna di trovarsi in guerra e di rientrare dalle prime linee sul carro di un contadino trainato da un cavallo. Successivamente, un castello compare all’orizzonte, il carro entra all’interno dal portone principale. All’improvviso, tutti i portoni si rinchiudono ed il contadino esclama che lui e Jung sono prigionieri del XVII secolo
Jung coglie l’evento come il segno della predestinazione personale allo studio sistematico ed esaustivo della letteratura alchemica. L’alchimia diventa, per Jung, l’equivalente storico della psicologia del profondo, grazie alla quale può concepire l’inconscio alla stregua di un processo individuale e collettivo di trasformazione che interagisce e si relaziona con la sfera cosciente, dinamica che prende il nome di processo di individuazione; ma l’alchimia fornisce allo psicologo svizzero le chiavi esegetiche per interpretare un universo di significati simbolici e immaginali. La figura di Paracelso, ad esempio, permette a Jung di esaminare il rapporto dell’alchimia con la cultura religiosa del tempo. In Psicologia e Alchimia, Jung compara e mette in relazione simbolica Cristo al lapis philosophorum, la leggendaria pietra che gli alchimisti cercavano di produrre nei loro laboratori. Nel frattempo diversi sogni danno a Jung la prova di essere sulla strada giusta. Una notte, Jung, al risveglio, ha un’allucinazione ipnopompica e visualizza un grande crocefisso verde-oro deposto ai piedi del letto. Lo psicologo svizzero interpreta il sogno come una visione alchemica di Cristo. Nell’alchimia, l’oro verde è lo spirito dell’universo, l’Anima Mundi, l’Anthropos, il filius macrocosmi che vivifica il mondo della manifestazione. L’archetipo dell’Anthropos, secondo Jung, è presente in molte tradizioni, specialmente in quella cabbalistica dell’Adam Qadmon e in quella egizia con il mito di Horus, generato da Iside dal corpo smembrato del fratello-sposo Osiride. L’equivalente cristiano dell’Anthropos è costituito- sempre secondo Jung- da Gesù, il figlio dell’uomo e di Dio. Continuando a cercare le similitudini tra la psicoanalisi e l’alchimia, lo psicologo svizzero identifica il transfert- punto focale della dottrina freudiana- con la Coniunctio, lo stato di fusione estatica che l’alchimista sperimenta verso la natura ed il Tutto, unione tra microcosmo e macrocosmo, in termini junghiani tra inconscio personale e inconscio collettivo. Jung, infatti, influenzato sia dalla lettura di mistici cristiani come Meister Eckhart, Nicola Cusano e Jacob Boehme, sia dalla conoscenza delle filosofie e religioni dell’Oriente e dell’Estremo Oriente, ha sempre cercato di rivitalizzare una visione monistica del cosmo, in grado di superare le aporie teologiche del dualismo cristiano tra la bontà di Dio e l’esistenza del male. In questa prospettiva, la coniunctio alchemica- lo Hieros gamos- equivale alla coincidentia oppositorum cusiniana o alla moksha indù, al riconoscimento dell’unio mystica tra il Sé e l’Universo: « con un Dio che è una complexio oppositorum “tutto possibile”, nel significato più pieno dell’espressione: la verità e l’inganno, il male e il bene».
Nel Segreto del Fiore d’Oro, Jung descrive il processo taoista di circolazione dell’energia vitale all’interno del corpo, ma soprattutto riesce a mettere efficacemente in relazione la ricerca dell’elixir interno cinese (nei tan) con l’istanza medievale e cristiana del corpo spirituale, giungendo ad avere l’intuizione decisiva sul segreto dell’opus come coniunctio oppositorum, trasmutazione della materia grossolana in materia spirituale: in termini psicoanalitici, interrelazione della coscienza con l’inconscio, processo volto a determinare il Sé, o principio d’individuazione.
Nel Mysterium Coniunctionis, l’ultima vera opera prima della scomparsa, Jung affronta i testi di Ripley, Dorn, Abraham Eleazar, basandosi soprattutto sull’analisi ermeneutica del simbolismo alchemico. La coniunctio junghiana della materia e dello spirito s’innesta in un “luogo intermedio” (metaxû), dove la coscienza e la materia psichica s’integrano interagendo. Negli stessi anni Henri Corbin definirà tale strato come Imaginale, dando inizio ad una serie di ricerche che delineeranno i contemporanei studi sull’immaginario collettivo, avallati dagli stessi junghiani, ma anche da studiosi di altre discipline, come, per esempio, Gilbert Durand, teorico di un’antropologia dell’Immaginario.

4. Il contenuto nascosto del sogno di Zosimo, secondo l’analisi junghiana.



Jung dedica uno studio specifico al panopolita, Le visioni di Zosimo, dove esamina il Trattato sull’arte o Peri aretes ( letteralmente, “sulla virtù”), in cui il panopolita racconta il contenuto di una serie progressiva di sogni, intervallati da brevi risvegli, quasi a scandire il tempo della produzione onirico-simbolica e dell’interpretazione cosciente. Jung pensa che la serie onirica non rifletta tanto una trasposizione allegorica, quanto piuttosto un’unica visione, in grado di rimandare ad un’esperienza reale, giacché era abbastanza usuale per gli alchimisti dell’epoca incorrere in sogni e visioni durante l’esecuzione dell’Opus, dove contenuti psichici inconsci venivano proiettati sulla materia e sui processi chimici.
Anche le visioni di Zosimo rispecchiano, secondo Jung, le proiezioni inconscie sulla materia, un processo dinamico che sembra caratterizzare, pressoché, tutti gli alchimisti. Mediante le proiezioni sulla materia, sul lapis o sull’acqua divina, l’alchimista entrava in contatto- sia pure in forma allegorica- con l’inconscio. Jung definisce l’imaginatio come «un estratto concentrato di forze vive, tanto corporee quanto psichiche», grazie alle quali l’operatore entra inconsapevolmente in relazione con l’inconscio, e dunque- in ultima analisi- riesce a rielaborare e ridefinire la propria personalità. All’epoca dell’alchimia tardo-antica, infatti- ricorda Jung- non esisteva la rigida separazione cartesiana tra la materia e lo spirito, gli alchimisti operavano dunque all’interno di un ipotetico regno intermedio, che nella filosofia indiana prende il nome di “corpo sottile”. Zosimo, in tal senso, proiettava sulla materia le sue convinzioni filosofiche, fortemente permeate dalle dottrine gnostiche del tempo. Zosimo- come gli altri alchimisti- doveva aver avuto sentore di una qualche sorta di relazione tra la trasformazione della materia ed i processi psichici, senza tuttavia- data la natura inconscia del processo- riuscire a definire con chiarezza le dinamiche sottese all’interazione. Secondo la psicoanalisi, i contenuti inconsci rimossi dai meccanismi censori della coscienza affiorano simbolicamente nei sogni e nelle fantasie. La catabasi del pneuma come Figlio di Dio che discende nella Materia, per liberarsene successivamente attraverso il processo anabatico, corrisponde- sempre secondo Jung- alla proiezione di un contenuto inconscio che si reifica, oggettivandosi nella materia. Qui si trova anche, secondo Jung, la principale differenza tra il cristianesimo e l’alchimia: in quest’ultima, il processo catabatico non si concentra- come nel primo caso- nel corpo dell’eletto, ma prosegue la sua discesa fino alle viscere “infernali” della materia. L’alchimia, in tal senso, dialettizza la malvagità- d’ispirazione pitagorica e dunque orfica- della Materia, recuperando il femminile, il “male”, la dualità, l’altro sentiero parmenideo. Nell’alchimia la Materia non viene semplicemente sconfessata come “tomba dell’anima”, ma si attua, altresì, un processo volto a liberare l’Anima Mundi imprigionata nella stessa, attraverso la sua redenzione. Per Zosimo, il Figlio di Dio è un Cristo gnostico, del resto secondo Jung, il panopolita apparteneva ad una comunità ermetica, come testimoniato anche dal riferimenti al simbolo del Cratere, titolo di uno dei trattati del Corpus Hermeticum. Nel Commentario alla lettera Omega, Zosimo denomina Heimarmene, il Figlio di Dio che ha realizzato la liberazione dal regno della cieca fatalità. Il Figlio di Dio è equiparato ad Adamo- di cui costituisce il lato interiore, spirituale- a sua volta equivalente all’Anthropoos, simbolo della totalità, raffigurato dalla croce e dalle quattro direzioni cardinali: dunque effige della completezza. Nel passo di Zosimo, riportato in Psicologia e Alchimia, assistiamo ad una serie di connessioni allegoriche: l’Adamo terrestre è equiparato a Thoth, l’Ermete egizio, e a Epimeteo; mentre Cristo- l’uomo interiore, l’Adamo Celeste, l’Adam Qadmon cabbalistico- è equiparato a Prometeo e ad un uomo di luce, puramente spirituale. Tuttavia, sempre per Jung, l’uomo di luce è una riplasmazione cristiana dell’originario archetipo dell’Uomo primigenio, idea filtrata dal neoplatonismo e rielaborata dagli umanisti fiorentini del XV secolo.
Nella storia dell’esoterismo è comune questo tipo di riplasmazione assimilatrice di contenuti eterogenei, sovente radicati nello stesso orizzonte culturale. Zosimo, ricorda Jung, utilizza, ridefinendolo e plasmandolo, un archetipo classico come l’uomo di luce, di probabile origine gnostica. Egli scrive che «questa ed altre idee neoplatoniche erano state diffuse ovunque, già nel quindicesimo secolo, da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, diventando patrimonio comune di ogni persona colta».
In effetti, fino al XIV secolo, la teologia ufficiale era una forma di pensiero molto simile a quella che oggi siamo soliti classificare con il termine “esoterismo”, giacché annoverava tra le sue branchie la Cosmologia, la scienza delle cause seconde.. Alla fine del XV secolo, il paradigma muta rapidamente: la teologia si separa dalla Cosmologia e dalla Filosofia della Natura, e questo vasto dominio- che comprende discipline come l’ermetismo neoalessandrino, la Qabbalah, l’astrologia, la magia, ecc.- lasciato vacante, diviene appannaggio degli umanisti eruditi. Marsilio Ficino nel 1463 traduce il Corpus Hermeticum dal greco al latino, mentre Pico della Mirandola cerca di armonizzare i contenuti della Qabbalah ebraica con il cristianesimo: nasce così, secondo Antoine Faivre, l’esoterismo moderno.
Molte idee zosimiane sono dunque riplasmazioni di dottrine precedenti, che a loro volta si tramanderanno ai posteri: ad esempio, nel XVI secolo Paracelso definiva l’uomo di luce zosimiano e l’uomo primigenio come uomo astrale. Ma secondo Jung, l’archetipo dell’uomo primordiale si è manifestato anche nello Zohar come Metatron e come uomo celeste in Daniele, Esdra, Enoch e Filone di Alessandria. In India, l’uomo primordiale può essere ricondotto a Prajāpati, il Gigante Cosmico e a Purusha, la monade onnipresente. In Iran, l’archetipo è revocato da Gayomard, il giovinetto dalle lucenti fattezze.
Zosimo pone come antagonista del Figlio di Dio, l’Antimimos daimon, l’imitatore, che qui simboleggia il principio del male; tuttavia, non si deve pensare a queste dicotomie come sostanziali ipostasi metafisiche, al contrario il dualismo è soltanto uno stato intermedio, preparatorio della superiore sintesi monistica che scioglie le contraddizioni del mondo fenomenico. Il Mercurio alchemico è ecletticamente in grado di “diventare tutto” e superare le aporie. Simbolo dell’onnipresenza pervasiva dell’Uno-Tutto è l’ouroborus, il serpente che si morde la coda, allegoria della circolarità della trasformazione, della duplice natura dell’anello perenne del divenire: come Giano Bifronte, la luce e la tenebra, il bene ed il male, il Basilisco ed il Salvatore, lo scorpione e la panacea, non sono che due facce della stessa medaglia. Come la Grande Madre Kali che crea per distruggere e distrugge per creare, l’ouroborus divora e rigenera se stesso, allo stesso modo in cui l’ermafrodito dialettizza riunificando la scissione degli opposti, originata dal rancore di Zeus verso la felicità androgina, secondo la celebre immagine del Simposio platonico. L’Anthropos di Zosimo testimonia proprio il tentativo di ripensare l’intero e la totalità, che in termini junghiani significa intuire il principio d’individuazione, il Sé, il punto d’interrelazione tra la coscienza e l’inconscio. Mercurio è equiparato all’Ouroboros, il serpente che divora se stesso, simbolo della trasformazione autorigenerante ed entrambi si riconducono all’Ermafrodito: si tratta di spiriti ctoni, che possiedono un aspetto maschile e spirituale ed uno femminile e grossolano. Non a caso, ricorda Jung nella prima materia, nous e physis sono diventati identici ed indistinguibili, una natura abscondita che si richiama al mito gnostico della prigionia di Sophia nel mondo della manifestazione grossolana:
«Il mito gnostico originario ha subito una curiosa trasformazione. Nella prima materia nous e physis sono diventati una sola cosa indistinguibile, una natura ascondita »

Ovviamente, Jung non avrebbe mai potuto avallare il mitologema gnostico della divinità imprigionata nel regno della Materia, ma le sue grandi capacità interpretative gli hanno permesso di rileggerne i contenuti in chiave psicoanalitica. Il processo alchemico, la lavorazione della Mathesis, è riconducibile alle proiezioni del rimosso inconscio nella materia, ossia al ritorno del perturbante nella coscienza, processo che normalmente trova la sua esplicazione nei contenuti onirici e nelle fantasie:
«il processo consiste in un’invasione della coscienza da parte dei contenuti inconsci, ed è così strettamente connesso al mondo di idee alchimistico da giustificare la supposizione che nell’alchimia si tratti di processi identici o almeno molto simili a quelli dell’immaginazione attiva e dei sogni, dunque, in ultima analisi, del processo d’individuazione»

L’alchimista non era consapevole di realizzare un processo di divinizzazione o d’imitatio Christi. Tuttavia, giacché il lapis, altro non è che una proiezione del Sé, quest’ultimo è equiparabile al Redentore: l’alchimista che fosse diventato capace di analizzare le sue proiezioni «<…> non solo avrebbe visto in sé l’analogo di Cristo, ma avrebbe dovuto riconoscere in Cristo il simbolo del Sé ».

La differenza tra l’ortoprassi cristiana e l’opus alchemico risiede nel fatto che mentre la prima si configura come un operare nel mondo in onore di Dio Redentore, nella seconda è l’uomo stesso ad essere investito del carattere di Redentore, circoscritto, però, al ruolo di medium, di strumento per liberare gnosticamente il divino imprigionato nella materia. Mentre nel cristianesimo la redenzione scende dall’esterno e dall’alto su tutti gli uomini di buona volontà, nell’alchimia l’Artifex si autoredime redimendo la materia:

« il cristiano ottiene ex opere operato i frutti della grazia; l’alchimista si crea invece ex opere operantis (in senso letterale) una “medicina”, un “rimedio” di vita, che per lui o sostituisce i veicoli della grazia offerti alla Chiesa, o è il complemento e il parallelo dell’opera di redenzione divina che prosegue nell’uomo».

All’epoca, doveva essere molto diffusa nell’immaginario religioso, l’immagine dello spirito prigioniero delle tenebre del mondo, nell’attesa della liberazione, operazione che avrebbe portato alla salvezza personale dell’eroe e di tutto il creato. È evidente che la liberazione dello spirito si limitava alla proiezione degli archetipi o dei contenuti inconsci nella materia, ma nel sentire comune degli alchimisti la realizzazione dell’opus avrebbe dovuto garantire la restaurazione dell’armonia edenica perduta, ossia, ancora in termini psicoanalitici, l’afferenza e l’interelazione dell’inconscio con l’Io, il principio d’individuazione.

5. Simboli alchemici.


In questa sezione, analizzerò diversi simboli onirici presenti nel sogno di Zosimo ed interpretati da Jung. Da notare come sia possibile ritrovare molti di questi simboli anche al di fuori della produzione onirica propriamente detta, ad esempio nell’iconografia religiosa, nella produzione letteraria o nell’elaborazione figurativa artistica. Possiamo, dunque, rilevare insieme ad Jung, come il simbolismo religioso- e quello alchemico in particolare-costituiscano il fondamento strutturale in grado di connettere la produzione inconscia del soggetto all’esperienza ordinaria della sfera razionale.

a) L’acqua e l’ouroboros.
Jung focalizza la sua attenzione sul simbolismo dell’acqua- introdotto dallo stesso Zosimo nell’apertura del trattato- perché nelle diverse tradizioni religiose è associata al sorgere della vita ed alla purificazione. Inoltre, nella psicoanalisi, l’acqua raffigura l’inconscio. Nell’alchimia, l’acqua è detta Aqua Divina o Permanens, e viene estratta dal Lapis- in questo caso inteso come Materia Primordiale- attraverso la cottura del fuoco o con un colpo di spada dall’Uovo Cosmico, simbolo della totalità allo stato potenziale, oppure viene ricavata tramite la Separatio, la scomposizione nei quattro elementi (Radices). L’aqua divina si trova nella materia come Anima Mundi (anche detta Anima Aquina). il processo della separatio viene rappresentato allegoricamente con lo smembramento del corpo umano e simboleggia il principio della trasformazione che scandisce le diverse fasi dell’opus ed il passaggio dalla nigredo all’albedo.

Un altro simbolo dell’aqua divina è il serpente mercuriale che viene fatto a pezzi e richiama lo smembramento del corpo umano, metafora dell’autotrasformazione rigeneratrice, efficacemente richiamata dall’ouroboros, il rettile che si divora la coda. Secondo Mertens, Zosimo potrebbe aver preso l’idea dello smembramento del serpente, funzionale all’edificazione del tempio, da un testo magico denominato lapidario Orfico, dove si affronta la tematica dello smembramento del rettile con l’aiuto di una spada ed in prossimità di un altare.
È interessante notare come nel simbolismo dell’Ouroboros il contatto della bocca con la coda, possa presentare un significato ambivalente. Alla prima impressione, sembra che il rettile si stia mangiando le estremità inferiori, ma niente vieta di pensare che, al contrario, stia fecondandosi la coda ed il corpo stesso. Quest’ambivalenza deve essere intesa come un tentativo di uscire dalla dicotomia dell’esperienza empirica, in cui l’osservatore è sempre costretto a riconoscere davanti a se un oggetto, riportando la speculare metafisica cristiana al paradigma neoplatonico d’ispirazione monistica, mentre nella prospettiva junghiana testimonia il tentativo di sciogliere la polisemia dei costrutti onirici nel principio della sincronicità.
Non a caso, nella prima visione di Zosimo appare la figura del sacerdote che sacrifica se stesso: richiamo evidente all’ouroboros, ma anche- secondo Jung- a Cristo. Non è casuale- nell’interpretazione junghiana- che l’autosacrificio sia perpetuato attraverso lo smembramento, motivo che richiama la tradizione misterica dei culti di Dioniso, fatto a pezzi dai Titani, e dell’Orfismo, in cui lo stesso eroe viene dilaniato dalle menadi. Del resto, nelle Baccanti, Euripide descrive le menadi all’estatico inseguimento di un cervo da dilaniare ancora vivo con i denti come massima manifestazione dell’orgasmo dionisiaco.

[/i]b) Lo scorticamento e la decapitazione.[/i]
L’altare a forma di coppa, in cui nel sogno di Zosimo vengono fatti bollire gli uomini, rimanda al simbolismo dell’Atanor e del forno alchemico. La morte e resurrezione simbolica per scorticamento, cui viene sottoposta la principale figura del sogno di Zosimo, rimanda, secondo Jung, al mito del dio Attis- morto dissanguato, dopo essere stato attaccato da un cinghiale- a quello di Marsia, che aveva osato sfidare Apollo in una prova musicale, ed allo stesso Mani, contemporaneo di Zosimo. Il rito dello scorticamento, ricorda Jung, era presente ad Atene, dove ogni anno si scuoiava ed impagliava un bue, ma esisteva anche tra gli sciiti, i cinesi, gli abitanti della Patagonia. Anche nel pantheon meso-americano, a fronte di una complessa cosmologia simbolico-numeriaria, gli dei si sottopongono a numerose morti per scorticamento per riprodursi nei relativi doppioni delle stesse divinità. Nella visione di Zosimo, il rito di scorticamento concerne il capo, ossia è piuttosto uno scotennamento: Jung ricorda, dottamente, come divorare il cuore, il cervello, o indossare la pelle del nemico significasse assumerne le qualità e le caratteristiche vitali: ecco perché, in molte tradizioni arcaiche, il rito era riservato al guerriero fatto prigioniero e sconfitto. Lo scorticamento rappresenta, dunque, la trasformazione rigeneratrice. Si tratta, nell’universo simbolico alchemico, dell’estrazione del pneuma, l’elemento volatile o liquido, dalla materia, attraverso la mortificazione del corpo di quest’ultima. L’Aqua Divina estratta serviva per rinvigorire il corpo deceduto, ma anche per completare l’ulteriore processo d’estrazione dell’anima. Ecco, dunque, il motivo della circolarità dell’autotrasformazione rigeneratrice presente nell’alchimia: l’essenza è presente ed obliterata nello stesso corpo corruttibile e deve essere estratta per rinvigorire ciò che era destinato alla decadenza della corruzione, o, in alternativa, per assicurare la liberazione dell’anima. Lo schema è presente nel mitologema della morte per smembramento del vecchio re, simbolo dell’ipertrofia dell’Io, sopraffatto- giacché ignaro- dall’inconscio. L’estrazione dell’edema e l’asciugamento del cadavere preludono al rinvigorimento ed alla rinascita vitale: mentre all’inizio il corpo del re era sopraffatto dall’acqua- ossia dall’inconscio- adesso asciugata e separata l’acqua dal corpo si è come aperta la via dell’analisi e si è presa coscienza dei contenuti rimossi.
Nel sogno di Zosimo, anche la decapitazione assume un significato importante, perché la testa, effigie di rotondità, simboleggia il movimento circolare che sottende la trasformazione della sostanza arcana. La decapitazione del serpente, dunque, significa che l’adepto è entrato in possesso della sostanza arcana. Da notare, come ricorda Jung, come la testa richiami allegoricamente anche il sole, in connessione simbolica con l’oro, dunque con la stessa sostanza arcana o lapis.

[/i]c) Il cratere, gli angeli, Iside.[/i]
L’altare a forma di coppa richiama un’immagine ermetica che Zosimo conosce certamente, quella del cratere pieno di nous del IV trattato del Corpus hermeticum, simbolicamente equiparabile anche alla. caverna iniziatica, o all’acqua battesimale che racchiude il passaggio da una stato di coscienza ad un altro. Infatti, Jung riporta un passo in cui Zosimo esorta una discepola ad affrettarsi a immergersi nel cratere, cosicché possa risalire alla sua vera stirpe. È evidente, quindi, il valore iniziatico della coppa-altare: immergendosi in essa, la discepola riuscirà a realizzare il passaggio iniziatico- nella scansione della morte profana per immersione e della rinascita per emersione- entrando a far parte a tutti gli effetti della scuola o del circolo degli alchimisti:

«il cratere di Poimandres è la vasca battesimale in cui possono acquisire consapevolezza gli uomini ancora inconsapevoli e privi della conoscenza, i quali anelano all’ennoia».


Anche in un altro testo citato da Jung, Iside e Horus, l’acqua assume importanza primaria; del resto- come ricorda lo stesso autore- essa rimanda al Nilo, al grande fiume che in Egitto assicura lo scorrere della vita. Osiride, dio smembrato come Dioniso ed Orfeo, simboleggia il piombo e lo zolfo, quindi, la sostanza arcana. Il piombo è l’acqua che proviene dall’elemento maschile, il quale a sua volta è in connessione con il fuoco, dunque con lo spirito: infatti, come ricorda lo stesso Jung, nel concetto di aqua nostra alchemica, si richiamano simbolicamente, oltre all’elemento acquatico, anche il fuoco e lo spirito.
In Iside e Osiride, la dea egizia rifiuta l’unione con due angeli, il secondo dei quali le rivela il segreto della preparazione dell’oro e dell’argento, tradizione che la stessa dea egizia trasmette al figlio Horus. Secondo Jung, l’angelo richiama, al contempo, la sostanza volatile, il pneuma- nell’alchimia da sempre in relazione con l’acqua, in altre parole con la sostanza arcana- ma anche la personificazione delle forze inconscie che si presentano alla coscienza. Non a caso nel sesto capitolo del Genesi, gli angeli dimostrano particolare interesse per le donne della terra, e nel libro di Enoch si congiungono carnalmente con loro. Da questo mito, ricorda Jung, deriva l’usanza delle donne di velarsi la testa, quando entrano in Chiesa. In tutti e due i casi, sia che gli angeli simboleggino la sostanza volatile o le forze dell’inconscio- il perturbante- è evidente il motivo junghiano che attribuisce ad essi la valenza di potenti ierofanie, in grado di simboleggiare l’irrompere epifanico di energie che oltrepassano la sfera della razionalità e della coscienza, segnavia della probità nel cammino d’individuazione.
Ma la stessa Iside, ricorda Jung, può essere identificata anche come Materia Primordiale e polarità femminile preposta alla trasmutazione. Il motivo dell’archetipo della Grande Madre simboleggia l’insostanzialità del divenire e deve essere ricercato nello scatenamento degli istinti contrapposti presenti allo stesso tempo nel femminile:

«come Kerény ha dimostrato brillantemente sulla base dell’esempio della Medea, si tratta di una tipica combinazione di motivi di amore, perfidia, crudeltà, maternità, assassinio di congiunti e infanticidio, magia, ringiovanimento e… oro. La medesima combinazione compare in Iside e nella prima materia, e forma il nucleo del dramma causato dal mondo materno, senza il quale pare essere impossibile qualsiasi riunificazione».

[/i]d) Sole e Luna. [/i]
Il femminile è da sempre elemento ambivalente, com’è evidente nel simbolismo lunare, dove una faccia del pianeta è illuminata dalla notte e l’altra rimane oscura. Dunque, per questo suo carattere ambivalente- al contrario del simbolismo solare in cui tutti i lati sono uguali- la Luna è considerata come una porta aperta sul mondo sublunare, punto di passaggio tra il regno della luce, fuori della caverna platonica, e quello delle tenebre demoniache. La “sponsa”, ossia la Luna, ammalia e suscita timore, è una tenera amante, ma può anche essere terribile, secondo il profilo sotto cui si mostra. Ecco perché la magia è da sempre messa in connessione con l’eclissi e la luna piena: per agire sulla realtà deve essere possibile il cambiamento regolato dai cicli naturali.
Jung ricorda come lo stesso Agostino considerasse la Luna come un’immagine della stoltezza e volubilità delle creature che appartengono al mondo della corruzione: «»il sole determina costanza e saggezza, mentre la luna causa mutamento e stoltezza(inclusa la pazzia).
Sole e Luna diventano dunque simboli contrapposti rispettivamente della sostanzialità e della trasmutazione, ma soprattutto l’astro solare è spesso identificato con Cristo:

«la sponsa è l’oscura luna nuova (nell’interpretazione cristiana è la Chiesa al momento dell’amplesso nuziale) e questa unione implica nello stesso tempo una ferita allo sponsus,
Sol o cristo che sia. ».


Jung riporta l’identificazione tra Mercurio e la Luna, l’elemento della trasformazione con il pianeta della volubilità. Ma, con un accostamento in un primo tempo sorprendente, Mercurio è identificato, da Jung, con lo stesso Figlio dell’Uomo, che nel passo prima citato era associato al Sole ed alla sostanzialità:

«l’equivalente alchemico dell’uomo-Dio e del Figlio di Dio era Mercurio il quale, in quanto ermafrodito, conteneva in sé sia l’elemento femminile, la sapientia e la materia, sia il maschile, lo Spirito Santo e il diavolo»


Si potrebbe dunque rimanere sconcertati da questa sorta di anarchia dei significati simbolici, in cui sembra incorrere Jung: Cristo è il Sole, sostanzialità e rettitudine, ma giacché Mercurio- a sua volta associato alla Luna- è il corrispettivo di Cristo (con la differenza che essendo ermafrodito è al contempo, principio maschile e femminile, materia e Spirito Santo o diavolo), il Redentore è per inferenza equiparato anche all’astro lunare, ossia alla trasformazione ed alla volubilità.
Tuttavia, si deve tener presente la grande quantità di testi e di autori analizzati da Jung, per cui è impossibile, ovviamente, ritrovare delle concezioni unilaterali su archetipi e mitologemi; inoltre, la polisemia è sempre stata una caratteristica essenziale ed inerente al simbolismo, che testimonia la capacità di esprimere contemporaneamente dei significati differenti e contribuisce all’arricchimento dei contenuti semantici dell’Immaginario Collettivo. Infatti, proprio perché ogni simbolo rimanda a una pluralità di significati, l’altra faccia della Luna non esprime soltanto il demoniaco, ma anche la Kenosis, l’incarnazione della natura umana di Cristo per “svuotamento” dell’essenza divina, come è testimoniato da un passo del Mysterium Lunae di Rahner, riportato da Jung.


[/i]e) Circolarità del processo conoscitivo e la morte profana.[/b]
Continuando nell’analisi dei simboli alchemici interpretati da Jung, l’acqua che bolle nell’Atanor dell’alchimista- il crogiolo delle trasmutazioni mistiche- testimonia il passaggio dallo stato corporeo a quello etereo-spirituale. Un altro passaggio allegorico inerente al legame tra lo spirito e l’acqua, secondo Jung, deve essere ricercato nel corpo rotondo dei pesci, che richiama la circolarità dell’autotrasformazione rigeneratrice, dunque l’autoreferenziale compiutezza dell’Opera: «il “rotondo” è quindi nella sua veste esteriore acqua, ma interiormente è l’arcanum. Acqua e spirito, spesso si identificano».
Ma la forma circolare richiama anche l’Anima Mundi, come ricorda Jung, riportando un passo di Cristophorus Steebus, dove si evince che l’acqua vivificata dallo spirito compie un perfetto moto circolare, che rimanda alla compiutezza del Creato: «in modo che lo spirito sovraceleste dell’acqua, unito alla luce, possa essere chiamato giustamente anima del mondo».
Anche nel Rosarium Philosophorum, l’acqua è equiparata allo spirito, mentre nel Trattato di Comario, l’acqua è descritta come un farmaco di vita, in grado di ridare la giovinezza ai defunti. L’azione dell’acqua sulla materia è equiparabile a quella divina sulla creazione. Secondo Jung, l’importanza dell’acqua nell’alchimia e nella simbologia religiosa in genere, risale a Genesi 1.3, ierofania che trova un interessante parallelo anche all’inizio del Poimandres, primo trattato del Corpus hermeticum, dove in origine esistevano soltanto le acque e le tenebre. Dunque, essa è un elemento primordiale, in grado di agire sulla qualità della materia e trasformare spiritualmente, come nel rito battesimale neotestamentario e nelle immersioni purificatrici che ancora oggi si compiono in molti fiumi dell’India, in particolare nel Gange durante il rito di Maha Kunbha Mela ad Allahabahd. Ma nell’alchimia ogni elemento ha una doppia natura e l’elixir può sovente trasformarsi in un potente veleno: come l’acqua purifica e regala la vita, così può anche uccidere. Ancora una volta, secondo Jung, &eg