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Incontro con la savana

di Riccardo Ianniciello - 02/03/2010

 Entra polvere dappertutto nella jeep, la sento perfino nei pantaloni,  fa un caldo infernale e i miei non smettono di gracchiare come due cornacchie ubriache; poi metteteci il cigolio e il sobbalzare dell’auto sulla pista bucherellata e vi sembra davvero di entrare in un brutto sogno. Mi chiamo Alex e con i miei genitori sono nel bel mezzo della savana, in Botswana, nel Kalahari, una terra bruciata dal sole, con una vegetazione rada e spinosa, diretti dallo zio Lucio, un fratello di mio padre che neanche conosco, che per mia disgrazia vive qui come una sorta di eremita, facendo la guida turistica ed il fotografo e non so cos’altro ancora, ed io con questa specie di orso preistorico ci dovrò stare tutta l’estate mentre i miei fanno delle ricerche petrolifere nei dintorni e così mi mollano in questo deserto dimenticato da Dio e dagli uomini, parcheggiato come una macchina.
    Mio padre e mia madre mi rimproverano di essere viziato, petulante e ultimamente anche stupido, perché al posto mio  – dicono loro –  qualsiasi altro ragazzino avrebbe fatto salti di gioia nel vivere una simile avventura a contatto con la natura e gli animali selvatici, ma a me, di questa roba qui, confesso,  non mi importa un bel nulla e come gli ho ripetuto infinite volte, avrei preferito di gran lunga restare a casa con i miei videogame che indossare i panni di un improbabile esploratore. Ma cosa volete farci, sono gli adulti che decidono tutto e nonostante le mie proteste, con tentativi di fuga, eccomi qui ad essere, mio malgrado, il protagonista di un film dal pessimo copione!
     –  Alex, ci siamo finalmente! La vedi quella capanna laggiù? E là che vive tuo zio! –  la voce nasale di mia madre bruscamente mi riporta alla realtà.
    –  Credevo che vivesse in una caverna!
    –  Non fare lo sciocchino e con lo zio, ti raccomando, comportati da ragazzino perbene!
    Devo ammetterlo, è una visione primordiale ma rassicurante, dopo ore e ore di savana semidesertica. Quando giungiamo nella radura antistante l’abitazione, mio zio è là  ad attenderci. Sembra una figura d’altri tempi, alto e asciutto, coi capelli biondi ondulati e la barba un po’ trascurata  ed il viso abbronzato e indurito dalla vita all’aria aperta.  Indossa un completo color tabacco con un cappello beige anch’esso scolorito dal vento e dal sole.
   Dopo un caloroso e concitato scambio di abbracci con i miei, lo zio si volta ad un tratto  nella mia direzione,  passandomi in rassegna come si fa con un cavallo: – Mi sembri un ragazzetto in gamba, vedrai che qui  ti divertirai. Sono sicuro che imparerai molte cose sulla vita nella savana!
    Avrei voluto rispondergli che non desideravo affatto divertirmi e l’ultima cosa che poteva succedermi in quel posto era proprio quello, ma lo sguardo minaccioso dei miei, soprattutto quello scimmiesco di mia madre, mi porta ad assecondarli.
   Lo zio Lucio ci fa accomodare in quella che sembra una casa, mostrandoci dove vivesse: un’unica grande stanza che funge da cucina, soggiorno, camera da letto, studio, con una porticina posteriore che dà in uno sgabuzzino che lui sostiene essere un bagno. Nella casa vi è un’accozzaglia di utensili vari, di libri che si alternano a pentole, vecchie macchine fotografiche e lampade a petrolio, inoltre scarponi ed attrezzature da campeggio che in parte troneggiano dai travi del soffitto, insieme a  una grande amaca.
    –  Allora Lucio, raccontaci un po’ di te e della vita che qui conduci –, le dice mia madre con la sua voce nasale, sprofondando in una sorta di poltrona-letto.
    –   Mi ci trovo benone, nonostante i disagi: come tu ben sai la mia è stata una scelta di vita, non una costrizione. Per inclinazione naturale non riesco ad abituarmi ai ritmi frenetici della città, dove si conduce una vita artefatta e grossolana. Qui mi sento un po’ come un leopardo, ritrovo la mia animalità.
    E si vede benissimo, rifletto tra me, a vederlo gli manca solo la coda. Poi lo zio, guardandomi intensamente, come se avesse sondato i miei pensieri e, abbozzando un sorrisetto: – Sono sicuro che noi due andremo d’accordo e qui nella savana conoscerai meglio te stesso.
    Ho capito, vuole farmi diventare un leopardo come lui, in altre parole vorrebbe scoprire l’animale che è nascosto in me. Ahimè! Cosa avrò mai fatto per meritarmi tutto questo?
    I miei dopo essersi rifocillati e riposati, ripartono poiché devono raggiungere Gaborone, prima che faccia buio, una distanza che pensano di coprire in circa tre ore di macchina. Al momento dei saluti guardo i miei seduti nella Land Rover come se fossero diretti sulla luna, pensando amaramente a quando li avrei rivisti, poiché in questo deserto sperduto puoi anche scomparire e nessuno se ne accorgerebbe.
   Mia madre vedendomi così assorto: –  Non fare quella faccia da condannato a morte e piuttosto cerca di vedere i lati positivi di questa esperienza unica!
   “I lati positivi di questa esperienza unica”, ripeto fra me e, quasi a volerle dar credito, mi guardo attorno, ma di lati positivi, anche sforzandomi, non ne vedo  l’ombra!
– Riguardati e divertiti anche per noi  – mi dice infine.
    Ho talvolta la netta sensazione che mia madre sia così sarcastica da sfiorare la crudeltà!
    Seguo con lo sguardo la macchina che si allontana veloce sulla pista polverosa, fino a quando diviene un puntolino nero all’orizzonte e poi solo una nuvola.
 
 
    All’alba del giorno successivo un energumeno mi strattona nel letto: è mio zio, vuole portarmi a una battuta di caccia- fotografica e me lo dice nel solo modo che conosce. Mi fa indossare una tuta mimetica che apparteneva a un ragazzino della mia stessa età, ma che non doveva avere la mia stessa taglia a giudicare dalla sua enorme larghezza. E’ simile ad una tunica araba ed io ho tutta l’aria di uno sceicco sovrappeso. Se i miei amici mi vedessero così conciato, stenterebbero a riconoscermi.
   Con la Land Rover ci inoltriamo nella savana avvolta nella foschia mattutina e dopo aver fatto una ventina di chilometri, nei pressi di un gigantesco baobab, incontriamo il nostro cliente, un industriale di Roma appassionato di fotografia, alla sua prima esperienza nel continente nero. E’ un omone dalla faccia rubiconda,  grosso ma energico che ci accoglie con fare militare, come se dovessimo partire per una missione di guerra. Indossa una divisa mimetica dalle numerose tasche dalle quali fa capolino, in bella mostra, ogni sorta di oggetti: borraccia grande, borraccia piccola, cannocchiale grande, cannocchiale piccolo e poi binocolo, sirena tascabile, dieci bussole (non si sa mai - dice lui), un ombrello che sembra un ombrellone, alcune macchine fotografiche, tre macheti, ed infine una vera collezione di coltelli. Ah! Dimenticavo! Da mangiare, giusto per fare una colazione l’uomo ha con sé un pezzo di pane da due chili circa imbottito di prosciutto, formaggio, mortadella e salame. “Non si sa mai”, ha ripetuto.
    Mio zio, dopo averlo osservato per un bel pezzo, girandogli intorno come se avesse scoperto un animale in via di estinzione, gli si ferma di fronte, guardandolo fisso negli occhi:  –  Dove crede di andare con tutto questo armamentario? Lei non fa un solo passo in questa savana, senza che tutti gli animali selvatici nel raggio di cinquanta miglia, compresi quelli terricoli, lo sappiano!
    –  Ma lei evidentemente non è aggiornato, io ho letto tutto quello che c’è da leggere sulla caccia-fotografica ed il mio stesso equipaggiamento, come lei può ben vedere  (a questo punto divarica le gambe ed irrigidisce il busto), comprende il meglio che c’è sul mercato, le attrezzature più costose e all’avanguardia, per cui lei  può tranquillamente considerarmi un esperto. Anzi, se lei permette, potrei aggiornarla sulle ultime novità in fatto di tecniche di avvicinamento agli animali potenzialmente pericolosi. Per noi, d’ora in poi, avvicinare dei leoni o dei leopardi sarà come fare una passeggiata.
    –  Probabilmente lei vede troppi film, come parla troppo per i miei gusti. Per avvicinare degli animali selvatici, muovendoci nell’intrico della boscaglia, dobbiamo essere silenziosi e liberi nei movimenti, evitando di portare oggetti luccicanti e rumorosi che potrebbero svelare la nostra presenza. Lei sembra un mercatino ambulante, una banda musicale. In quanto alla sua presunta conoscenza della vita nella savana, lei può aver letto mille libri sull’argomento e poi perdersi nel suo cortile di casa! Ci porteremo dunque il minimo indispensabile, una borraccia  d’acqua, un coltello, dei fiammiferi, una tuta di ricambio, del cibo (non una merenda da due chili!), oltre naturalmente alla macchina fotografica (una). Tutto il resto va messo da parte. Queste sono le mie condizioni: prendere o lasciare. Può sempre tornarsene in albergo a sorseggiare comodo un drink sul bordo della  piscina!
    A queste parole il volto dell’industriale è attraversato da un ghigno amaro, diventa prima bianco, poi verdognolo e infine paonazzo. Le labbra si muovono appena per emettere un filo di voce: – Va bene.
   Ci mettiamo in cammino, non prima di aver ricevuto dallo zio Lucio delle istruzioni da osservare nella savana: dobbiamo procedere in fila indiana, abbassandoci velocemente ad un suo segnale. Per metterci alla prova, strada facendo, lo zio si abbassa senza preavviso per poi repentinamente voltarsi, scoprendo così la nostra scarsa prontezza di riflessi. Per me, dopo un po’ diventa un gioco, ma non per l’industriale che suda e sbuffa che sembra una locomotiva.
    Lo zio Lucio si è messo in testa di sfiancarci visto come ha aumentato il passo, ormai è più di un ora che marciamo e stentiamo a tenergli dietro, quando nuovamente ci fa abbassare: strisciando carponi nell’erba alta e tra i cespugli spinosi, lo seguiamo fino a una piccola radura, dove e qui mi salta il cuore in gola, all’ombra di alcune acacie due leonesse riposano. Mi sorprendo a tremare, sapendo di trovarmi a poche decine di metri da feroci predatori, sentimento condiviso anche dall’industriale, il cui volto di colpo è sbiancato.
    – Non vi accadrà nulla, evitate solo di fare movimenti bruschi! – e, ancora lo zio, rivolto all’omone che non osa neanche alzare il capo:  –  Cosa aspetta a scattare le sue foto?
    Lo sguardo sereno e la voce pacata ma ferma di mio zio  ci rassicurano al punto che l’industriale si decide a puntare l’obiettivo sugli animali. Improvvisamente mi sento più coraggioso, quei leoni là, a pochi passi da noi sono come una sfida, un’esperienza unica che desidero affrontare e vivere. Anche l’industriale appare ora più a suo agio. 
   Dopo circa un quarto d’ora ecco che le leonesse si innervosiscono, accorgendosi forse della nostra presenza nell’erba alta e muovono lentamente verso di noi. Lucio ci ordina di restare giù ed in silenzio mentre lui in piedi resta là stranamente in vista, come se volesse farsi notare. Probabilmente devono essere leonesse abituate alla sua presenza , poiché subito dopo averlo visto, si sdraiano di nuovo tranquille all’ombra degli alberi.
    Lungo la strada del ritorno, io e l’ industriale, visibilmente soddisfatti non facciamo che parlare dell’incontro ravvicinato con il re della foresta, anzi con le regine della savana, dello scampato pericolo, del coraggio mostrato dallo zio, quando lui ci fa di nuovo zittire e stendere a terra. Alzatoci cautamente, scorgiamo dei bufali al pascolo, di cui uno molto grosso e dall’aria minacciosa a meno di centro metri dalla nostra posizione. Il nostro cliente non vuole farsi sfuggire questa ghiotta occasione e  si precipita a prendere  la macchina fotografica, quando zio Lucio lo blocca bruscamente:
     – Quello è un maschio dominante, nel periodo della riproduzione ed è facilmente irritabile. E’ molto, molto pericoloso stare qui nell’aperta savana. Dobbiamo allontanarci subito e trovare un riparo!
    Così ci muoviamo in direzione di un boschetto, quando notiamo il bufalo avvicinarsi pericolosamente. Allora lo zio si ferma, estrae dallo zaino una pistola e con calma ne controlla il tamburo, poi rivolto a noi: – Riparatevi in quel bosco! – indicandoci con l’indice una macchia di arbusti e piccoli alberi. – Io vi raggiungerò tra poco.
    –  Ma zio… è pericoloso…vieni via con noi.
     –  Fate come vi ho detto…e sbrigatevi! – con un tono che non ammette repliche. Così corriamo a nasconderci. Giunti alla macchia di acacie ci voltiamo in tempo per vedere il bufalo caricare il povero zio Lucio, che immobile sembra aspettarlo. Ormai è appena a una decina di metri da dalla sua sagoma e la sua andatura acquista velocità. E’ una carica impressionante, quell’animale in corsa appare ancora più grande e possente. Visto così da vicino, quasi a sentirne l’odore non è la stessa cosa che guardarlo in un documentario.
    – Ma cosa aspetta a sparare! – esclama l’industriale rannicchiato dietro un tronco d’albero.                         
    – E’ matto, ho uno zio completamente matto! – gli faccio eco da un cespuglio là vicino.
   In quel momento egli alza lentamente il braccio impugnando la pistola: lo sparo echeggia fragoroso come un tuono nella silenziosa pianura ed il bufalo che ormai gli è addosso, da sentirne il  respiro, stramazza a terra con un tonfo sordo sollevando una nuvola di polvere. Trafelati lo raggiungiamo.
    – Zio, perché hai aspettato così tanto a sparare?
    – Per non sbagliare, per colpirlo in un punto vitale. Un bufalo ferito è più pericoloso di un leone.
    L’industriale:  – Io stavo per intervenire ma poi ho pensato che lei se la sarebbe cavata benissimo da solo…sa, una volta in India mi sono trovato in una situazione simile, un bufalo gigantesco è sbucato all’improvviso, sembrava un elefante o meglio un mammut…
    –  Risparmi il fiato e pensi piuttosto a salvare il suo grosso posteriore dalle corna dei bufali…ce ne sono altri nei paraggi, che potrebbero divertirsi a prenderla di mira.                                      
    –  Noto una sottile vena di ironia nelle sue parole.  Vuole per caso burlarsi di me?
    –  Chi io? – dice  lo zio Lucio. – Non lo pensi nemmeno.
    E’ sera, il paesaggio è immerso nei colori soffusi e dorati del tramonto, disteso sull’amaca ascolto i suoni della savana.
   Domani all’alba inizierà una nuova avventura.