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Nagorno-Karabakh, un quasi-Stato nel mosaico del Caucaso

di Michele Zanzucchi - 07/03/2010

      
 
 

 
In un brano estratto dal suo prossimo libro Sull’ampio confine. Storie di cristiani nel Caucaso, Michele Zanzucchi narra del suo viaggio nel Nagorno-Karabakh, la regione contesa tra Armenia e Azerbaigian.
Questa regione ha infatti tradizionalmente un’identità armena, poiché la grande maggioranza della popolazione è di religione cristiana e, tuttavia, fu annessa per volontà di Stalin allo Stato azero, a maggioranza musulmana. Ciò ha alimentato negli anni violenti conflitti tra le due etnie. Anche in seguito allo scioglimento dell’URSS il problema non è stato risolto, ma anzi ci sono stati episodi di inaudita violenza, veri e propri pogrom nei confronti dei cristiani. Il Nagorno-Karabakh rimane dunque uno Stato a metà, ancora tormentato da violenti conflitti interni e da un doloroso passato con cui non è semplice fare i conti.

L’intero territorio dello ‘Stato incipiente’ è circondato da cime che s’avvicinano o superano i tremila metri, nei cui boschi vivono orsi e cinghiali, linci e lupi. Le si scorgono senza fatica appena ci si eleva. In fondo il Nagorno-Karabakh può essere abbracciato con uno sguardo, con i suoi 4.400 km, un fazzoletto di terra e un mare di problemi. Un territorio che ha conosciuto l’inferno.
L’unica possibilità di entrarvi è un corridoio umanitario sotto controllo internazionale, così come, mutatis mutandis, quello che permette all’enclave azera in terra armena, il Nakichevan, di essere collegato con la madrepatria. Passata la città di Goris, appare il deserto umano della zona-cuscinetto. La strada è quasi sospesa su una lingua di terra di nessuno, contrappuntata tuttavia dai khatchkar, i crocifissi a bassorilievo che l’armenità ha voluto costruire per affermare che questa terra non è azera o turca, gli odiati vicini a Oriente e Occidente. A Kashatrak, uno dei terminali del corridoio, i vincitori armeni dell’ultima guerra hanno così voluto costruire una chiesa su uno sperone roccioso aereo, in posizione visibile a 360 gradi. E una cappellina è stata eretta anche all’altro capo del cordone. Provocazione o fede? Entrambe, certamente. Sulle pendici delle montagne, affianco della strada, si notano scheletri di case spolpate, frammezzati a villette quasi civettuole. È il retaggio della guerra etnica, qui come altrove. Come a Srebrenica, come a Kigali.
Stepanakert è la capitale di uno Stato che non è ancora tale, una città distrutta nella guerra del 1993 e ricostruita di sana pianta, quasi un vanto o una sfida. I miei accompagnatori mi fanno fare un giro della città, a cominciare da un monumento in laterizi rossi alle porte della città, il simbolo stesso del Nagorno-Karabakh: un nonno e una nonna, sintesi dei valori antichissimi cui la popolazione è attaccata. […]
Nel suo palazzo ancora disadorno intervisto il presidente Bako Sahakyan, la cinquantina tosseggiante del fumatore, maglietta nera da combattente, sguardo sospettoso. Eletto nel luglio 2007, ha dovuto far fronte a gravi inondazioni e all’aggressione nel marzo scorso d’una pattuglia azera (quindici morti azeri e uno del Karabakh). È discusso, ma qui è normale. Sulla sua scrivania ha sette telefoni e otto telecomandi. Come presentare il suo Paese agli europei? «È una neonata repubblica che ha storicamente una sua chiara ragion d’essere. Dopo la guerra ha iniziato un processo di ammodernamento e democratizzazione che la farà entrare nella modernità europea». Si rischia una nuova guerra? «Non mi pare. L’incidente di marzo è stato originato dalla voglia di gloria di una pattuglia. Il nostro esercito è forte, e la separazione tra le due linee è adeguata a mantenere la pace». Come vivere senza industrie e commercio adeguati? «Il segreto sta nella speciale relazione che lega i cittadini allo Stato: tutti sono orgogliosi di appartenervi. Purtroppo ci scontriamo col grave problema dell’emigrazione delle forze migliori». La diaspora? «Se riusciamo a sopravvivere è anche per merito loro. Non solo per gli aiuti materiali, ma anche per il radicamento nei valori dell’armenità».
Indipendenza? «Dobbiamo dimostrare che siamo capaci di avere un’amministrazione non corrotta, efficace, intrisa di valori culturali armeni. Poi potremmo parlare alla comunità internazionale di indipendenza. Siamo prudenti, non vogliamo seguire la via intrapresa da Ossezia del Sud e Abcasia». Convivenza con gli azeri? «Sarà possibile, non so quando. Abbiamo a lungo vissuto assieme, in condizioni confortevoli. Ma la presenza di troppi rifugiati, da entrambe le parti, complica le cose. Favoriamo ogni possibile semplificazione dei rapporti». […]
Il vescovo Pargev è un uomo deciso, che ha fatto la guerra nelle trincee. «Per sostenere i nostri soldati», mi dice; ma non sono pochi i testimoni che l’hanno visto sparare. Lo chiamano il ‘vescovo-mitra’. Conosce bene la storia: «Nel 1921 Stalin decise che il nostro armenissimo Nagorno-Karabakh diventasse azero: proprio in quell’anno cominciò la distruzione di Shushi e della regione. Allora avevamo cinquecento chiese e monasteri: tutti distrutti o chiusi. Finché negli anni cinquanta Mosca accettò che venissero riaperte due chiese e due monasteri». Il presente pare migliore: ‘In diciannove anni abbiamo restaurato e costruito quarantun chiese e monasteri, e continuiamo ancora. E le celebrazioni sono sempre affollate».
Riflette, si liscia la barba pepe e sale, gli occhi gli si inumidiscono... «Nella guerra del 1991-1994 abbiamo perso sessantacinquemila giovani, con settantamila orfani e disabili, e Stepanakert era un cumulo di macerie: qualche passo avanti l’abbiamo fatto!». È viva l’identità cristiana? «Siamo prima cristiani e poi armeni, e sappiamo che la nostra Chiesa madre non è stata solo uno strumento spirituale, ma ha sostenuto e sviluppato la cultura e la tradizione armene. Questa identità non ci impedisce di essere dialoganti con tutte le religioni, come testimonia la diaspora armena che vive in minoranza in diversi contesti religiosi e culturali». E con i musulmani-azeri? «I problemi sono etnici e culturali, non religiosi».

Michele Zanzucchi, Sull’ampio confine. Storie di cristiani nel Caucaso, Città Nuova, pp. 222, € 14,00.