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Il ribelle postmoderno. Occasione o sconfitta?

di Massimo Ilardi – Miro Renzaglia - 01/03/2010

Giovedì 25 febbraio, il Secolo d’Italia ha pubblicato la recensione di Miro Renzaglia del libro curato da Massimo Ilardi, Il Potere delle minoranze. Sabato 27, sempre sulle stesse pagine, Ilardi, professore di sociologia urbana all’Università di Camerino, ha replicato. Di seguito, i due articoli.

La redazione

SÌ, PERÒ
miro renzaglia

Uno dei problemi della politica oggi, di destra e di sinistra, è quello di capire i fenomeni della contemporaneità senza rimanere incastrata in categorie obsolete. Non si tratta di buttare a mare il passato, ma di uscire da contrapposizioni ideologiche che la stessa realtà smentisce, dimostrando come i confini noti siano ormai fluttuanti, aperti. Da questo punto di vista, possiamo trovare un valido interlocutore di “sinistra” in Massimo Ilardi. Di sinistra tra virgolette, vista la capacità eterodossa di spiazzare la sua stessa appartenenza. Sociologo dell’Università di Camerino, Ilardi lo avevamo già incontrato su queste pagine per i suoi saggi sulla metropoli, tra cui  Ricominciamo dalle periferie, curato insieme a Enzo Scandurra per la manifesto libri, in cui si prendevano le definitive distanze dal modello veltroniano di città.

Coraggio eretico che Ilardi ripropone nella cura del volume collettaneo Il potere delle minoranze. Immaginari culture, mentalità all’assalto del mondo (ed. Mimesis, pp. 120, euro 14), in cui si affronta la figura del ribelle. Come aveva già scritto sull’allora quotidiano, oggi settimanale Gli Altri, il ribelle è colui che sfugge alle classificazioni destra-sinistra, ma è anche figura che mette in discussione l’idea della politica come fine. Non siamo più davanti alla figura del rivoluzionario, quello che ci affidano iconografia e storia degli anni Settanta, ma a quella di un protagonista che vive la rivolta del qui e ora. Il che è tutt’altro da quanto finora concepito.

C’era una volta, infatti, il ribelle jüngeriano: quello che passava al bosco  (e il bosco era ovunque: perfino «nei sobborghi di una metropoli») per conquistarsi uno spazio di libertà da cui ripartire all’offensiva di un sistema di valori da lui non più condiviso né condivisibile. Era un ribelle che colpiva il nemico via via più immediato per arrivare a colpire, o sognando di arrivare a colpire il nemico assoluto e per stabilire quindi, a vittoria presa, un nuovo ordine di valori, una nuova società, un altro futuro. Questo ribelle – ci dice  Ilardi – non esiste più. In sua vece, è nato quello che non ha altra causa che colpire il nemico immediato nell’immediato per soddisfare, sempre nell’immediato, il proprio bisogno di giustizia: «Non si sognano nuovi mondi, nessun potere costituente o nuova sfera pubblica (…) Il conflitto si libera da motivazioni ideologiche e da utopie che sognano un’altra società possibile…».

Mutuata la fisionomia di questo ribelle da Michel Foucault (Il soggetto e il potere, 1983), non «rivoluzione» è il nome appropriato della sua azione, ma: «rivolta». Una rivolta, anzi: molte rivolte senza causa finale, quindi. Anche così destituite da finalità messianiche, comunque, queste eruzioni non sono prive di esiti politici. I coautori ne riportano alcune e le analizzano: Angelo Petrella racconta, in particolare, delle rivolte di Napoli provocate dai rifiuti e dagli insediamenti delle discariche a Chiaiano e Pianura; Giuseppe Scandurra indaga sul “degrado” urbano di piazza Verdi a Bologna; Francesco Macarone Palmieri, sulle migrazioni urbane di giovani che partono dalle periferie di Roma per riappropriarsi del “centro”;  Antonio Tursi interviene sulle interazioni fra realtà e rete virtuale nella espressione del nuovo dissenso;  Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia, infine, interpretano le logiche territoriali delle rivolte come metafora delle differenze fra religioni, soprattutto le due monoteiste: ebraica e cristiana.

È una politica che si svolge non nei palazzi istituzionali, ma sul territorio urbano: «La crisi della politica – scrive Ilardi – vuol dire anche questo: la trasformazione del territorio da bene comune a un cumulo esplosivo di particolarismi in lotta tra di loro. È dentro questa opposizione tra controllo e libertà che si origina quel politico metropolitano che ha nel ribelle una figura centrale». Raggiunto lo scopo, l’aggregazione ribelle compattata su “quell’obbiettivo” può sciogliersi per fine della ragione sociale e ricompattarsi in nuove formazioni che, magari, possono trovare i vecchi componenti di prima in contrapposizione frontale su “altri obiettivi”.

Per essere chiari su questo punto, ricorriamo alla cronaca recente. Pochi mesi fa, si è svolta a Roma una manifestazione di tutti i gruppi del tifo calcistico organizzato (i cosiddetti ultras) nessuno escluso, ivi compresi quindi anche raggruppamenti di segno politico opposto, che aveva come obbiettivo la contestazione della “tessera del tifoso”: una specie di braccialetto elettronico finalizzato al controllo sicuritario, e finanche finanziario, delle loro organizzazioni.  Il corteo unitario si è svolto  senza il benché minimo incidente. Esaurito il mandato, il movimento si è sciolto di nuovo nelle fazioni di appartenenza originarie, per tornare a darsele fisicamente di (poco) santa ragione alla prima occasione: è solo di poche domeniche fa la notizia degli incidenti, occorsi nel capoluogo friulano fra ultras del Napoli e quelli dell’Udinese, con tanto di arresti e feriti.

L’episodio ricordato contiene altri segni qualificativi del fenomeno osservato da Ilardi e dagli altri autori del libro. Tra questi, è centrale il tema della libertà. Ma è una libertà di segno diverso da quella che distingueva il ribelle di Ernst Jünger. Se anche per quest’ultimo «il passaggio al bosco» significava riprendere possesso di un territorio libero dalle forze omologate del sistema, in questo transito realizzava solo il primo stadio della sua ribellione che Nietzsche avrebbe contemplato come un «liberarsi da»: una specie di fuga, insomma. Nobile fin quanto si vuole ma solo  e pur sempre una fuga. Con Jünger, il ribelle avrebbe realizzato se stesso solo dando un «per», ovvero una causa finale, alla sua libertà riconquistata. Il suo nemico, infatti, era una temperie assoluta e finanche un destino assoluto: il nichilismo. È «dal» nichilismo che il (suo) ribelle desiderava liberarsi; era «per» sconfiggere questo nemico, primo e ultimo, che passava al bosco.

Come sappiamo, il nichilismo non è un’invenzione moderna e nemmeno post-moderna: Nietzsche – per esempio e non a torto –  lo faceva risalire alla separazione fra mondo delle idee e mondo reale, con conseguente degrado di quest’ultimo a pallida ombra del primo, operata da Platone. E, nel corso dei secoli, ha cambiato più volte maschera senza, pur tuttavia, riuscire mai a mimetizzarsi completamente. Nel post-moderno le sue fattezze hanno la fisionomia chiara di quella componente dell’economia che va sotto la definizione di primato del profitto capitalista sopra  e contro ogni altro possibile interesse umano.

Ed è qua che avanziamo la nostra obiezione all’ottimismo con cui Ilardi osserva il fenomeno. Non è forse la legge del profitto  a omologare i nostri comportamenti politici, sociali e individuali? E non è quel ciclo infernale (una specie di perverso eterno ritorno) consumo-produzione-consumo a definire il perseguimento della sua finalità?  E se la rivolta (le rivolte) del nuovo ribelle: «È – come dice il curatore de Il potere delle minoranze – un agire conflittuale rimodellato da una società del consumo che non vive sul simbolico o sull’ideologia ma sull’immaginario che ha perso ogni credenza nella fondatezza»; se la rivolta, quindi, non fa altro che ripetere il ciclo del consumo-produzione-consumo di se stessa, dov’è il reale scarto della norma?

Negli anni 70, Pier Paolo Pasolini appioppò a noi ribelli di allora alcuni dei suoi versi più spietati: «(…) e così capirai di aver servito il mondo  / contro cui con zelo “portasti avanti la lotta”:  / era esso che voleva gettar discredito sopra la storia – la sua;  / era esso che voleva far piazza pulita del passato – il suo;  / oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo! / Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo  a contraddirsi, per continuare…» (La poesia della tradizione). Aveva ragione Pasolini. E il ragionamento di Ilardi ci induce a riflettere sul fatto che fu nella nostra presunzione di possedere una causa rivoluzionaria e finale ad aver determinato la sconfitta della nostra generazione. È un’ipotesi. Ma è un’ipotesi che non può essere dimostrata perché alle dimostrazioni i «rebels without (a final) cause» post-moderni hanno rinunciato in partenza. Il loro «assalto al mondo» non prevede alcuna sconfitta, perché non sogna alcuna vittoria. E in questo limbo da eterno pareggio, un altro po’ di acne giovanile sarà liftato dal maquillage con cui il nichilismo usa agghindarsi per i banchetti dove «carogne crapulano, ospiti di usura» (Ezra Pound).

È VERO, MA
Massimo Ilardi

Nell’intervento apparso sul Secolo di giovedì e dedicato al libro da me curato Il potere delle minoranze, a un certo punto è stata colta una contraddizione essenziale e che sembra attraversare proprio quella figura sociale che scatena oggi i conflitti metropolitani, quella figura dell’individuo ribelle che dentro una società del consumo proietta immediatamente sul territorio una domanda di libertà che non vuole impedimenti e una soddisfazione del desiderio che rifiuta mediazioni. Si chiedeva l’autore dell’articolo, Miro Renzaglia: non è forse la legge del profitto a omologare i nostri comportamenti? E non è quel ciclo infernale consumo-produzione-consumo a definire il perseguimento della sua finalità? E, infine, se la rivolta del nuovo ribelle è un agire conflittuale rimodellato dalla società del consumo e che quindi non fa che ripetere il ciclo del consumo-produzione-consumo di se stessa, dov’è il reale scarto dalla norma? In altre parole, come è possibile un ribelle se rimaniamo nel regno dell’omologazione? Renzaglia coglie nel segno e costringe il pensiero a uno scatto in avanti.

Non è corretto, ma per rendere più chiara la questione a una domanda vorrei rispondere con altre domande: come è possibile che la frivolezza, l’emotività, il piacere, il futile, tutte queste affettività connesse di solito all’individuo che consuma possano da sole, come di fatto sta avvenendo, contrastare il campo alla potenza dei rapporti di produzione e dei rapporti sociali che ne derivano fino a occupare il centro delle relazioni sociali? Quali saperi e desideri attiva l’agire consumistico talmente forti da sovrastare sia l’orgogliosa coscienza del produttore, sia la pervasiva proliferazione di atteggiamenti servili e dipendenti a cui sono costretti i lavoratori postfordisti, sia, infine, il dominio fino ad oggi incontrastato della logica e delle regole del mercato? Cosa può stare all’altezza della necessità del lavoro e del mercato? Già, cosa può stare se non un altro stato di necessità altrettanto potente? Considerare il consumo come stato di necessità vuol dire allora materializzare un’altra potenza. Il consumo segue l’intensità del desiderio fino a tradursi in una sorta di stato di necessità. Alla fine non si può che consumare e la nostra libertà, che è quella degli uomini d’oggi e non degli eroi, non può che stare dentro questo stato di necessità.

La potenza del consumo non dipende, come spesso si afferma, dalla comunicazione o dalla costruzione di identità ma dal fatto che, operando come stato di necessità, si trasforma in terreno privilegiato per ogni tipo di conflitto e quindi diventa un problema politico per la governabilità del territorio. Ciò vuol dire che si rende autonomo non solo dalla produzione ma dalle regole, dall’etica e dall’ordine del sistema di mercato che è il terreno dove si stabiliscono le gerachie e i diversi livelli del potere sociale ed economico. Scindere il consumo dal mercato vuole dire appunto toglierlo dagli angusti limiti dell’analisi economica, renderlo autonomo dalla sua sfera, descriverlo e costituirlo in un ambito separato. Non a caso la contraddizione forte sembra essere oggi tra sistema di mercato e forma sociale che questo ha assunto negli ultimi anni. Non ci interessa chi consuma, ci interessa chi viola le norme che il mercato vuole imporre a chi consuma. Gli stessi conflitti che divampano sul territorio metropolitano, la loro violenza e le figure che li animano conducono a questa ipotesi: e cioè che la forma che può assumere oggi l’opposizione reale tra mercato e sua società non può che passare attraverso l’azione del consumo.

Da qui la figura del nuovo “ribelle” sociologico che si manifesta in una pratica conflittuale che ridisegna i territori, che si oppone a qualsiasi processo istituzionale prestabilito e che si basa su quanto di meno sociale vi è nell’individuo contemporaneo, e cioè sul suo agire consumistico. La sua azione è innanzitutto resistenza alle forme di assoggettamento incardinate sulla potenza del mercato di smaterializzare corpi, di costruire coscienze, di “fare società”. È nel conflitto per la libertà che l’individuo si trasforma in soggetto, perché è nel conflitto che distrugge innanzitutto l’idea di società che é sempre e comunque in mano alle regole imposte dal mercato.