Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La lezione iraniana

La lezione iraniana

di Marco Tarchi - 25/02/2010

   
Come era da attendersi, le vicende iraniane continuano, a sei mesi dalla contestata rielezione di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza del paese, ad occupare la scena informativa internazionale. E ad offrire lezioni interessanti a chi cerca, seguendo i due maggiori paradigmi interpretativi, più complementari che alternativi, che ne sono stati forniti da analisti di primo piano – la “fine della storia” di Francis Fukuyama e lo “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington – ma misurando anche gli scostamenti dai (e gli adeguamenti dei) loro canoni che le convulsioni degli eventi impongono, di cogliere e decifrare i giochi strategici per il dominio del pianeta posti in atto dopo la fine dell’era bipolare.
A Teheran e dintorni si gioca da anni una delle partite più rilevanti in questo contesto, divenuta ancora più cruciale da quando la scorribanda militare di Stati Uniti ed alleati ha destabilizzato gli equilibri nella regione circostante, annientando il potere di contenimento e interdizione dell’Iraq. Porre un freno alle capacità di influenza dell’Iran sul mondo islamico è un tema all’ordine del giorno delle cancellerie delle grandi potenze da trent’anni, cioè da quando l’ascesa al potere di Khomeini strappò la Persia dal contesto occidentale in cui si era di fatto inserita, e gli atti finalizzati a tale scopo sono stati numerosi: dall’appoggio logistico e militare fornito dagli Usa al regime di Saddam Hussein quando era in guerra con il paese guidato dagli ayatollah al rovesciamento di posizioni successivo all’invasione irachena del Kuwait e al primo conflitto del Golfo che ne conseguì, dall’intervento sovietico in Afghanistan all’assistenza statunitense alle armate mujaheddin che lo contrastavano, dal favore mostrato da Washington verso la conquista del potere talebana a Kabul sino all’apertura del contenzioso nucleare, esteso alle organizzazioni internazionali e all’Unione europea. Ogni mossa effettuata su questo scenario politico-militare si è accompagnata ad un’azione intensa su un terreno ancora più efficace per raggiungere lo scopo, quello della costruzione di un’immagine negativa del bersaglio da colpire capace di far larga presa sull’immaginario collettivo e di fare da base alla “pressione dell’opinione pubblica” che, sollecitata o inventata dai governi e dai circuiti comunicativi compiacenti verso le loro intenzioni, avrebbe prodotto le giustificazioni adeguate a qualunque iniziativa “reattiva” verso il paese che George W. Bush inserì eloquentemente, nelle ore successive agli attacchi dell’11 settembre 2001, nel famigerato Asse del Male.
Intendiamoci: che la Repubblica islamica dell’Iran ci abbia messo del suo, e non poco, per accreditare al di fuori delle proprie frontiere un’immagine non proprio idilliaca di sé, non c’è dubbio. Gli episodi sanguinosi che segnarono l’insurrezione contro lo Scià e i suoi sviluppi, i toni intransigenti dei discorsi di Khomeini e la celebre presa di ostaggi nell’ambasciata nordamericana costituirono la base di una rappresentazione che, con gli anni, non ha fatto che incupirsi. Ma è altrettanto certo che sul fronte occidentale si è fatto di tutto per andare ben oltre i dati di fatto, trasformando quell’immagine in una sinistra caricatura. Anche nel periodo di presidenza di Khatami, oggi raffigurato come un pacioso e rimpianto riformista, benché i rapporti diretti con Usa ed Europa avessero preso una piega meno ostile, nei paesi occidentali l’unica immagine dell’Iran accreditata e divulgata con ogni mezzo – dalle inchieste giornalistiche ai film e ai romanzi accuratamente selezionati e propagandati come uniche espressioni culturali del grande paese, passando per i convegni, le conferenze e le manifestazioni di protesta – era quella del paese dove tutte le libertà civili erano oppresse, le donne erano costrette contro la loro volontà a coprirsi con il lugubre chador e nessuna opposizione politica era ammessa. In questo profilo monolitico non è mai comparsa nessuna crepa: le tensioni tra esponenti delle istituzioni, i contrasti tra deputati in parlamento, la presenza di giornali dissidenti, i dibattiti culturali sono sempre stati tenuti in non cale, fintanto che un provvedimento repressivo di ispirazione politica non ha, di volta in volta, consentito di riprendere la giaculatoria polemica.
In altre parole: da quando l’Iran è passato dall’orbita statunitense a cui Reza Pahlevi lo aveva ancorato ad un campo avverso, quello dell’indipendenza nazionale, il suo destino di “paese canaglia” è stato segnato. Non ci si è mai sognati di applicargli i distinguo culturali che tante volte hanno autorizzato l’intellighenzia a passare sotto silenzio il disprezzo dei diritti politici degli oppositori in una congerie di casi distribuiti sui cinque continenti. Non si è mai indagata l’“altra faccia” del paese per capire come mai, al momento del crollo, il regime imperiale fosse stato difeso solo dalla famigerata polizia politica e da una ristretta parte delle forze armate, e attaccato o abbandonato dalla stragrande maggioranza della popolazione, che negli anni a seguire avrebbe esaltato il khomeinismo e le sue scelte, persino le più gravide di conseguenze dolorose come il dispendiosissimo scontro bellico con l’Iraq. Tutte le tornate elettorali sono state in partenza bollate come farse o mascherature di una presunta totale assenza di democrazia. Ogni atto politico dei governi di Teheran è stato liquidato con il ricorso al lessico degli insulti: fanatismo, oppressione, follia, dispotismo, e il paese è stato raffigurato come un’immensa prigione a cielo aperto, nella quale l’intera popolazione ansiosa di spezzare il giogo della tirannide è tenuta faticosamente a bada dalla violenza di pasdaran e basiji assetati di sangue.
Tanta rozzezza non è stata controproducente, non ha instillato dubbi, non ha sollecitato verifiche e tantomeno correzioni. Ancora una volta, il vantato pluralismo occidentale è stato sepolto dai bisogni della propaganda e sui giornali come sugli schermi televisivi nessuna voce discorde ha avuto diritto di farsi sentire. Al punto che l’incomprensione degli eventi è diventata una regola e ha fatto smarrire il senso della realtà. Lo ha ricordato, per la prima volta, Farian Sabahi, massima esperta di vicende iraniane in Italia in una sorprendente intervista rilasciata alla versione telematica di “Panorama” lo scorso 30 dicembre. L’autrice di Storia dell’Iran 1890-2008 (Bruno Mondadori) ha affermato senza troppi giri di parole che i presunti brogli “non sono sufficienti a spiegare la dimensione della vittoria di Ahmadinejad”, che ha costruito le basi del suo successo su cose che “per la gente comune contano di più, nelle urne, del dibattito sui diritti civili caro ai riformisti […]: ha dato in questi anni l’assistenza sanitaria gratuita a 22 milioni di iraniani, ha aumentato lo stipendio del 30% agli insegnanti, ha garantito il pagamento delle bollette agli iraniani più poveri, ha aumentato le pensioni del 50% permettendo agli anziani di arrivare a fine mese”; “ha vinto perché è entrato in sintonia con l’Iran profondo, quello di cui i giornalisti occidentali non si occupano mai”. Constatazioni dalle quali la studiosa ha tratto un ragionamento che meriterebbe di giungere al grande pubblico intossicato dalla retorica sensazionalista degli inviati di quotidiani e rete televisive dei paesi sedicenti democratici: “i riformisti dell’ex premier Mousavi hanno perso perché, al di là delle loro roccaforti giovanili ed universitarie di Teheran, al di là della loro capacità di mobilitazione su Twitter e tra i ceti più dinamici della capitale, non sono riusciti a sfondare tra l’elettorato poco scolarizzato delle campagne”.
Sono parole pesanti, alle quali Sabahi ha affiancato una palese critica alle distorsioni informative dei media europei e nordamericani, quando ha sostenuto che “Mousavi è stato sopravvalutato in Occidente […] non sappiamo che cosa avrebbe fatto se fosse stato eletto. Sappiamo solo che era l’ex braccio destro di Khamenei, non proprio un innovatore, e che è di origine azera, una minoranza etnica. Inoltre sua moglie si presentava con il chador nero ai comizi persino a Teheran, dove le ragazze si limitano al foulard”. Ma sono anche parole che difficilmente lasceranno traccia in coloro che dovrebbero esserne i destinatari.
Ai politici, agli intellettuali e agli operatori della comunicazione occidentali non interessa prendere cognizione di ciò che effettivamente accade oggi in Iran, o in un qualunque altro paese che in qualche misura si discosti dai parametri di accettabilità dettati dall’ideologia liberale vigente nel mondo “sviluppato”. Il loro concorde intento è aggiustare gli eventi alle proprie precostituite interpretazioni, sceneggiarli, manipolarli e spettacolarizzarli secondo copioni già pronti, canovacci che basta adattare caso per caso alle esigenze della cronaca. Ciò che importa è dare quotidianamente conto della superiorità del modello occidentale e opporla agli altrui abomini, non senza sottolineare la generosità con cui i detentori del copyright di questa non più perfettibile formula politica, economica e sociale sarebbero disposto a cederlo a chi ancora non ne gode i benefici.
Data la nobiltà dello scopo, ogni sotterfugio per raggiungerlo è buono: si tratti di tacere i fatti, di distorcerli o di rinunciare ad esercitare qualunque senso critico. In questa prospettiva, il caso iraniano non è che una pedina di un gioco a spettro molto più ampio, che serve perché, sfruttandone a seconda dei momenti gli aspetti più adatti alla bisogna – il timore della costruzione di bombe atomiche che i “folli” governanti di Teheran potrebbero scagliare su Israele o, chissà mai, persino sull’Europa, oppure la repressione delle manifestazioni di piazza degli oppositori, utili a far supporre che la Repubblica islamica si stia trasformando in un vero e proprio regime totalitario, che un domani potrebbe incendiare l’intero Islam e scagliarlo contro gli infedeli in un delirio di purificazione religiosa del globo terracqueo –, si può sventolare lo spauracchio del Nemico assoluto e suggerire che solo il suo annientamento, per via militare esterna o per assimilazione alla scala di valori occidentale grazie alla presa del potere di un’opposizione più malleabile e culturalmente penetrabile, potrà assicurare alle popolazioni della parte ricca del mondo quel tranquillo godimento della loro privilegiata posizione a cui aspirano. La trama della strategia comunicativa adottata in questa occasione non fa, del resto, che replicare stereotipi con cui precedenti episodi della saga ci hanno familiarizzato. Scenario e protagonisti non cambiano. C’è un governo in carica a seguito di regolari elezioni, di cui viene contestata la regolarità sulla base del principio che, come nei film, i cattivi non possono mai battere i buoni se non ricorrendo a ignobili trucchi, e comunque alla fine devono essere svergognati e sconfitti: i messicani non possono prevalere sugli yankees neppure in una scaramuccia, i giapponesi devono essere annichilati dai Gi’s, i pellerossa hanno un destino segnato di fronte alle giubbe blu dell’esercito federale. C’è una rumorosa e folta schiera di contestatori che scende in piazza per proclamarsi detentrice della vera legittimità malgrado il responso – insincero – delle urne, sforzandosi di apparire quanto più possibile in sintonia, nelle parole d’ordine, nell’abbigliamento e nei comportamenti agli standard di moda nell’agognato mondo occidentale. C’è un codice di riconoscimento dei manifestanti preventivamente stabilito e collegato ad un colore, questa volta il verde come in altre occasioni era stato l’arancione o altra tinta, che deve servire a dare a cortei e sommosse un aspetto più gioioso e a colpire l’immaginazione delle platee televisive a cui il messaggio (espresso in slogans rigorosamente vergati in lingua inglese e riportati su cartelli e striscioni) è diretto. C’è la storia tragica della vittima esemplare degli scontri, epifania della violenza dell’odiato regime, destinata ad infiammare i cuori e suscitare l’indignazione universale, trasformandosi in icona (chissà perché a Gaza non è andata così durante l’operazione “Piombo fuso”. Forse con tanti assassinati c’era l’imbarazzo della scelta?). C’è il circo mediatico delle centinaia o migliaia di inviati di giornali, radio e reti televisive che devono immediatamente fornire la grancassa al movimento, giurare sulla sua spontaneità e testimoniarne la forza numerica e d’animo al cospetto della brutale ed ottusa repressione poliziesca, salvo rincarare la dose delle contumelie contro il potere se l’operatività dei giornalisti è limitata da provvedimenti d’emergenza. C’è il coro delle istituzioni internazionali, delle organizzazioni di solidarietà (ai manifestanti) e dei governi pronto ad ammonire, denunciare, deplorare, minacciare sanzioni. C’è il tam-tam di internet, che su siti e blog si premura di far arrivare sempre e solo le immagini della “parte giusta”, ignorando, come gli altri mezzi di presunta informazione, le manifestazioni della controparte, che in partenza ci si assicura essere composte esclusivamente da impiegati e funzionari statali mobilitati e stipendiati all’uopo (il tempo per spedire le famose “cartoline precetto” con cui si sarebbero gonfiate le adunate oceaniche prebelliche difficilmente ci potrebbe essere). E ci sono, anche se sul momento non si vedono, le forme concrete di sostegno dei gruppi pubblici e privati interessati ad un rovesciamento della situazione politica e pronti a goderne i frutti se il tentativo andrà a buon fine. Tanta è la somiglianza delle situazioni che verrebbe da chiedersi se le vicende commentate in tv o in radio si stanno svolgendo davvero in diretta a Teheran, oppure sono state estratte dalla registrazione di fatti accaduti a Kiev o a Tbilisi qualche anno addietro.
Del resto, chi davvero siano gli artefici della protesta, ribellione o – espressione preferita – rivoluzione, a chi desidera avvalersene importa poco. Né è essenziale il loro effettivo grado di rappresentatività degli umori e delle opinioni del paese nel quale agiscono: le minoranze rumorose, come sempre, sono di gran lunga più efficaci delle maggioranze silenziose, che possono far sentire il proprio peso soltanto nelle cabine elettorali. Ciò che conta è che il movimento di contestazione esaltato dai mezzi di comunicazione di massa esprima un visibile attaccamento ai codici simbolici dell’Occidente, facendo supporre che nell’“anima profonda” del “popolo” che scende in piazza si annidi un tumultuoso desiderio di affrancarsi dal retaggio delle arretrate tradizioni in cui è stato rinchiuso e di incamminarsi lungo il luminoso sentiero al cui sbocco sta il paradiso della superiore civiltà made in Usa.
Il guaio è che a questa opera di manipolazione su scala industriale, ormai trasformata in un meccanismo che si riproduce secondo automatismi e non necessita più di alimentazione esterna, pare non esistere rimedio. I succubi dell’ideologia che la produce, convinti di abitare il migliore dei mondi possibile e alimentati a suon di benessere consumistico, non hanno la benché minima intenzione di metterla in discussione. E le sparute voci discordi sono rese inoffensive dall’estraneità ai circuiti che contano, compresse ai margini del dibattito o affogate nella babele di lingue e segni della rete telematica. Come nei vecchi fotomontaggi che facevano scomparire dalle immagini oleografiche a celebrazione dei regimi totalitari i personaggi che nel frattempo erano caduti in disgrazia, tutti i particolari suscettibili di turbare l’immagine armonica di un mondo diretto a passo spedito verso la completa occidentalizzazione sono espunti dalla scena. E per convincere i riottosi sono sempre aperte le porte del museo degli orrori, dove vengono esposte le nefandezze dei paesi “alieni”, di civiltà riprovevoli che forse non meriterebbero neppure di essere chiamate tali, brutali e minacciose, ansiose di dotarsi di strumenti di distruzione di massa e ossessivamente occupate a distribuire ai disgraziati costretti a sopportarle fame, violenza ed oppressione. Un panorama straordinariamente simile a quello dei paesi “selvaggi” da conquistare che le potenze coloniali disegnavano, un tempo, quando volevano illustrare ai loro abitanti i motivi che le spingevano alle lodevole e disinteressate imprese d’oltremare.
Le epoche si succedono, i metodi si trasformano, gli obiettivi variano. Ma gli appetiti di potere continuano, come sempre, a dominare gli orizzonti dell’umanità, e a travestirsi sotto il manto dei nobili sentimenti. E smascherarli è, oggi più che mai, un’opera non meno difficile che indispensabile, per chi crede che ridurre il pianeta ad una ininterrotta serie di copie conformi dell’attuale Occidente consumista, utilitarista, egoista e spregiatore degli equilibri naturali sarebbe non un passo avanti sulla via del progresso, ma un autentico crimine.