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Rischio, coraggio e mano ferma: la filosofia di "Eddie lo svelto" che dovremmo tutti riscoprire

di Roberto Alfatti Appetiti - 02/03/2010

 
Ha infiammato l’immaginario di più generazioni ed è tornato per riconquistare il mondo a colpi di Balabushka. Non un cannone ma una stecca, di biliardo. Sì, parliamo di quello sbruffone dal sorriso incantatore di Eddie Felson detto “the fast”, “lo svelto”. Creatura letteraria di Walter Tevis, il personaggio vide la luce nel romanzo d’esordio, Lo spaccone (’59), e venne reso immortale dalla superba interpretazione di Paul Newman nel film di Robert Rossen del ’61. Eppure Tevis pubblicò il sequel – Il colore dei soldi – soltanto nel ’84, pochi giorni prima di morire, a soli cinquantasei anni. Nel ’87 toccò a Martin Scorsese farne una pellicola, ma la storia venne stravolta per far spazio al ruolo del co-protagonista cucito ex post per l’allora venticinquenne Tom Cruise. Ed è un’immagine del giovane Cruise e dell’inevitabilmente invecchiato Eddie/Newman – entrambi piegati sul tavolo verde a contendersi “l’acchito” – quella scelta per la copertina della nuova edizione italiana de Il colore dei soldi che Minimum Fax ha appena mandato in libreria (pp. 332, € 13) dopo aver ripubblicato Lo spaccone nel 2008.
Malgrado i due romanzi siano ambientati nelle sale da biliardo, appartengono a pieno titolo all’universo epico on the road della narrativa statunitense. C’è il viaggio, dalla California a Chicago, per sfidare Minnesota Fats, il miglior giocatore di centoventicinque che esista. C’è la ricerca del proprio destino, perché il vero avversario da superare è dentro di noi. E persino lo spirito della frontiera, perchè Eddie attraversa le bische più inospitali con l’andatura spavalda dei personaggi di Peckinpah.
Chi è Eddie, del resto, se non “lo svelto” sempre pronto ad aumentare la posta in gioco? «Qualcosa che non è così facilmente negoziabile o riconoscibile come il denaro contante». Eddie è un ribelle, un uomo in rivolta, un indisciplinato. Non è uno di quei giocatori prudenti che si accontentano di tirare in sicurezza, rischiando il meno possibile. Cerca il colpo impossibile, a costo di essere indisponente. Tanto da farsi spezzare i pollici. Non accetta compromessi. Non cede percentuali delle vincite ad agenti/protettori, piuttosto se ne va. Così si chiude il primo romanzo.
Eddie rimane sepolto in provincia, nel Kentuchy. Sconfitto dalla routine: un matrimonio sbriciolato, un’amante più giovane ma altrettanto noiosa, una sala da biliardo da gestire, serate passate davanti alla tv e alla bottiglia, un quarto di secolo speso a tenere a bada rimpianti, orgoglio e disperazione. «Te ne sei rimasto seduto sul tuo talento per vent’anni», si sente rimproverare Eddie ne Il colore dei soldi dalla splendida Arabella, la donna che incontra quando decide di rimettere in moto la propria vita.
La parabola di Eddie è esattamente quella del suo “papà”, Walter Tevis. Nato a San Francisco nel ’28, trentenne si era imposto all’attenzione del pubblico e della critica con Lo spaccone, romanzo dall’atmosfera ineccepibile, avendo vissuto il suo praticantato letterario tra stecche appese alle rastrelliere e sputacchiere d’ottone. Nel ’63 aveva firmato un romanzo che lascerà il segno nel genere fantascientifico – L’uomo che cadde sulla terra (ristampato da Minimum Fax nel 2006) – creando un altro personaggio indimenticabile: Thomas Jerome Newton, l’alieno al quale David Bowie darà la faccia nel successivo film. Cagionevole di salute, Tevis aveva finito con il dedicarsi all’insegnamento. Rinunciando a scrivere e affogando nell’alcol le proprie insoddisfazioni. Alla metà degli anni Settanta, però, smette di bere, lascia la cattedra e si trasferisce a New York, risoluto a giocarsi la partita con la scrittura. Scopre di avere un cancro, deve recuperare il tempo perso. Le parole che Minnesota Fats dice a Eddie, Tevis sembra rivolgerle a se stesso: «La mezza età non esiste, è solo un’invenzione dei giornali e delle tv, serve per tenere la gente al suo posto». Non è mai troppo tardi per cercare di riprendersi quello che si vuole davvero. Il biliardo lo insegna: devi misurarti. Scrive Gian Luca Favetto nella prefazione: «La sua abilità nell’arena di panno verde – quel panno che ha lo stesso colore dei soldi – non può essere solo spacconeria. Quale che sia il bagaglio di menzogne che i giocatori si portano dietro, devono dimostrare nei fatti di cosa sono capaci». Il vecchio Fats lo spiega a un Eddie ancora incerto. Il suo vero nome, George Hegerman, è solo la maschera anonima che nasconde il sempre immenso Minnesota Fats: «Per noi il biliardo è una questione di vita o di morte». Un gioco forse inutile e spietato, come quello della letteratura, ma che ha a che fare con la bellezza e la giustizia. «Io sono quello che sono – continua – perché gioco a biliardo. Mi alleno otto ore al giorno perché se non ti alleni ti si avvizziscono le palle e la notte non dormi».
Insieme le due leggende tornano a esibirsi per la tv, riscoprendo non solo il gusto del gioco ma la sua più intima importanza. Perché ogni giorno puoi decidere se «rimanere sotto il pelo dell’acqua» o finire la tua partita personale, quella decisiva. Forse mandare le palle in buca non sconfigge il sistema, ma almeno lo tiene a debita distanza.