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Una possibilità concreta di decrescita: il caso del Sulcis.

di Alberto Cossu - 04/03/2010

    


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Negli ultimi tempi il Sulcis, la regione sud-occidentale della Sardegna, è entrato prepotentemente nelle pagine dei quotidiani nazionali. La crisi economica mondiale ha, infatti, acuito la già drammatica situazione del territorio provocando, come ormai tutti hanno avuto modo di leggere, la chiusura di una serie di fabbriche e impianti che ha lasciato disoccupazione e cassa integrazioni a tappeto: uno scenario spaventoso, un’emergenza sociale senza paragoni. Tutto questo si è letto nei giornali, si conoscono i nomi delle multinazionali che hanno deciso di spostare la produzione con la scusa della crisi, in realtà per logiche dell’economia globale che mostra così il suo lato più feroce; si son visti i visi esasperati di migliaia di lavoratori che non vedono un futuro per loro e le loro famiglie.
In realtà, oltre alla doverosa preoccupazione di salvare i posti di lavoro nell’immediato, per evitare un disastro sociale di enormi dimensioni, le proposte su come far partire le riconversioni degli impianti e le bonifiche dei territori inquinati, lasciati in eredità a noi sardi dalle multinazionali, tardano ad arrivare.  Soprattutto tardano ad essere portate avanti da politici e sindacati che come sempre si mostrano impreparati a gestire e spiegare davvero cosa sta succedendo e come si dovrebbe rispondere a problemi di questo tipo. Le industrie, infatti, sono ormai decotte, ed è chiaro che anche riuscendo a tamponare momentaneamente il problema, esso si ripresenterà nel futuro immediato.
La crisi del Sulcis ha radici profonde, dopo la chiusura delle miniere, infatti, si pensò di arginare il problema occupazione facendo sorgere il polo industriale di Portovesme, idea scellerata avvallata a suo tempo da chi pensava l’industrializzazione utile ad aumentare la ricchezza generale e soprattutto utile a sradicare gli istinti comunitari dei sardi bollati come anacronistici. Scelta sostenuta anche da sindacati e partiti di sinistra per ovvi motivi: crearsi tessere e quindi potere. Perché l’altra faccia della medaglia è che sindacati, partiti, tutti senza differenze di colore, hanno sempre usato, con la complicità dei vertici delle aziende, i posti di lavoro disponibili in questi stabilimenti per costruirsi una fittissima rete di potere clientelare basata sul ricatto della disoccupazione, che, infatti, rimarrà sempre endemica finché questa classe politica non sarà mandata a casa. In questo ha perfettamente ragione I.R.S. (Indipendentzia Repubrica de Sardigna) quando pur condividendo la necessità di evitare nell’immediato licenziamenti e cassa integrazioni, non si unisce al coro dei partiti e dei sindacati considerando anzi questi ultimi tra i responsabili della situazione.
Una notizia invece passata in sordina è quella apparsa recentemente sull’Unione Sarda: “ Ora c’è l’acqua ma mancano i campi”! Negli ultimi tempi, infatti, il problema siccità nel Sulcis sembra risolto (una delle cause oltre l’aumento delle piogge sembrerebbe essere che una decina di anni fa alcune pompe che drenavano l’acqua dalle gallerie delle miniere sono state fermate, il che probabilmente col tempo ha permesso il riformarsi del naturale equilibrio idrogeologico del territorio), i bacini per l’irrigazione sono al massimo ma le colture sono al minimo! E’ facile vedere come dopo anni e anni di propaganda modernista a favore delle miniere prima e delle industrie poi, i sulcitani si siano convinti ad abbandonare le campagne per inurbarsi, perdendo i legami con la loro terra, le loro tradizioni, per diventare degli insignificanti cittadini in grigie città che sarebbero dovute essere un sogno e son diventate un incubo su cui pesano come una mannaia disoccupazione, inquinamento (con una percentuale d’incidenza dei tumori maggiore di quella nazionale), spopolamento.
Ma se è vero che la Sardegna importa l’80% del cibo che consuma e ne esporta solo lo 0,6 e se la siccità è diminuita, cosa aspetta il Sulcis ma anche la Sardegna tutta a capire che deve tornare alla terra, all’agricoltura, all’artigianato, ai quali affiancare il turismo (non certo quello della Costa Smeralda, ma un turismo ragionato e biocompatibile)? Come osserva anche Roberto Spano, rappresentante del Movimento per la Decrescita Felice in Sardegna, la Sardegna avrebbe proprio le caratteristiche ideali per un progetto di rilancio dell’agricoltura e dell’artigianato in un’ottica decrescitazionista, così da porsi come modello nel mondo, se solo ci fosse la volontà politica dei sardi di attuare questo cammino e abbandonare le illusioni della politica industriale che si è dimostrata essere un boomerang per la nostra terra. Un tale ripensamento naturalmente comporterebbe un recupero della tradizione e dello spirito comunitario che offrirebbe inoltre un rinnovamento politico e un’alternativa alla condizione servile verso l’Italia che ci portiamo dietro da troppo tempo. Movimento Zero intende battere questa strada in Sardegna, iniziando a svegliare le coscienze nel Sulcis dove la situazione è arrivata davvero a un punto di non ritorno, dove è necessario reagire, ma reagire fuori dagli schemi precostituiti dei partiti tradizionali e dei sindacati. E’ ora di passare all’azione perché, come scrisse Eliseo Spiga nel suo “Manifesto delle comunità di Sardegna”, finalmente “Est s’ora de is Sardus!”