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Un’interpretazione giocosa del primo capitolo del Tao te ching (I parte)

di Bruno Corzino - 03/03/2010


Le regole del gioco

Un testo, come un qualsiasi evento della nostra vita, è un segno che può essere letto in diversi modi, secondo diverse prospettive, rivelando così nuovi significati e nuovi orizzonti. Tutte le tradizioni (soprattutto, come è ovvio, quelle legate ad un Libro sacro) hanno sviluppato una codifica che guida la tecnica di queste diverse interpretazioni, tese a trovare risposte alle domande dell’uomo. Dante, nella sua lettera a Cangrande, espone la teoria centrale dell’occidente medioevale: esistono 4 livelli di significato: il primo è quello letterale, ovvero il significato “comune”, “materiale”; il secondo è quello morale, ovvero che interpreta i fatti come un’indicazione di cosa è bene e cosa è male; il terzo è allegorico, ovvero che vede nel testo una metafora con un’altra realtà; il quarto è anagogico, ovvero spiega come fare ad avvicinarsi alla liberazione e comunica questo anelito a Dio. Tuttavia Plutarco ci informa che già i sacerdoti egizi possedevano tre livelli di significato in base ai quali interpretavano i loro testi sacri: il primo era “aperto”, ovvero letterale, il secondo esoterico e volto a nascondere i segreti, il terzo “non nascondeva e non svelava ma si limitava ad accennare”.

Anche la tradizione islamica troviamo il concetto di at-Ta’wil, termine che letteralmente significa “fare ritorno” o “luogo dove si fa ritorno” ovvero di interpretazione mistica del Corano, di cui in particolare gli sciiti hanno indagato i vari livelli; va detto che particolarità della ricerca del significato presso gli islamici è l’umiltà con la quale si riconosce che solo Allah, solo Dio conosce il significato “veramente vero” del sacro Corano che Lui stesso ha composto.

La metaforicità dei testi e la necessità di interpretazioni (per quanto lontane dal Vero, tentano almeno di avvicinarci) è assai chiara nel pensiero tradizionale ed è esposta in maniera quanto mai esplicita dal Corano: “Allah propone metafore agli uomini, affinché riflettano.” (Corano 14, 25).

Di sfuggita ricorderemo anche il metodo di interpretazione forse più lontano dal sentire comune: quello ebraico della Qabbalah (letteralmente “tradizione”) ebraica, che consiste in una traduzione delle lettere in numeri ed una conseguente manipolazione di questi secondo norme complesse, sino a far sorgere dal testo così crittografato e ritradotto, un nuovo significato che illumini il lettore.

Tuttavia spesso questa ricchezza del testo e dei messaggi stessi che ci invia la vita quotidiana viene scambiata per ambiguità, in altre parole per qualcosa che va eliminato, di disturbatore della “libera volontà” o dell’equilibrio (che ha da essere “tutto di un pezzo”, monolitico) della persona. Nascono così i fanatismi, con tutto ciò che ne consegue.

L’occidente moderno ha anche lui imboccato questa strada, perlomeno a partire dalla nascita della scienza moderna, quando, con Pietro Ramo, si è cominciato a distinguere tra retorica (che diventa mero abbellimento, stucco ambiguo e posticcio di parole) e dialettica (scienza dura e pura delle cose “come stanno”). Lo scientismo con la sua pretesa di conoscere le “cose in sé”, le “cose come stanno” ha ovviamente denigrato ogni interpretazione, creduta semplice “fantasia” o “licenza poetica”, essendo invece tutto teso ad una definizione scientifica univoca e limitata di ogni termine. Dimenticando così che tutto il linguaggio e quindi anche il pensiero non è altro che metafora, un velo che, lungi ad avvicinarci a toccare le “cose come stanno”, ci separa dalla vera realtà, lasciandoci solo intravvedere attraverso di esso giochi di ombre, come in un arabesco. E questi giochi di ombre sul velo della manifestazione (il velo di Iside, di Maya, del Santo dei Santi di Gerusalemme), un teatro delle ombre inscenato dai sacerdoti egizi presso i loro templi assolati, ispirerà tra l’altro un giovane greco come Platone a comporre il suo suggestivo mito della caverna.

Dimenticando questo si è caduti nell’illusione di “afferrare” il senso, quando nemmeno si possono afferrare gli oggetti, che a ben guardare anche loro durano solo pochi anni prima di rompersi e dissolversi.

Poi un giorno un matematico boemo di nome Kurt Gödel dimostrò a quegli stessi che inseguivano questo sogno perverso che questo era impossibile; in altre parole dimostrò la non dimostrabilità di tutte le verità logiche a partire da un insieme limitato di premesse. Ma la nostra mente è per forza di cose limitata, ne consegue che… Ovviamente il clima che regge l’occidente non mutò, si cercò di mettere delle pezze, si volsero gli occhi ai successi pratici della scienza e tanto bastò ad evitare di riflettere sul risultato. Il significato, per l’occidentale moderno, l’unico vero significato, rimane nel livello più “basso” di comprensione, ovvero il semplice livello letterale.

Ora noi vorremmo proporre un semplice gioco che è forse in grado di mostrare quanto è miope questo modo di considerare i significati e la vita stessa.

Il gioco consiste nel tradurre un testo vecchio di 2000 anni, proveniente dalla Cina e venerabile classico della scuola taoista secondo il linguaggio ed i concetti della moderna logica analitica (quella su cui si basano i moderni computer e tante altre applicazioni della scienza occidentale). Da questa interpretazione (che noi intendiamo come non forzata e cercheremo di mostrarlo al lettore) risultano alcuni concetti ed alcune scoperte che sono fondamentali per la logica analitica stessa, come i teoremi di incompletezza di Gödel ed il problema dell’indecidibilità affrontato da Turing.

 

Brevi cenni sul testo, l’autore e le traduzioni

 

Il Tao Te Ching (secondo la codifica Wade-Giles) o Dàodéjīng (pinyin) [道德經], è un'opera breve di soli 5.000 caratteri. Si tratta del classico per eccellenza di quella via di liberazione che è il taoismo. Il taoismo sostiene che l’origine della realtà è il Tao (pinyn Dao) ovvero la Via, il modo di essere o di “crescere” di ogni cosa, come una sorta di fiume cosmico in cui gli eventi scorrono; la sua natura è indicibile, impenetrabile, innominabile. Quello che noi vediamo è solo il suo modo di agire che i taoisti assimilano metaforicamente all’acqua ed alla spontaneità.

Il testo si compone di ottantuno capitoletti assai densi, scritti nello stile di “prosa ritmata” o “dettato rapido” che ne sottolinea la struttura costruita per ripetizioni, parallelismi, ritmi e nuclei di senso (e di suono-figura condensati- come sono i caratteri cinesi). Insomma una struttura che lascia trapelare fortissime influenze di tecniche e salmodie sciamaniche, oltre al presentare lo stile asciutto tipico degli scritti sapienziali (si pensi in occidente ai versi di Eraclito, che col suo principio in cui “tutto deriva e tutto si fonde, come l’oro che si scambia con tutto e con tutto è scambiato” ed il più noto “tutto scorre” è assai vicino se non assimilato al pensiero taoista).

A causa di queste caratteristiche, durante la lunga storia cinese i dotti sono ritornati continuamente su questo testo, ritraducendolo per mettere in luce sempre nuove letture (mistiche, politiche, etiche, economiche ecc.), lasciando inoltre una gran messe di commenti e note ispirati al clima delle varie “scuole” a cui appartenevano i letterati (ma non solo).

Si tratta di un testo assai venerato e studiato, che, attraverso il taoismo ha influenzato almeno 2000 anni di storia, cultura, arte e modo di vita della Cina e di tutti i paesi nell’orbita culturale cinese.

L’autore del testo è un personaggio mitico, Lao tzè (Wade-Giles), Laozi (pinyin) [老子], in cui si è voluto vedere, da parte degli storici un funzionario del regno di Wei che, notando la corruzione e la decadenza della dinastia degli Zhou, avrebbe deciso di lasciare le terre abitate per darsi ad una vita eremitica (siamo circa nel VI- V secolo a.C. - un contemporaneo quindi di Confucio e Pitagora).

Tuttavia assai più interessante il personaggio mitico: innanzi tutto il nome stesso [老子], che è stato a lungo letto come “maestro tzè”, è formato in realtà da due caratteri, il primo indicante la vecchiaia, ed in particolare l’aspetto di saggezza ed esperienza della vecchiaia (i cinesi, che molto tengono alla lunga vita e la considerano un segno di favore celeste, hanno più di venti modi solo per dire “vecchio”!), mentre il secondo indica il neonato, il bambino ancora in fasce.

Si tratta quindi di un “vecchio bambino”, un puer senex, come quello che istruì il re-sacerdote romano Numa Pompilio discorrendo con la Ninfa (che di nome faceva Egeria) che era sua guida e compagna. Di simili “vecchi bambini”, spiriti della saggezza naturale pullulavano le campagne etrusche, almeno secondo gli Etruschi.

La madre di Lao tzè è una vergine, il padre è il Cielo stesso o in altre versioni un non meglio specificato “Grande Antenato”; la fecondazione avviene attraverso “rugiada dolce” che, ci viene specificato è quella particolare rugiada che si forma dal contatto tra Cielo e Terra, che per i cinesi sono i poli dell’essere, quei due opposti entro i quali si articola tutta la giostra della vita. Il concepimento è assai lungo, durando ben 81 anni (ovvero 9x9, i mesi comunemente richiesti per il parto). Durante questo periodo però, Lao tzè a quanto pare non è un feto, ma un uomo completamente formato, almeno questo lo si deduce dal fatto che si dice che di notte se ne stesse beato dentro il ventre materno, mentre di giorno se ne andava a meditare il Tao, quindi doveva già avere un corpo formato. Anche se indulgeva verso l’Origine, il grembo oscuro da cui si forma l’universo. Quando infine nasce è già vecchio, con lunghi capelli bianchi. Secondo alcune versioni appena nato se ne va per la sua strada cavalcando un bue d’acqua (sua cavalcatura tradizionale), altre versioni prevedono che rimanga qualche tempo con la madre che gli insegnerà antiche e misteriose tecniche.

Ad ogni modo Lao tzè va per la sua strada, deciso ad uscire dal mondo, o perlomeno dal “Regno di Mezzo” (ovvero la Cina, che per i cinesi era il mondo); giunto alla frontiera occidentale, però una guardia di confine lo incalza: non aveva lasciato discepoli a cui dare in custodia quello che aveva appreso, che almeno lasciasse qualche riga con la quale gli uomini potessero orientarsi, che potessero usare come strumento per praticare e raggiungere quello stesso stato a cui lui era giunto. Allora Lao tzè detta tutto d’un fiato 5000 caratteri, mentre la guardia di confine li annota velocemente con rapidi tratti di pennello.

È tutto. Lao tzè esce quindi dal mondo e “diventa il mondo”; come il gigante Ymir nelle mitologie nordiche, come il gigante Purusha nella mitologia indiana e Dioniso in quella greca, il suo corpo viene smembrato e da origine alle cose dell’universo. I peli diventano foreste, le vene fiumi, le ossa sassi, la carne terra, le ciglia cespugli e così via, sino a dare origine a tutta la realtà naturale che abbiamo di fronte.

Come abbiamo visto, di questo testo sono state fornite innumerevoli traduzioni, molte delle quali valide in base alle prospettive in base alle quali guardavano il testo, altre deformate da concetti occidentali che ci si è voluti imprimere a forza.

La traduzione italiana che forniremo come confronto è di Carlo Moiraghi, che abbiamo scelto perché troviamo si tratti di una traduzione che si avvicina molto ad essere “letterale” e “neutra”, rendendo però il testo in un italiano di senso compiuto ed ordinario, non frammentato. Abbiamo inoltre presentato i caratteri cinesi tradizionali direttamente a fronte, come appaiono nella nostra edizione del testo, in modo da facilitare ulteriormente il confronto e dare una visione d’insieme.

(Carlo Moiraghi, Tao Te Ching, Tecniche nuove, Milano, 2005.).

Brevi cenni sulla lingua cinese e la sua traduzione

 

La lingua cinese è una lingua tonale, ovvero una lingua in cui la variazione di tono di una stessa sillaba ne determina il significato, ed isolante, ovvero non possiede declinazioni o flessioni, in cui le parole non sono scomponibili in unità morfologiche più piccole. In altri termini una parola omofona (di cui esistono un gran numero in cinese) da una parte assume un significato diverso a seconda del tono della pronuncia (nel pinyn ne esistono 4 più uno neutro), dall’altra una stessa parola, poniamo un verbo, include quasi tutti i tempi e le persone (prendiamo ad esempio l’inglese walk: esso può reggere qualsiasi persona: “io, voi, tu, essi”; può essere inoltre tanto indicativo: “cammino, camminiamo, ecc.”, quanto infinito: “camminare”). Inoltre a tutt’oggi esistono otto varianti regionali maggiori, tra cui il mandarino standard; tuttavia la Repubblica Popolare Cinese preme affinché si adotti una lingua cinese comune, ovvero il cinese semplificato (pinyin).

Tutto questo vale per la trascrizione in alfabeto latino dei termini, che effettueremo secondo la traslitterazione pinyin. Tale sistema è costituito in modo che ogni sillaba del parlato rechi un segno grafico (simile ad un accento) che ne definisce il tono.

Tuttavia, avendo a che fare con un testo scritto il problema della pronuncia non ci compete e, trattandosi di un testo assai antico (V secolo a.C.) non si tratta di una variante dialettale; infatti bisogna ricordare che tutti i cinesi, al di là delle pronunce parlate che variano, possiedono una scrittura unica che è rimasta quasi invariata nel corso dei millenni e che possiamo paragonare in confronto coi dialetti regionali come il latino in confronto alle lingue romanze (la cui pronuncia infatti invariabilmente alla lettura lo storpia).La lingua scritta cinese impiega caratteri basati su logogrammi, dove ogni simbolo rappresenta un morfema (un'unità espressiva della lingua). Ritrovamenti di epoca neolitica ci mostrano che a quei tempi i caratteri erano immagini dei loro significati, che col tempo si sono semplicemente stilizzati sempre di più e da ideogrammi (figura che rappresenta una cosa) sono diventati logogrammi (ovvero il simbolo rappresenta solo una sillaba unita ad un radicale che ne specifica il senso). Questo nonostante i caratteri più antichi siano rimasti, come fossili inseriti nel terreno più giovane, degli ideogrammi a tutti gli effetti, dal momento che la somiglianza con i caratteri di 4000 anni fa rimane per molti tratti evidente.

Oggi, al contrario, la maggior parte dei caratteri contiene un elemento (il fonetico) che dà (o dava una volta) un'indicazione ragionevolmente buona della pronuncia e un altro componente (il radicale) che dà un'indicazione del significato.

Nel 1956 è stata introdotta una nuova grafia che prevede la scrittura in orizzontale ed una semplificazione generale dei tratti degli ideogrammi; tuttavia noi presenteremo al lettore prima di tutto i caratteri del cinese tradizionale, senza dubbio più vicini alla sensibilità ed al messaggio di Lao tzi; i caratteri semplificati saranno invece riportati nel confronto carattere per carattere, accompagnati dalla loro traslitterazione pinyin per favorire chi volesse verificare le corrispondenze.

Inoltre, come fa notare il sinologo Marcel Granet, i testi cinesi erano scritti per essere recitati nelle scuole, ripetuti e meditati; una parte imprescindibile del loro significato è data dal ritmo stesso in cui si susseguono le figure e nella loro concatenazione, quasi fossero le figure di una danza. Inoltre per il Tao te ching valgono anche tutte le sfumature che provengono dalla cultura sciamanica, ovvero tecniche come la ripetizione sistematica del termine chiave su cui si incardina il discorso mutandovi attorno gli epiteti, come in un vortice, ma anche la creazione di parallelismi ripetitivi che ad un tratto rompono la simmetria mostrando un nesso inatteso.

Considerando tutti questi elementi sarà chiaro quanto è difficile dare una traduzione del testo; la sua stessa natura, basata sugli ideogrammi, ha quasi come scopo di rimanere di significato “sfumato”, come le nebbie e le acque che sono la sostanza dei paesaggi dipinti dai pittori cinesi. Questa apertura costante di significato permette quindi una grande quantità di traduzioni diverse, tutte giustificate dalla struttura effettiva del testo. Il gioco che vogliamo proporre al lettore è una traduzione da un punto di vista quanto mai lontano da quello dell’autore, ovvero il punto di vista in cui possiamo vedere quasi condensata l’“essenza” (se ci è permesso parlare così) dell’occidente moderno. Stiamo parlando della logica analitica.

Vedremo che la saggezza del Tao te ching abbraccia anche questa lettura ed addirittura svela alcuni risultati fondamentali della stessa disciplina, come i teoremi dell’incompletezza di Gödel; questo ben inteso senza forzare né tradire la traduzione del testo. Possibile che un testo vecchio di più di 2000 anni contenga i risultati sconcertanti di una scienza tutta occidentale ed apparentemente del tutto contraria alla saggezza dell’autore, come il problema dell’indecidibilità e le macchine di Turing? Ma suvvia, è solo un gioco. Ma forse vale la pena meditarlo.