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Partiti e corruzione

di Mauro Tozzato - 01/03/2010


In un articolo apparso sul Corriere della Sera del 26.02.2010, il politologo Angelo Panebianco interviene sulla tematica, non ristretta agli ultimi eventi, relativa al rapporto tra corruzione, partiti e modalità di reclutamento della classe politica. Dapprima egli inquadra l’oggetto del problema:

<<Ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda la natura dei partiti: la loro plasticità e permeabilità. I partiti sono strutture camaleontiche, che si adattano all’ambiente in cui operano, e sono anche, inevitabilmente, condizionati, sia per il reclutamento del personale politico sia per quanto riguarda le influenze che su quel personale sono esercitate dall’esterno, da gruppi, aziende, notabili (ma anche, in certe zone, organizzazioni criminali), che nei diversi territori sono dotati delle maggiori risorse.>>

Indubbiamente questa osservazione coglie notevoli elementi di “verità” anche se viene automatico, poi, porsi la questione della possibilità delle istanze centrali dei partiti di dirigere, in un ottica nazionale, queste necessarie manovre che permettano di inserire elementi attivi di conflitto per l’egemonia tra le varie forze politiche nelle territorialità locali. Panebianco, a questo punto, constata che le cosiddette “campagne moralizzatrici” portate avanti dai partiti possono produrre qualche risultato solamente quando si sia in grado di “bonificare l’ambiente”, come nel caso delle “infiltrazioni” mafiose nelle economie dei vari territori. In conclusione il politologo così definisce la mutazione “irreversibile” delle formazioni partitiche:

<<Tramontata l’epoca che alcuni (ma non chi scrive) ritengono gloriosa dei partiti di massa ideologici, i partiti sono ormai quasi esclusivamente comitati elettorali e rimarranno tali. La loro permeabilità all’ambiente resterà, pertanto, elevatissima. E il reclutamento del personale politico continuerà a esserne condizionato.>>

Panebianco continua precisando che il ruolo delle lobbies e dei vari “gruppi di pressione”, operanti a livello locale e a livello nazionale, non deve essere “demonizzato”:

<<Le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche.>>

Ma il rapporto fra le lobbies, tra loro, e con i vari gruppi politici a cui si rivolgono, non può quasi mai - oserei dire per “definizione” – risultare trasparente; in questo blog abbiamo più volte messo in evidenza come il conflitto strategico che si svolge tra i gruppi dominanti - nel caso specifico all’interno di una formazione sociale particolare - utilizza sempre, per raggiungere i suoi fini, “trucchi”, inganni, manovre diversive che devono essere in grado di “sorprendere” e “confondere” gli avversari. Tutto questo implica che ci si debba muovere anche ai “confini” e persino all’interno della cosiddetta “area dell’illegalità”. Il professore di politologia inserisce successivamente una considerazione che ci trova fondamentalmente d’accordo, proprio a partire da quanto detto in precedenza:

<<È più che lecito, ad esempio, criticare l’attuale legge elettorale perché, fra le altre cose, spezza il rapporto fra l’eletto e il territorio. Ma come si concilia questa critica con la richiesta di usare la ramazza contro i comitati d’affari locali? Se, cambiando legge elettorale, si rinforzano i legami fra eletti e territorio (per esempio, reintroducendo le preferenze) anche i rapporti fra i candidati, gli eletti e gli interessi dei gruppi locali che fanno affari con la politica non possono che rafforzarsi. Chi scrive è sempre stato un fautore del sistema maggioritario con collegi uninominali. Perché mi sembra il sistema elettorale che meglio favorisce la competizione fra opposti schieramenti politici. Ma mentirei se sostenessi che con il collegio uninominale si allenterebbe la dipendenza degli eletti dai gruppi di pressione locale. Probabilmente, quella dipendenza potrebbe solo accrescersi.>>

A questo punto ci sembra necessario ribadire che – dato per scontata la succitata indicazione di “bonificare” le varie economie incardinate nei territori – esiste una lobby, seppure differenziata al suo interno ( per la quale La Grassa ha coniato l’acronimo GFeID), che rappresenta l’avversario da combattere per tentare di portare avanti una politica di indipendenza nazionale; una politica che avrà probabilmente bisogno di un partito che abbia anch’esso una vocazione “nazionale” (non nazionalistica) e a questo scopo una direzione centralizzata capace di coordinare in maniera unitaria ai vertici e nei rapporti “vertici-periferia” questa nuova politica.