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Bisanzio secondo Lutwak

di Franco Cardini - 03/03/2010

Può darsi che questo libro procuri meraviglia in qualche rappresentante di un ceto da noi purtroppo ristretto, cioè quello delle persone abbastanza colte che non sono però specialiste di niente in particolare e che, in quanto tali, tendono a sapere un po’ di tutto ma a ragionare per compartimenti stagni. Molti di loro saranno abituati a considerare un personaggio come Edward N. Luttwak – al pari di uno come ad esempio Michael Ledeen, che con lui ha qualche somiglianza – come dei politici e degli opinion makers. Ma, se del Ledeen sono piuttosto noti gli studi sul fascismo italiano, del Luttwak anche il pubblico “colto”, oltre agli specialisti, conosce almeno un “grande classico”, La grande strategia dell’impero romano, dell’’81. Che circa un trentennio dopo il medesimo studioso si presenti con un libro come questa La grande strategia dell’impero bizantino è molto significativo: ed è prova di una profonda fedeltà ai temi geostorici, geopolitici e strategici, che un trentennio fa erano considerati con sospetto in quanto legati a una scienza – la geopolitica – ancor in sulfureo odore di “nazismo” (per quanto uno dei suoi “fondatori”, Karl Haushofer, propriamente nazista non fu mai). In realtà la geopolitica si sviluppò anche in Italia – è un peccato che oggi nessuno ricordi più la figura di Ernesto Massi -, ma si è affermata soprattutto nell’ultimo mezzo secolo come una scienza molto curata negli Stati Uniti d’America: è abbastanza noto che Luttwak, al pari di Jeremy Rifkin – anche se con argomentazioni di altro tipo -, ha ripreso alcune tesi del Mackinder per affermare al probabilità del “crollo” statunitense di fronte alla sfida economica eurogiapponese, che ormai è divenuta piuttosto eurasiatico-sino-latinoamericana (Cina, India, Brasile, con Russia e perfino Iran sullo sfondo).

A me personalmente, la poliedrica attività di Edward N.Luttwak – studioso, opinion maker, criptodiplomatico o matematico ufficioso, forse “uomo dei servizi” e comunque molto attento all’intelligence, frequentatore di salotti e di reti televisive – ricorda da vicino il profilo di alcuni personaggi del settecento europeo e al tempo stesso mediterraneo ed orientale, tipo quel marchese di Bonneval, francese, amico di Giacomo Casanova, che in pieno Settecento si stabilì in Istanbul, divenne ascoltato consigliere di vizir e di sultani, si convertì o finse di convertirsi all’islam divenendo “Bonneval Pasha” e impiantò nella capitale ottomana una scuola cantieristica e una stamperia. Caustico, ironico, ambiguo, preparatissimo e imprevedibile, Luttwak gode fama di incutere più paura ai suoi alleati ed estimatori che non ai suoi avversari, quanto meno ai pochi che prende in considerazione. Di lui si racconta un aneddoto rivelatore, testimoniato da persone fededegne. Nel periodo “caldo” della crisi irakena, alla fine di un dibattito televisivo italiano, pare che Luttwak si sia avvicinato a uno studioso del nostro paese molto più giovane di lui e che gli aveva duramente e costantemente tenuto testa sostenendo dure tesi antiamericane - per cui gli altri interlocutori, in ossequio al Maestro, gli avevano fatto il vuoto intorno -; e che gli abbia detto col suo italiano quasi perfetto:”Tu sì che mi piaci, sei un avversario intelligente: che noia, tutti questi idioti. Vieni, t’invito a cena”. Quel giovane studioso italiano – a sua volta ormai non più giovanissimo – è nientemeno che Marco Tarchi: che giovanissimo fu sul punto di soffiare a Gianfranco Fini la futura leadership del MSI, quindi se ne staccò per entrar in contatto con Alain De Benoist e sviluppare a metà degli Anni Settanta le tesi della “Nuova Destra”; e che oggi, cattedratico nell’Università di Firenze, è uno dei più autorevoli e apprezzati “scienziati della politica” europei. Luttwak queste cose non le sapeva, o non del tutto: ma aveva buon fiuto ed era abbastanza spregiudicato da voler stupire e umiliare i suoi estimatori con un gesto cavalleresco nei confronti di un avversario. Forse il Luttwak piu autentico è proprio questo. Un uomo fine, affascinante, pericoloso.

Alla luce di tutto questo, il trentennale iter di Edward Luttwak da Roma a Bisanzio, intrapreso nell’età di Ronald Raegan e giunto in quella di Obama, ha forse un senso profondo che va molto al di là dello studio di una strategia imperiale, nel suo connotato di fondo della continuità tra Roma e Bisanzio e nel sostanziale spostamento verso est.

Nella Prefazione l’Autore sostiene di aver cominciato a raccogliere documentazione in vista di questo libro già dall’indomani del successo della sua grande opera su Roma, cioè nel 1982, a ciò incoraggiato anche dal fatto che un altro studioso illustre, il gesuita Gorge Dennis, gli fece dono di una copia dello Strategikon attribuito all’imperatore Maurizio (582-602), un’opera ben superiore per qualità a quella di tema analogo del romano Vegezio, ma a lungo perduto e riemerso appena all’inizio del XX secolo.

La lettura di questo secondo “grande” libro del Luttwak obbliga per forza di cose a tornare al primo: perché il tema della continuità tra Roma e Bisanzio è sempre presente anche se forse non se ne traggono tutte le conseguenze; ma, insieme, è il tema del confronto a imporsi. Se Roma era il campo privilegiato delle ricerche di un tempo – gli Anni Ottanta – nel quale gli USA sembravano aver metabolizzato la sconfitta del Vietnam e l’umiliazione imposta loro dall’Iran khomeinista e presentarsi come la forza che stava progressivamente obbligando l’Unione Sovietica a cedere, oggi il multilateralismo obamiano, in gran parte emerso come scelta obbligata dopo la debacle della “politica di potenza” neoconservatrice di Bush, obbliga a cercare modelli di vittoria diplomatica e politica, ottenuta attraverso il mantenimento dell’equilibrio, piuttosto che non di vittoria diplomatica.

Qui, l’assunto luttwakiano sul rapporto tra la “forza” (non assoluta) di Roma e la “debolezza” (molto relativa) di Bisanzio mostra le corde: ed è in fondo, concettualmente, il punto debole e al tempo stesso il connotato rivelatore d’un pensiero profondo. E’ evidente che l’identificazione tra Roma e gli USA, correlativa a quella tra l’antica Grecia e l’Europa (ricordate la famosa tesi di Robert Kagan?), gioca ancora il suo ruolo: e in questa ricerca di un “surrogato della potenza”, la forza dell’intelligence emerge come l’indicazione in termini di lezione storica, il suggerimento dato all’America dell’impasse in Iraq e in Afghanistan e dello spaventoso debito pubblico. Se è cosa vera che la diplomazia è la guerra continuata con altri mezzi, è non meno vero il reciproco: il che equivale a valutare forza militare e intelligence come strumenti analoghi per tempi e contesti differenti. Bisanzio, circondata da formidabili nemici e da infidi alleati (persiani prima, musulmani poi, ma anche popoli “barbarici” dagli scandinavi agli slavi e ai tartari; per non parlare dei normanni e degli altri rozzi, infidi ed eretici keltoi, gli europei occidentali), era “impero del Centro”, certo, ma impossibilitato a difendersi efficacemente su troppe frontiere: non poteva quindi che giocare d’astuzia, di diplomazia, proponendo il fascino e la sacralità della sua immagine imperiale e al tempo stesso mobilitando di continuo ingenti forze navali e guerriere salvo poi l’utilizzarle in aperti conflitti il minimo indispensabile.

Un bluff, allora, la sua potenza? Al contrario. La forza di Bisanzio stava nella sua maestà, nel suo prestigio, nella sua capacità d’integrazione fra le sue parti differenti, di metabolismo socioeconomico e tecnologico, di patrimoni condivisi di culture differenti: il “Commonwealth bizantino”, come lo ha appunto felicemente definito Dimitri Obolenski, forse pensando a un suo non casuale omologo, l’impero staliniano. Il paragone non deve sembrare azzardato, e tantomeno blasfemo. Al contrario. In una sua memorabile lezione, tra le sue ultime, il grande Federico Zeri tracciò un ineccepibile e impressionante (quasi commovente) parallelo tra due fonti iconiche: la corte di Giustiniano come viene rappresentata nel mosaico ravennate di San Vitale e le sequenze cinematografiche del solenne funerale del generalissimo Jozip Stalin, l’”Ultimo Czar”. Stessa atemporale ieraticità, medesima frontalita, identica teofania del potere, immota e intangibile teologia politica.

In effetti, dicevamo poc’anzi, quel che forse Luttwak avrebbe dovuto avere l’energia d’indicare con un taglio più coraggiosamente diacronico e per così dire “macrotemporale” a la Braudel, è proprio il dato obiettivo che oggi manca a noialtri occidentali e in special modo alle giovani generazioni. La coscienza precisa che quella celebre definizione del Momigliano, secondo la quale l’impero romano d’Occidente, nel 476, sarebbe caduto “senza rumore”, è qualcosa di più di una constatazione: perché in effetti nel 476 non accadde proprio nulla. L’impero romano, nella sua pars Orientis, rimase intatto e modificò le sue istituzioni e le sue strutture nel tempo adattandole allo spostamento del proprio asse ad oriente che le vicende dei secoli II-IV e l’intelligenza strategico-politica di Teodosio gli avevano imposto. L’impero bizantino non è la continuazione o l’imitazione dell’impero romano: è l’impero romano tout court, nato dal sogno mediterraneo e universalistico che Giulio Cesare concepì tenendo presente il modello di Alessandro e che attraversò i secoli entrando in crisi solo fra XIII e XV secolo. Ma le due conquiste di Costantinopoli, quella crociata del 1204 e quella ottomana del 1453, ne segnarono davvero la fine? Qui la domanda si fa urgente e la risposta problematica. Almeno due grandi forze imperiali, tra XV-XVI e XX secolo, ne rivendicarono con forza l’eredità: l’impero ottomano, nel nome del “diritto di conquista”; e quello della “Terza Roma”, lo czarista, nel nome della filiazione spirituale e della Cristianità ortodossa. Furono due imperi, l’ottomano e lo czarista, per molti versi usciti da una medesima radice legittimante e al tempo stesso geopoliticamente feroci nemici tra loro. E’ una verità geopolitica ineludibile che chi governa a Istanbul e chi governa a Mosca (e/o a Teheran) siano nemici tra loro? Alla luce del 1917 e del 1918, della Rivoluzione d’ottobre e degli infami trattati di Versailles, questa domanda diventa drammatica. Essa trasforma la prima guerra mondiale in una sorta di “guerra fraterna-civile” tra i due eredi dell’impero romano, e fa del ’17-’18 l’infausto biennio non solo della finis Europae, bensì anche dell’autentica e definitiva finis Romanorum imperii, o di quel che nonostante tutto ancora ne rimaneva.

Ma se è cosi, piaccia o no a Luttwak – e molto probabilmente non gli piace -, quella dell’impero romano è storia bimillenaria che arriva a lambire i giorni nostri, ma ormai è definitivamente spezzata. Finita. Mosca è stata la Terza Roma e non ve ne sarà una Quarta. Washington, nonostante i suoi sforzi e i suoi sfarzi urbanistici fatti di marmorei simboli esoterici, non lo è. Pechino, nonostante la sua tradizione imperiale e il suo presente rampante, non lo sarà.

Edward N. LUTTWAK, La grande strategia dell’impero bizantino, tr.it. di D. Giusti – E. Peru, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 540, euro 25,00.