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Il sistema e il caos

di Giuseppe Giaccio - 08/03/2010

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Bernard Charbonneau! Chi era costui? Sarà forse scontato e banale
iniziare con la domanda che Don Abbondio riferiva a Carneade, ma ci
sembra quanto mai opportuno farlo. Con una importante precisazione,
però: mentre il nome del filosofo greco del II secolo a.C. citato nei
Promessi sposi indica, nel linguaggio corrente, una persona ignota
che, in fondo, merita di restare tale, non essendo di grande valore,
nel caso di Charbonneau l’ignoranza circa la sua figura e la sua opera
è completamente ingiustificata e ingiustificabile, soprattutto negli
ambienti, purtroppo non molto frequentati, che non si sono ancora
arresi alle parole d’ordine oggi imperanti (globalizzazione, sviluppo
sostenibile, nuovo ordine mondiale) e che si ostinano ad immaginare
qualcosa d’altro. A questi ambienti, infatti, Charbonneau può fornire
una miniera di stimoli, spunti, riflessioni controcorrente: l’amore
per una libertà che non si risolva nell’individualismo, ma si coniughi
con il senso di responsabilità; per una natura che non sia solo meta
di squallidi week-end di masse alienate o argomento di innocua
letteratura bucolica o scorta di materie prime, ma legame col cosmo;
per una democrazia che non sia regola e procedura, lotta fra
segreterie di partito, ma azione e partecipazione. Sul suo conto, un
intellettuale della levatura di Jacque
s Ellul si è riconosciuto in
debito: «Charbonneau mi ha insegnato a pensare e mi ha insegnato ad
essere un uomo libero… rispetto a lui non ero altro che un brillante
secondo» (cfr. Patrick Chastenet, Entretiens avec Jacques Ellul, La
Table Ronde).

Nato a Bordeaux nel 1910, Charbonneau appartiene alla schiera dei non
conformisti studiati da Loubet del Bayle (in Les non-conformistes des
années trente, Seuil), anche se sarebbe riduttivo confinarlo nella
nicchia temporale degli anni Trenta, sia perché Charbonneau ha
continuato a scrivere e operare fino al 1996, anno della sua morte,
sia, soprattutto, perché i temi affrontati dalla sua generazione sono,
varcata ormai la soglia del terzo millennio, ancora i nostri.

Essi sono d’altronde chiaramente delineati fin dagli anni giovanili,
quando Charbonneau si abbandonava a lunghe discussioni con l’amico
Ellul e con altri personaggi destinati poi ad assurgere, nei
rispettivi campi, ad una certa notorietà, come il futuro premio Nobel
per la fisica Alfred Kastler e i matematici Claude Chevalley e Yves
Hébert. Proviamo ad enuclearne alcuni. Anzitutto, la polemica nei
confronti della vita cittadina, già allora dominata dalle automobili
(contro le quali Charbonneau ha scritto un vivace pamphlet,
L’Hommauto), e le sue nevrosi che lo spingevano ad organizzare
campeggi per stare a contatto con la natura, secondo un costume
all’epoca molto diffuso tra i giovani (si pensi ai Wandervögel), e a
denunciare lo stile di vita borghese. La ricerca di una possibile
alternativa oltre il capitalismo e il comunismo, lo Stato liberale e
lo Stato totalitario, l’individualismo e il collettivismo. Qui,
probabilmente, si manifesta uno degli elementi di originalità di
Charbonneau, il quale non si è mai lasciato ammaliare dalle sirene del
fascismo e del nazismo, che pure hanno tentato e sedotto molti
intellettuali sensibili alla prospettiva di una terza via (cfr. Tarmo
Kunnas, La tentazione fascista, Akropolis). Quel canto non aveva
effetto su Charbonneau grazie ad una vena libertaria sempre presente
nei suoi scritti che lo induceva a diffidare istintivamente di ogni
discorso che odorasse anche solo lontanamente di indottrinamento,
inquadramento. Questa ricerca lo portò a costeggiare gli ambienti de
L’Ordre nouveau, la rivista di Arnaud Dandieu, Denis de Rougemont e
Alexandre Marc, teorico del federalismo integrale, e di Esprit, la
rivista di Emmanuel Mounier, con il quale stabilì un rapporto più
stretto, fondando a Bordeaux un nucleo di collaboratori e sostenitori
e pronunciando in tale veste conferenze i cui argomenti ci fanno
intuire la peculiarità della posizione di Charbonneau, che l’avrebbe
poi costretto a rompere anche con Mounier, considerato troppo
centralizzatore: la perversione liberale, la fatalità del mondo
moderno, le forze morali, la formazione delle città moderne, il
progresso contro l’uomo, la tecnica del personalismo, il fascismo
figlio del liberalismo, la rivoluzione per una civiltà ascetica,
contro la miseria e contro la ricchezza.

Al centro della riflessione politica di Charbonneau troviamo una
critica dello Stato nazionale che a sua volta rinvia, sul terreno
filosofico, a una critica della modernità, considerata una terribile,
potente macchina livellatrice, omogeneizzante, distruttrice delle
differenze, in quanto preda dell’illusione di possedere la Soluzione,
di aver trovato la risposta definitiva ai problemi dell’umanità, di
aver compreso il movimento della storia, la direzione di marcia verso
la quale tutti, volenti o nolenti, debbono incamminarsi. In questo
quadro, è chiaro che la diversità non può non apparire un ingombrante
ostacolo, da rimuovere al più presto, sulla via del bene e della
felicità. Dietro la maschera di un brulicare di esperienze centrate
sull’io, volte all’autorealizzazione, alla scoperta di sé, troviamo un
volto in sostanza tetragono al cambiamento, ad un vero confronto con
l’altro. La modernità è quindi intrinsecamente cieca alle differenze
ed i regimi totalitari che hanno insanguinato il Novecento sono solo
l’ultima manifestazione (per ora, in attesa delle “delizie” della
globalizzazione) di un male che è iscritto nel codice genetico della
modernità e che esordisce come rivendicazione individualistica: «Le
classi in cui nasce e prospera il nazionalismo», leggiamo ne L’Etat,
«sono quelle in cui si sviluppa l’individualismo: la borghesia e, tra
i borghesi, gli intellettuali». In apparenza, l’individualismo è
l’affermazione di una specificità; in realtà, è una corrente di
pensiero che cancella i multiformi ed al tempo stesso mobili,
instabili, rapporti che nell’universo medievale univano gli uomini tra
loro e al proprio ambiente, per affermare un’unicità astratta,
astorica, derivante da un immaginario stato di natura e
dall’affermazione di diritti naturali uguali per tutti. L’uomo
“individuato” è un uomo solo, unito ai suoi simili dalla razionalità
di fredde norme contrattuali. Questo tipo umano è il necessario,
logico presupposto di quello che Nietzsche chiamerà il più gelido di
tutti i gelidi mostri: lo Stato nazionale, borghese.

Questa forma politica, essendo l’equivalente, a livello pubblico, di
ciò che l’individuo è al livello privato, si muove secondo la stessa
logica omologante. Volendo acquisire una fisionomia precisa, un corpo,
per differenziarsi dagli altri, lo Stato nazionale fissa confini
rigidi, le frontiere, «un fatto relativamente recente», con i loro
fili spinati, le loro cortine di ferro, all’interno delle quali tutto
ciò che si distingue diventa sospetto, perché rischia di sfilacciare
il tessuto nazionale. Il Medioevo, nota Charbonneau, è, contrariamente
all’immagine diffusa nella mentalità comune, un universo fluido, dove
i confini – religiosi, economici e politici – erano invisibili, «non
si giustapponevano e non avevano niente di assoluto»; dove le
frontiere del regno di Francia o dell’Impero erano «meno importanti di
quelle di un feudo o di un vescovo». I confini c’erano perché,
ovviamente, nessuna unità politica può farne a meno, ma non avevano il
carattere sacrale che hanno assunto in seguito e che ancora troviamo
affermato nelle Costituzioni (in quella italiana, all’articolo 52, che
recita: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino»). In
base a questo disegno unificatore, le innumerevoli lingue parlate
all‘interno dello spazio politico nazionale vengono perseguitate,
folklorizzate, ridotte a dialetti, fino a farle, a poco a poco,
sparire, morire. Anche in ambito economico viene imposto un modello
unico, l’economia di mercato, che uniforma gusti, tendenze, mode,
prodotti e priva le comunità locali della capacità di provvedere a se
stesse, dissolvendole e facendole dipendere da un mercato nazionale.
L’ideologia progressista sottesa alla macchina economica costringe ad
incrementare oltre ogni ragionevole limite la produzione, giacché «la
crescita è un fatto senza appello». Le curve dei grafici delle imprese
debbono puntare sempre più in alto, trascurando l’elementare verità
che «il Progresso non può indefinitamente progredire, altrimenti la
curva tende alla verticale, ossia all’assoluto, dunque umanamente
all’impossibile». Non si può progredire all’infinito perché l’uomo
«non è Dio, ed è già molto bello che possa diventare uomo; tutto ciò
che possiamo sperare è di spingere un po’ più avanti i limiti della
nostra finitudine». La vita politica conosce la stessa dinamica.
Destra e sinistra, da portatrici di valori in conflitto, tendono a
diventare un insieme indistinto, da accettare o rifiutare in blocco. E
la scelta di Charbonneau è chiara: «È venuto per noi il momento di
rigettare al contempo la Destra e la Sinistra, per riconciliarle in
noi nella tensione delle loro aspirazioni fondamentali. Di realizzare
questo scandalo: un senso dell’universale che sia esperienza della
pluralità delle patrie, una fede nell’uomo tale da poter indurre a
vedere l’uomo in faccia, un amore così grande per la libertà che
nessuna determinazione potrebbe vincere la sua lucidità».

Ne Il sistema e il caos Charbonneau si sofferma sulla fase successiva
alla formazione degli Stati nazionali, quella in cui le nazioni, dopo
aver fatto piazza pulita di ogni forma di vita comunitaria,
tradizionale, spianano la strada alla grande mue, la grande
trasformazione, mutazione, della condizione umana e della natura
causata dall’onnipresenza e onnipotenza della scienza e della tecnica.
Sebbene si parli continuamente di libertà, dignità, di diritti
dell’uomo, il vivente – uomini, animali, piante – non è mai stato così
esposto alla manipolazione, e quindi alla pratica negazione di ciò che
viene riconosciuto in linea teorica. Dal punto di vista scientifico,
si cerca di correre maldestramente ai ripari con i comitati di
bioetica, specializzatisi nell’arte di chiudere la stalla dopo che i
buoi sono scappati o di tentare di salvare capra e cavoli, con il
risultato di scontentare un po’ tutti.

Per quanto concerne l’organizzazione politica della società
postmoderna, la prospettiva che Charbonneau vede all’orizzonte è
chiaramente delineata dal titolo del saggio: il sistema, ossia una
pianificazione sempre più invadente delle nostre vite, capace di
penetrare fin nei più intimi recessi del privato, resa inevitabile
dalla mancanza dei legami caldi tipici del mondo tradizionale, o il
caos, lo scoppio di innumerevoli conflitti prodotti dalla difficoltà
di tenere in forma, in mancanza di norme sentite come veramente
cogenti, i vasti agglomerati umani del mondo globalizzato.
Charbonneau, tuttavia, rifiuta di lasciarsi ingabbiare nella logica
dell’aut-aut, oggi molto in auge presso i “padroni del vapore” dato
che possiede, dal loro punto di vista, l’innegabile vantaggio di
impedire il dibattito, presentando come inevitabile, naturale, il
risultato di precise, e non condivisibili, scelte: «Chi rifiuta il
corso attuale del mondo sa che in fondo non gli si può opporre che una
sola obiezione: non si può cambiare niente». Da questa erronea, ma
comoda, persuasione discende poi un deprecabile atteggiamento
opportunistico ed egoistico, il più delle volte inconfessato, ma molto
concreto: «Approfittare del progresso laddove mi serve, ignorarlo
laddove mi nuoce; e nel caso in cui facesse fallimento, stipulare una
seconda assicurazione presso qualche buona, vecchia religione». E poi,
magari, per sentirsi a posto con la coscienza, partecipare a qualche
maratona televisiva di beneficenza tipo Telethon. «Perché non abdicare
a mia volta giustificando ciò che è?», si chiede Charbonneau. È
questa, in effetti, la domanda cruciale e ci piacerebbe che tutti
dessero la sua risposta che può essere così riassunta: perché sono un
uomo libero e non intendo rinunciare alla mia libertà (e alla libertà
Charbonneau ha dedicato il saggio Je fus. Essai sur la liberté).

Il sentiero della libertà, situato oltre l’alternativa fra sistema e
caos, non è facile scorgerlo, giacché «è così umile da sfuggire alla
vista, benché inizi ai nostri piedi. La via della libertà è da
inventare, e la scopriremo solo facendo il primo passo. E la si
percorre solo uno per volta; questa porta stretta lascia spazio per
una sola persona. È un cammino tanto vecchio quanto nuovo, perché non
da oggi l’uomo ha la tentazione di cedere all’ebbrezza del caos o del
sistema. Tra l’uno e l’altro, tra l’ordine e il disordine,
l’immobilità e la fuga in avanti, passa il crinale dell’equilibrio che
fu sempre quello della libertà. Non fu mai tanto duro vivere sulla
terra così, a metà strada tra il cielo e l’inferno. Perché l’uno è
vuoto, l’altro è impenetrabile! Ma mai un’aria più frizzante ha
spazzato la cima». Né la fuga all’indietro del reazionario, né quella
in avanti del progressista, possono consentirci di imboccare quel
sentiero, poiché entrambe eludono le sfide del presente: «L’evasione
in un avvenire o in un passato testimonia di una stessa fuga davanti
al nostro tempo». Non disponendo di modelli, non dobbiamo guardare né
avanti, né indietro, bensì «altrove».

La via della libertà dovrebbe sfociare, secondo gli auspici di
Charbonneau, in una forma di democrazia partecipativa, di socialismo
cooperativo e di federalismo, un federalismo che non aggreghi Stati,
bensì «uomini e società libere e viventi». Egli si è comunque sempre
ben guardato dallo scendere nei dettagli, preferendo mantenersi sulle
generali, dando solo indicazioni di massima, in quanto temeva di
cadere nello stesso errore, da lui spesso denunciato, degli ideologi,
che si illudono di avere la soluzione in tasca e poi vengono beffati
dalla realtà che, come un’anguilla, immancabilmente sfugge ai nostri
tentativi di comprenderla. Perché l’agire dell’uomo sulla terra è
simile alla fatica di Sisifo: quando crediamo di averla terminata, di
essere giunti al capolinea, dobbiamo ricominciare daccapo.