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Il sogno irrealizzabile del moschettiere Dumas

di Stenio Solinas - 02/03/2010

 

I tre moschettieri erano quattro e a scrivere il romanzo furono in due (autori)... Il più noto, Alexandre Dumas, riposa da qualche anno al Pantheon, dove la Francia accoglie i suoi «immortali». Quello sconosciuto, Auguste Maquet, se ne sta nel cimitero di Père-Lachaise, non lontano dalle tombe di Balzac e di Nerval. L’autre Dumas, l’altro Dumas, è il film di Safy Nebbou che ne racconta la storia e che ha riacceso in Francia il fuoco delle polemiche. C’è chi inorridisce al fatto che il mulatto Dumas sia interpretato dal bianco Gérard Depardieu, per quanto con i capelli crespi; chi parla di scarsa fedeltà storico-biografica; chi non nasconde la propria delusione perché al «negro» di Dumas viene data troppa importanza, oppure troppo poca... Il Magazine Littéraire ha per l’occasione dedicato il suo dossier mensile a quello che definisce «il genio del racconto», relegando in una paginetta il povero Maquet al ruolo di «scudiero»; la storica Simone Bertière ha appena pubblicato Dumas et les Mousquetaires (Editions du Fallois, 301 pagine, 20 euro) in cui viene ripercorsa «la storia di un capolavoro» e dato invece il giusto spazio a una collaborazione che fu lunga, intensa e felice prima di sfociare in clamorosa rottura; le edizioni Bartillat ne hanno approfittato per rieditare Alexandre Dumas, Auguste Maquet et associés, il saggio di Bernard Fillaire uscito nel 2002 (quando, nel bicentenario della nascita, le ceneri di Dumas furono traslate in pompa magna da Villers-Cotterets a Parigi), un arrabbiato pamphlet in cui il vero Dumas è proprio «l’altro» Dumas...

Auguste era l’esatto opposto di Alexandre. Era magro, era pallido, era silenzioso, era abbiente e di buona famiglia, era uno studioso. Gli sopravvisse e morì ricco nel castello di Saint-Mesme che si era fatto costruire a sfregio di quello di Monte-Cristo che Dumas era stato costretto ad abbandonare sommerso dai debiti. Dopo la rottura del loro sodalizio continuò a scrivere con successo, ma la fama non si tramutò nella gloria letteraria che fa da passaporto alla posterità e della sua produzione in proprio niente ha retto al tempo. È che i due si integravano sì alla perfezione, ma Alexandre viveva i suoi romanzi, laddove Auguste si limitava a scriverli. Nel primo c’era del genio, nell’altro soltanto del talento. Auguste sbozzava, Alexandre scolpiva.
Il modo di lavorare di Dumas era sbalorditivo. Come Napoleone aveva i suoi generali, lui aveva i suoi collaboratori, come un pittore o un cuoco del Rinascimento sorvegliava i colori, sceglieva gli ingredienti... Sprovvisto di immaginazione creatrice, era superdotato quanto a immaginazione combinatoria: aveva bisogno perciò di un interlocutore, di un pubblico, dello scambio verbale. Tutto ciò gli veniva dal teatro, dove le letture erano una prassi, e lo riversò pari pari nei romanzi. Alla base, insomma, c’era un dialogo permanente, di cui si riservava la direzione, la costruzione di una linea generale del racconto, la sua divisione in episodi, la loro messa per iscritto. Tutto veniva riletto, sviluppato, tagliato a seconda dei casi. Nei sette anni che vanno dal 1844 al 1850, gli anni di grazia della sua produzione, «l’atelier Dumas» lavorerà in contemporanea a più romanzi. L’intero ciclo dei Moschettieri, quello della Rivoluzione e del Rinascimento, lo stesso Conte di Monte-Cristo: dalla Regina Margot ai Quarantacinque, da Giuseppe Balsamo al Visconte di Bragelonne ci sono tutti, pubblicati spesso negli stessi mesi su più giornali: il feuilleton di Vent’anni dopo su Le Siècle che si accavalla con quello del Cavaliere della Maison-Rouge su La Démocratie pacifique... Negli stessi giorni si passa da un secolo all’altro, da un intrigo all’altro. È come assistere alla costruzione di una gigantesca cattedrale in cui c’era spazio per più fedi religiose e non sorprende che in quello stesso periodo Dumas faccia anche costruire il castello di pietra di Monte-Cristo a Marly-le-Roy, altra sfida alla natura. «Il terreno è paludoso, bisognerà scavare molto in fondo, vi costerà tantissimo» gli dirà l’architetto. «Lo spero bene» sarà la risposta. Non voleva una casa dove lavorare, ma un teatro dove celebrare se stesso, un palazzo incantato dove sui muri spiccavano i ritratti di Omero e dei tragici greci, di Byron e di Hugo... Moltiplicava i libri e le feste come le amanti e i figli, un tourbillon che alla fine lo travolgerà.

Perché continuiamo a leggere Dumas? Una risposta forse ce la dà l’autore stesso, quando il figlio lo trova con gli occhi rossi, il volto triste. Cos’hai? gli chiede. «Un grande dolore. Porthos è morto. L’ho appena ucciso e mi è venuto da piangere. Povero Porthos!». La morte di Porthos nel Visconte di Bragelonne è titanica, l’unica a suscitare in Aramis, il glaciale Aramis, la sola vera, visibile commozione; in Athos, l’infelice Athos, «un sudore mortale»; in d’Artagnan, l’intrepido d’Artagnan, «il cuore spezzato». Nel ciclo dei Moschettieri Dumas racconta l’epopea dell’aristocrazia, l’epopea dell’amicizia, l’epopea del tempo che passa, crea un corpo solidale dove si disprezza l’arrivismo, si rispetta la parola data, si rischia in nome dell’onore, si vive con gioia e con fierezza. Mette in scena tutto ciò che noi non siamo eppure vorremmo essere, una società che non esiste più e che probabilmente non è mai esistita, ma di cui si avverte sempre e comunque la nostalgia, permette il gioco delle identificazioni a seconda delle inclinazioni di ciascuno. Ci si può immedesimare nell’ironia guascona di d’Artagnan come nell’intelligenza e finezza di Aramis, nell’irruenza e nella forza di Porthos come nell’eleganza malinconica di Athos. Usando la storia come un chiodo su cui appendere i suoi romanzi, Dumas dà al lettore personaggi, trame, colpi di scena a perdifiato. «Prendo i miei soggetti nei miei sogni; mio figlio li prende dalla realtà. Io lavoro a occhi chiusi; lui lavora a occhi aperti. Io disegno, lui fotografa».

Figlio di un generale repubblicano che aveva osato opporsi a Napoleone, Dumas visse in una Francia dove veniva apprezzato tutto ciò che lui disprezzava: aborriva la borghesia, non amava la monarchia di luglio di Luigi Filippo, priva di legittimità e fondata sull’equivoco, temeva una società mercantile in cui l’individuo è solo, senza più corpi intermedi a proteggerlo. In d’Artagnan, ritrova la sua giovinezza: orgoglioso e ingenuo, sbarcato a Parigi senza un soldo e con una lettera di presentazione per un potenziale protettore...
Ha raccontato Jacques Laurent di aver aspettato il responso del medico comunicantegli i pochi mesi di vita che gli rimanevano per decidersi a leggere Il visconte di Bragelonne. Fino ad allora si era rifiutato di aprirlo: «Non volevo vedere morire i miei amici».