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Giornalisti con conflitto di interessi

di redazionale - 02/03/2010

 

Bisogna per forza essere ebreo per fare il reporter in Israele per il New York Times?


Le recenti rivelazioni riguardanti il collegamento fra Israele e l’assassinio di uno dei capi di Hamas Mahmoud al-Mabhouh, hanno suscitato nuove riflessioni sul ruolo del reporter del New York Times Ethan Bronner.
Questo, capo dell’ufficio di Gerusalemme, era già stato al centro di una polemica quando era trapelata la notizia che suo figlio fa parte dell’esercito israeliano. Sebbene la crescente pressione per la sostituzione del giornalista, gli editori del NYT non hanno voluto prendere in considerazione il fatto di trovarsi di fronte ad un conflitto di interessi e che sarebbe più saggio spostarlo in un altro scenario.
Jonatan Cook, in un suo articolo (1), racconta che subito dopo che i sospetti sull’omicidio di al-Mabhouh stavano cadendo sul Mossad, si è rivolto ad un accademico israeliano chiedendogli fra l’altro a chi avrebbe potuto chiedere maggiori informazioni per avere contatti con i servizi segreti israeliani: si sentì rispondere proprio Ethan Bronner.
Tale conflitto di interessi dovrebbe essere il problema, ma invece è probabilmente la qualità fondamentale richiesta per essere il capo dell’ufficio israeliano del NYT.
Prima di Bronner infatti, c’era un altro responsabile di quell’ufficio che ha militato nell’esercito israeliano anche durante la seconda intifada. L’ufficio centrale del giornale sicuramente sapeva, ma niente ha fatto per risolvere il problema.
Dopo aver scritto un pezzo sul Bronner mettendo in risalto come la copertura delle informazioni riguardo lo scenario israelo-palestinese fossero falsate da questi conflitti di interessi, Cook, si è visto convocare da uno dei capi dell’ufficio di Gerusalemme. Costui chiedendo di rimanere anonimo, ha confermato che la questione Bronner non è un’eccezione bensì la regola: “Mi vengono in mente una dozzina di capi degli uffici esteri, responsabili per la copertura di questioni israeliane e palestinesi, che hanno servito nell'esercito israeliano, e di un'altra dozzina, che hanno come Bronner ragazzi nell'esercito israeliano".
Egli ha aggiunto che è molto comune sentire i giornalisti occidentali vantarsi reciprocamente circa le loro credenziali sioniste, il loro servizio nell'esercito israeliano o il fedele servizio dei loro figli.
Questo informatore è molto critico riguardo la questione, ma ammette anche che potrebbero essergli rivolte le stesse accuse di Bronner: il problema è anche la vita nella società ebraica che comporta visioni del mondo diverse per esempio dal vivere a Gaza. La questione è che questi giornalisti, pur vivendo con ritmi, stili di vita “israeliani”, si sentono in dovere di parlare alle popolazioni occidentali di come si vive nei territori palestinesi, non conoscendone minimamente la reale vita quotidiana.
Ma la problematica, ci ricorda giustamente Cook, è ben più ampia: la verità è che gli editori occidentali scelgono coscientemente giornalisti ebrei ed israeliani come responsabili della questione israelo-palestinese; ciò avviene perché in questo modo riescono ad avere aperte le porte delle autorità israeliane, sono meglio accolti: a farne le spese però è la correttezza dell’informazione.
E infatti, Ethan Bronner è la regola, come osserva l’informatore di Jonathan Cook, perché qualsiasi altro tipo di giornalista – non ebreo o poco collaborativo – potrebbe raggiungere soltanto la superficie del potere politico, militare, industriale di Israele. I giornalisti come Bronner hanno accesso al potere, possono  parlare con i funzionari che contano, anche perché questi stessi ufficiali sanno che soltanto importanti giornalisti ebrei-israeliani possono creare consenso. Quest’ultimi possono essere anche critici, ma devono essere pronti a tirarsi indietro al momento giusto e, nel caso non lo facessero, verrebbero allontanati dal sancta sanctorum del potere così che un giornale come il New York Times sarebbe costretto a sostituirli con qualcuno più accondiscendente.
E dopo essersi ritirati dal campo, questi giornalisti alla Bronner, vengono richiamati in patria a pontificare sugli stessi argomenti, difendendo il loro lavoro ed il loro punto di vista: per questo non troveremo mai sul New York Times qualcosa che possa mettere in discussione la democraticità di Israele o la sua politica malevola nei confronti del processo di pace.
Certo questo è un comune modo di operare, dove all’interesse del lettore di essere ben informato si antepone quello del giornalista di mantenersi i canali aperti per avere notizie, fama, scoop che potrebbero essere messi in pericolo da un suo comportamento troppo corretto verso la verità dei fatti.
Ed ancor di più vale per Israele: non solo infatti i giornalisti hanno bisogno di buoni rapporti per avere le entrature giuste, ma si identificano con la cultura e la politica di Israele, avendo anche figli, parenti, amici legati a quella cultura; non solo guardano gli eventi da un punto di vista di parte, ma partecipano attivamente alla difesa di quella parte attraverso il servizio nel suo esercito.

E’ un conflitto di interessi di primaria grandezza

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Note: http://www.informationclearinghouse.info/article24862.htm