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Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx (I parte)

di Marino Badiale, Massimo Bontempelli - 08/03/2010

1. Introduzione.Questo saggio, il cui titolo nomina Marx e la decrescita, è ovviamente rivolto in primo luogo alle persone interessate a Marx e a quelle interessate alla decrescita, e il primo obiettivo che ci poniamo è quello di suscitare una discussione costruttiva fra questi due gruppi. E’ noto che, in genere, fra coloro  che continuano a ricavare ispirazione dal pensiero di Marx e coloro che in tempi recenti hanno iniziato a teorizzare la decrescita non corrono buoni rapporti. I primi tendono a vedere la decrescita, nel migliore dei casi, come un’aspirazione soggettiva di natura socialmente ambigua, mentre i “decrescisti” vedono nel pensiero di Marx nient’altro che una versione “di sinistra” dell’idolatria dello sviluppo che oggi domina il mondo e contro cui intendono combattere. Giudichiamo questa contrapposizione del tutto negativa, e cercheremo in questo saggio di mostrare le ragioni di questo nostro giudizio. La prima tesi generale che ci sforzeremo di argomentare nel seguito può essere così enunciata, in una sintesi quasi da slogan: “coloro che seguono le teorie di Marx hanno bisogno della decrescita, la decrescita ha bisogno di Marx”.  E con questo intendiamo dire quanto segue: da una parte, oggi ogni teoria ispirata a Marx ha bisogno della decrescita perché essa rappresenta l’unica formulazione possibile di un anticapitalismo adeguato alla realtà del capitalismo attuale; dall’altra, la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx perché in esso si trovano alcuni fondamenti teorici indispensabili per l’elaborazione di una proposta teorica e politica adeguata ai problemi che la decrescita stessa individua. Queste affermazioni ci portano alla seconda tesi fondamentale di questo saggio, che è la seguente: solo dall’incontro fra il pensiero di Marx e decrescita può nascere un anticapitalismo che sia capace di confrontarsi, sul piano teorico e politico, con la realtà del capitalismo attuale. La nascita di una tale forma di anticapitalismo è ormai una necessità stringente. La dinamica dell’attuale fase capitalistica sta infatti spingendo il mondo verso un baratro spaventoso, ma la percezione sempre più diffusa, anche se in maniere ancora indefinite, di una tale tendenza, non riesce ancora a tradursi in un movimento politico in grado di incidere davvero sulla realtà. Noi crediamo che l’incontro fra il pensiero di Marx e la decrescita sia una precondizione perché si possano combattere con efficacia le dinamiche mortifere del mondo attuale. Questo scritto, quindi, non si rivolge solo a coloro che sono interessati a Marx o alla decrescita, ma a tutti coloro che avvertono il carattere distruttivo dell’attuale capitalismo mondiale e cercano di contrastarlo.   

2. La decrescita.Il nostro intento di costruire un terreno di confronto costruttivo fra il pensiero di Marx e il pensiero della decrescita sarà posto in opera parlando soprattutto di Marx e marxismo, e meno della decrescita. Il motivo è semplice: la discussione su Marx e sul marxismo dura ormai da un secolo e mezzo, e la storia di questo secolo e mezzo di discussioni è talmente ricca, complicata, diversificata, conflittuale, da rendere molto elevata la possibilità di essere fraintesi, e di conseguenza inevitabile una lunga serie di chiarimenti, precisazioni, distinzioni. Al contrario la decrescita è una proposta recente di riorganizzazione della società sulla base di assunti teorici semplici e lineari, e non ha quindi conosciuto scontri e fratture paragonabili a quelli avvenuti nell’ambito del marxismo. Almeno nell’essenziale, il suo contenuto teorico è per il momento sufficientemente “chiaro e distinto”, per dirla con Descartes. In questo paragrafo ne offriamo una versione estremamente sintetica[1].Il punto fondamentale da cui partire per comprendere la nozione di decrescita è la distinzione fra beni d’uso da una parte e merci dall’altra. “Merce” non è sinonimo di bene o servizio, ma è un bene o servizio prodotto per il mercato in vista di un profitto e dotato quindi di un prezzo. Non c’è sul piano teorico alcun rapporto necessario tra aumento quantitativo delle merci, diffusione del benessere e progresso delle conoscenze. Per un lungo periodo storico, fino a tutti gli anni Sessanta del secolo scorso, l’allargamento della scala di produzione di merci, pur con tanti risvolti negativi, è stato effettivamente associato, in un quadro storico complessivo, alla diffusione del benessere economico, all’ampliamento della libertà individuale, all’avanzamento dei costumi e delle conoscenze. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, però, l’ulteriore aumento quantitativo dei beni prodotti per il mercato è stato sempre più correlato, non accidentalmente (come mostra una vasta letteratura economica e sociologica), alla crescita delle diseguaglianze sociali, alla riduzione delle risorse destinate alla protezione sociale, a minori diritti del lavoro dipendente, alla diminuzione del tempo libero dal lavoro, allo sviluppo di processi di de-emancipazione e di marginalizzazione, cioè a indicatori precisi di un diminuito benessere della maggioranza della popolazione e di una minore libertà individuale.Un altro punto da comprendere riguardo alla decrescita è che essa, proprio perché riguarda le merci e l’incorporazione di energia e materie prime nei prodotti, non i beni ed i servizi in quanto tali, non è affatto un progetto francescano di rinuncia alla ricchezza economica (o almeno non lo è nell’idea a cui qui si fa qui riferimento, ad esempio di Latouche o Pallante; certamente ci sono idee non condivisibili di decrescita, come al tempo di Marx c’erano idee non condivisibili di comunismo o socialismo). E’ un rifiuto dello sviluppo capitalisticamente inteso, cioè dell’unica nozione di sviluppo oggi diffusa e compresa, che schiaccia quanti non vogliono accettare investimenti economici che devastano il territorio. Ed è una presa d’atto delle necessità non di fruire di meno beni, ma di consumare meno merci, e soprattutto meno energia e meno territorio.Diversi sono, nel nostro tempo, i casi in cui una vita migliore e più libera è correlata ad una minore quantità di beni. Nei paesi più sviluppati una dieta più sana presuppone il consumo di una minore quantità dei tanti prodotti altamente sofisticati e calorici dell’industria alimentare. Nelle città degli Stati Uniti una minore esposizione ai rischi presuppone una diminuzione delle armi da fuoco vendute e comprate. Una più libera fruizione delle nostre spiagge e delle nostre scogliere presuppone una minore quantità di colate di cemento sulle nostre coste. E via dicendo.In diversi altri casi, invece, la libertà individuale e la creatività mentale richiedono che la disponibilità di beni e servizi non diminuisca, oppure che aumenti. Ma attenzione: una disponibilità accresciuta di beni e servizi può essere realizzata anche in un contesto non di sviluppo, ma di decrescita. Un esempio: immaginiamo che il nostro sistema sanitario cominci a svolgere una seria attività di prevenzione ecologica delle patologie mediche, e, con un’immaginazione ancor più sganciata dalla realtà attuale, che il nostro sistema politico e amministrativo produca e faccia rispettare leggi che riducano drasticamente i rischi di infortuni sul lavoro e di contatto nell’ambiente con sostanze patogene. In una tale situazione il cittadino fruirebbe di migliori servizi sanitari e potrebbe maggiormente disporre di quei beni preziosi che sono cure mediche attente alle persone e basate su buone informazioni ambientali, nel quadro non di uno sviluppo, ma di una decrescita dell’economia. Infatti il contributo del sistema sanitario allo sviluppo dell’economia è dato dalla quantità di farmaci immessi sul mercato, dagli apparecchi diagnostici smerciati, dai tempi delle degenze ospedaliere, che evidentemente diminuirebbero nel caso di un’efficace prevenzione di diverse patologie e di una drastica diminuzione di malattie e infortuni sul lavoro.Fin qui abbiamo parlato delle conseguenze negative dello sviluppo per la vita sociale. Non spendiamo molte parole per ricordare le conseguenze negative per l’ambiente naturale, perché su di esse c’è ormai una vasta letteratura. Ricordiamo solo che il peggioramento dell’ambiente non è una astrazione, ma si traduce in peggioramento della qualità della vita (depauperamento ed avvelenamento delle falde acquifere, pessima qualità dell’aria respirata, accumulo di rifiuti non smaltibili senza danni, nocività degli alimenti, dai pesci al mercurio alle carni agli ormoni e agli antibiotici ecc.). La crescente invivibilità dell’ambiente per effetto dello sviluppo è una tale evidenza, di cui ciascuna persona psichicamente sana ha percezione quotidiana, che per negarla bisogna essere o privilegiati che hanno ancora per lungo tempo i mezzi per sottrarsi a gran parte delle sue venefiche conseguenze, o sciocchi resi tali da una radicale atrofia dell’anima.In Italia uno dei modi in cui si manifesta la nocività dello sviluppo è quello di progetti economici che tendono a invadere e distruggere il territorio con strutture e opere di vario tipo. Questa invasività e queste devastazioni sono inevitabili, all’interno dell’odierno meccanismo dello sviluppo. Infatti lo sviluppo non può fare a meno dell’accumulazione di realtà fisiche sul territorio (strutture produttive, infrastrutture edilizie come autostrade e aeroporti, strutture commerciali, mezzi di trasporto, rifiuti che occorre smaltire in qualche modo). Ma il territorio italiano è saturo (altrove la situazione può essere diversa): l’Italia è un paese piccolo e sovrapopolato, il cui territorio è stato da tempo invaso dalle realtà fisiche legate allo sviluppo. Non essendoci più spazio libero, le nuove strutture fisiche necessarie per lo sviluppo possono inserirsi solo in una realtà fisica e sociale già organizzata, mettendone in crisi gli equilibri. In parole povere, le nuove strutture devono invadere la vita quotidiana degli abitanti del territorio, sconvolgendola. L’opposizione da parte degli abitanti del territorio attaccato è dunque naturale e istintiva, non necessariamente derivante da opzioni politiche e ideologiche generali, e quindi può certo presentare molti limiti, specie nella fase iniziale. Il punto cruciale sta però nel fatto che essa va nella direzione della critica dello sviluppo, anche se i suoi attori possono non averne coscienza. Con questo intendiamo dire che la prospettiva della critica dello sviluppo è l’unica che renda coerenti queste lotte, dando ad esse un valore e un respiro generali. Al di fuori di tale prospettiva, queste lotte possono essere facilmente criticate e isolate indicandole come espressione di egoismi locali che devono cedere il passo all’interesse generale. La risposta a questa critica sta appunto nell’indicare il rifiuto dello sviluppo, cioè la decrescita, come interesse generale del paese. Queste lotte hanno quindi, al di là della coscienza dei singoli individui che vi partecipano, un carattere di radicale contestazione dell’attuale ordinamento economico e sociale[2].  

3 .”L’intelletto, cioè la capacità della ragione di distinguere”[3].Introduciamo adesso, come annunciato sopra, alcune distinzioni e precisazioni relative al nostro modo di utilizzare il pensiero di Marx.Per cominciare a parlare di marxismo e pensiero di Marx occorre innnanzitutto distinguere questi due termini. Abbiamo scritto sopra che la decrescita ha bisogno “di Marx” e non “del marxismo” proprio per sottolineare l’importanza di tale distinzione. Essa è ormai moneta corrente fra gli studiosi di Marx, ma forse conviene ribadirla. Il marxismo come movimento teorico-politico è una costruzione successiva alla morte di Marx. Tale costruzione è dovuta in parte ad Engels, ma soprattutto ai dirigenti della socialdemocrazia europea, tedesca in primo luogo, che avevano bisogno di una ideologia di legittimazione del movimento operaio che stavano organizzando. Data la situazione culturale dell’epoca, era inevitabile che il marxismo come ideologia del movimento operaio assumesse un inquadramento di tipo positivistico e scientistico. Sarà tale inquadramento a permettergli una grande efficacia pratica, a spese però di una distorsione dei concetti di Marx e di una riduzione della teoria sociale a un sistema semplificato e dogmatico spacciato per scientifico. Il dogmatismo è infatti il necessario esito di ogni forma di scientismo. Lo scientismo è definito dall’assunzione della moderna scienza della natura come unica forma di conoscenza razionale. Si tratta di un presupposto non dimostrato scientificamente né argomentato razionalmente[4], e cioè, appunto, di un dogma. Il carattere religioso del positivismo del tardo Comte, o anche quello del marxismo come movimento politico organizzato, non è quindi casuale ma si collega in profondità al carattere dogmatico di ogni forma di positivismo e scientismo.Il peso di tale inquadramento positivistico del marxismo e la difficoltà di liberarsene si possono cogliere in un paio di esempi. Il primo è quello di Labriola. In Italia Antonio Labriola è il primo serio studioso di Marx a livello accademico. Egli si sforza di inserire il pensiero di Marx in una riflessione culturale di alto livello, fornendo quindi al nascente movimento socialista uno strumento di grande valore nella lotta per l’egemonia culturale. Ma proprio nel fare questo Labriola critica e supera le interpretazioni positivistiche di Marx, e questo lo allontana dalla cultura dei gruppi dirigenti del movimento operaio. Labriola non partecipa al congresso di Genova del 1892, congresso dal quale nasce il Partito Socialista Italiano, e verrà sempre tenuto in disparte dai dirigenti del partito.Il secondo esempio è quello di Lenin. Se consideriamo due suoi testi filosofici, Materialismo ed empiriocriticismo, scritto nel 1908-09, e la parte relativa alla logica hegeliana dei Quaderni filosofici, scritta nel 1914-15, scopriamo che il  primo è imbevuto di positivismo ottocentesco, che è appunto la filosofia a cui egli aderisce per tutta la prima fase della sua vita, mentre nel secondo tale posivitismo è del tutto superato[5]. Ora, è ben noto che di questi due testi è Materialismo ed empiriocriticismo ad essere stato largamente recepito nel movimento comunista e ad averne influenzato il senso comune. I Quaderni filosofici, nonostante rappresentino la più matura espressione del pensiero filosofico di Lenin, sono stati conosciuti, anche nei momenti di massima diffusione e prestigio del cosiddetto “marxismo-leninismo”, soltanto da pochissimi studiosi.   

4. Altre distinzioni.Con queste osservazioni iniziali sulla distinzione fra marxismo e pensiero di Marx non intendiamo naturalmente dire che la storia del marxismo sia un errore durato un secolo o più. Il marxismo storicamente esistito ha prodotto molto ciarpame ideologico e dogmatico, ma anche molte analisi interessanti e creative. La nostra intenzione non è qui fare un bilancio del marxismo, ma solo precisare che marxismo e pensiero di Marx sono due cose diverse, anche se naturalmente interconnesse, e che, scrivendo “la decrescita ha bisogno di Marx”, intendevamo sottolineare che è proprio nel pensiero di Marx che si possono ritrovare alcuni elementi concettuali decisivi per una convincente fondazione teorica della decrescita. Il passo successivo in questa analisi consiste nel rendersi conto che lo stesso pensiero di Marx presenta una grande complessità, anche solo riferendosi al Marx maturo. In Marx coesistono diverse teorie, che riguardano oggetti diversi e utilizzano metodologie diverse. Per cominciare a fissare le idee, e fare un po’ di chiarezza, conviene distinguere tre teorie diverse presenti nel Marx maturo: a. Il materialismo storico. E’ questa una teoria che spiega come si generano i fatti storici. Il suo oggetto è quindi l’intera storia umana, e la sua metodologia si basa sull’interazione fra alcuni assunti teorici generali e la ricerca empirica sulle concrete vicende storiche delle diverse società umane. Gli assunti teorici del materialismo storico consistono essenzialmente nel rimandare alla sfera della produzione come sfera “in ultima istanza determinante” dell’accadere storico, e nel concettualizzare tale sfera attraverso la nozione di “modo di produzione” che deriva dall’articolazione di “forze produttive” e “rapporti di produzione”. Questi assunti teorici generali non dicono quale sia la specifica articolazione di forze produttive e rapporti di produzione in ogni società determinata, né come si realizzi caso per caso la “determinazione in ultima istanza” dei vari ambiti sociali da parte della sfera della produzione materiale. Si tratta di questioni che possono essere affrontate solo in collegamento con la ricerca storica empirica, verso la quale la metodologia del materialismo storico presenta dunque una ampia apertura.  b. La teoria del modo di produzione capitalistico. Si tratta di una teoria chiaramente diversa dalla precedente, sia nel suo oggetto sia nella sua metodologia. La diversità dell’oggetto è tale sotto due aspetti: in primo luogo la teoria parla di una formazione sociale storicamente determinata e non dell’intera storia umana. In secondo luogo, e soprattutto, essa parla della struttura logica della formazione sociale stessa, che è ciò appunto che indichiamo come “modo di produzione”, e non della sua storicità empirica. Il modo di produzione che la teoria concettualizza è cioè la logica fondamentale della società capitalistica, ma non coincide con una concreta fase storica di un paese capitalista, per esempio con l’Inghilterra del secolo XIX o gli  Stati Uniti del secolo XX. La diversità della metodologia è data dalla deduzione dialettica delle forme globali del modo di produzione capitalistico, deduzione dialettica che è ovviamente cosa ben diversa dalla ricerca storica empirica che è propria del metodo del materialismo storico[6]. c. La teoria della rivoluzione comunista. Si tratta di una teoria di tipo sociologico e politologico, che cerca di individuare le forze sociali e i meccanismi politici sui quali basare una forza politica rivolta al superamento rivoluzionario della società capitalistica. La teoria marxiana della rivoluzione indica nelle classi sfruttate all’interno del modo di produzione capitalistico il soggetto sociale in grado di abbattere questo modo di produzione e di instaurarne un altro. Queste tre teorie si pongono su piani diversi e sono irriducibili l’una all’altra. Se non si coglie questo punto appaiono, nell’esame dei testi di Marx, problemi e contraddizioni che in realtà non esistono. Facciamo un esempio. Nel Manifesto Marx ed Engels affermano con forza la tesi dell’immiserimento crescente del proletariato, presentato come dato di fatto su cui basare la prospettiva rivoluzionaria. Nel XV capitolo del I libro del Capitale Marx presenta invece la possibilità teorica che lo sviluppo capitalistico porti ad un aumento del livello di vita degli operai. Al capitalista infatti interessa che diminuisca il valore della forza-lavoro, ma è logicamente possibile, in presenza di un generale aumento della produttività, che la diminuzione del valore della forza-lavoro, quindi del valore delle merci necessarie alla vita del proletario, coesista con una maggiore estensione dei valori d’uso incorporati nel minore valore di scambio dei beni-salario. C’è una contraddizione fra queste due posizioni di Marx? Ha forse egli cambiato idea, nei circa vent’anni che passano dal Manifesto alla prima edizione del Capitale? La risposta è che le due tesi sono su due piani diversi e appartengono a due teorie diverse. Nel Capitale Marx sta indagando la struttura astratta del modo di produzione capitalistico e ne presenta le varie possibilità logiche, rimanendo storicamente indeterminato quale di esse si realizzi poi nella storia concreta. Nel Manifesto Marx ed Engles determinano forme e modi della rivoluzione proletaria sulla base della fase storica in cui si trovano. Abbiamo quindi da una parte una analisi teorica delle varie possibilità implicite nel concetto di “modo di produzione capitalistico” (siamo cioè sul piano teorico che nell’elenco visto sopra corrisponde al punto b), dall’altra l’analisi di una fase storica e delle possibilità rivoluzionarie in essa implicite (siamo cioè sul piano teorico indicato al punto c).  

5. Quale filosofia di Marx?Di fronte alla presenza di queste tre diverse teorie, sorge spontanea la domanda di quale sia il tessuto connettivo che le collega, lo sfondo teorico generale o il contesto categoriale che le accomuna. In una parola, la constatazione dell’esistenza di (almeno) tre teorie diverse in Marx ci porta alla questione di quale sia la “filosofia di Marx”. Anticipiamo la risposta: Marx non ha mai chiarito fino in fondo questo problema, e una filosofia di Marx in sostanza non c’è. In una fase della sua vita, quella dei primi anni Quaranta, fra l’abbandono dell’hegelismo e l’elaborazione del materialismo storico, Marx aderisce in effetti esplicitamente ad una filosofia, cioè al materialismo filosofico di Ludwig Feuerbach. Ma questa filosofia non può rappresentare la filosofia di collegamento delle teorie del Marx maturo, perché la prima di tali teorie che sopra abbiamo ricordato, cioè il materialismo storico, nasce, fra l’altro, proprio come critica e superamento del materialismo filosofico di Feuerbach, e questo non per accidente, ma perché vi è effettiva contraddizione fra il materialismo feuerbachiano e il materialismo storico, come è indicato in forma pregnante nelle celebri Tesi su Feuerbach. Dopo aver abbandonato il materialismo di Feuerbach Marx non aderisce esplicitamente ad una specifica filosofia, e rispetto a questo problema si trovano, nell’insieme dei suoi scritti, indicazioni contraddittorie e non risolutive. Marx in alcune lettere dichiara la sua intenzione di scrivere un’opera di filosofia basata su Hegel, e in vari passi ribadisce la sua stima per il grande filosofo idealista, criticando chi lo tratta come un “cane morto”. In altri momenti sembra assumere come fondamento filosofico della sua opera il materialismo storico, che in questo modo si trasforma da teoria della genesi dei fatti storici in una metafisica della storia. Infine, in altri momenti sembra dire che la propria filosofia è implicita nell’opera scientifica di analisi storica ed economica che egli andava svolgendo.Nessuna di queste indicazioni ci permette di risolvere il problema della “filosofia di Marx”. Esaminiamole. Per quanto riguarda la prima indicazione, l’opera filosofica di Marx basata su Hegel non è stata scritta, e non ne possiamo ovviamente discutere. I passi nei quali Marx cerca di precisare valore e limiti della dialettica hegeliana sono troppo scarni per poter essere considerati l’esplicitazione della “filosofia di Marx”. Si può certo sostenere che nella sua indagine scientifica del modo di produzione capitalistico Marx utilizza in modo determinante alcuni elementi dell’apparato categoriale hegeliano. E’ questa una tesi sostenuta di recente, in modo molto convincente, da vari autori[7]. Ma è chiaro che utilizzare un apparato categoriale determinato (in questo caso, la logica dialettica hegeliana) è cosa diversa dallo sviluppare una propria teorizzazione filosofica. Marx usa la dialettica hegeliana ma non teorizza in modo esplicito e compiuto tale uso. Se per “filosofia” in senso proprio intendiamo lo sviluppo teorico della categorie implicite in una prassi, tutto ciò implica che non possiamo parlare in senso proprio di una “filosofia di Marx”.Per quanto riguarda la seconda indicazione, la trasformazione del materialismo storico da metodologia di conoscenza storica in filosofia della storia, anch’essa appare in Marx solo per brevi accenni, ma rappresenta un aspetto importante del marxismo novecentesco. Si tratta di una filosofia della storia sostanzialmente dogmatica perché basata sull’assunzione non argomentata razionalmente  di un Soggetto-della-Storia (il proletariato) e di una linea generale di evoluzione della storia stessa. Prendiamo infine in considerazione la terza risposta possibile, quella secondo la quale la filosofia di Marx è implicita nella sua attività scientifica. Questa tesi può essere declinata in vari modi, a seconda del significato che si dà al termine “scienza”. Si può in primo luogo interpretare la scienza di Marx come modellata sulle scienze moderne della natura, e in quest’ottica il contributo di Marx alla filosofia viene spiegato come la critica e il superamento di ogni forma di filosofia speculativa, che viene appunto dissolta nella scienza. Questa tesi è una semplice variante di quelle posizioni scientiste che abbiamo sopra qualificato come dogmatiche.Si può in secondo luogo interpretare la scienza di Marx come una “scienza speculativa”, all’interno cioè dell’orbita di concetti tipici della tradizione fiosofica culminata in Hegel. In tal caso la tesi che la filosofia di Marx è implicita nella sua attività scientifica equivale alla posizione sopra discussa, cioè alla tesi che Marx nella sua opera scientifica utilizza in modo determinante l’apparato logico hegeliano senza darne una trattazione sistematica. Pur trovando convincente questa interpretazione, abbiamo già notato come essa non risolva il problema della “filosofia di Marx”.La discussione fin qui svolta ci porta, come avevamo anticipato, alla conclusione che una “filosofia di Marx” semplicemente non c’è. Non c’è in Marx una teorizzazione filosofica adeguatamente sviluppata che elabori lo sfondo categoriale complessivo delle diverse teorie scientifiche da Marx elaborate, e questa assenza non è stata colmata, almeno non in modo convincente, dal marxismo successivo. Possiamo concludere che, in sostanza, Marx è stato un ottimo scienziato sociale e un cattivo filosofo. Se ci è permessa una piccola digressione, si può notare che queste osservazioni forniscono una soluzione piuttosto semplice al problema del rapporto fra scienza e filosofia in Marx, sul quale tanto ha dibattuto il marxismo novecentesco. Basta infatti distinguere fra due problemi diversi: da una parte il tema generale del rapporto fra scienza e filosofia, dall’altra quello del rapporto fra scienza e filosofia in Marx. La filosofia, intesa come riflessione razionale sul senso dell’operare umano, ha ovviamente, per definizione, una carattere logicamente prioritario rispetto alle varie dimensioni dello stesso operare umano, e quindi anche rispetto alla scienza. Il che non vuol però dire che qualsiasi elaborazione filosofica sia logicamente prioritaria rispetto a qualsiasi elaborazione scientifica. In particolare, nel caso di Marx, succede quello che succede a tanti altri scienziati di valore: è la loro elaborazione scientifica che precede e illumina la loro filosofia per lo più implicita. Si tratta, come dicevamo, di una soluzione molto semplice, che è possibile però solo oggi, dopo la dissoluzione della tradizione marxista. Infatti, all’interno di questa tradizione, tale soluzione era inaccettabile e impensabile, dato che Marx vi figurava come creatore di una teoria in cui avevano trovato soluzione tutti i precedenti problemi storico-filosofici, e che doveva soltanto venire correttamente applicata ai problemi nuovi per farne emergere la soluzione[8]  

6. Quale Marx per il presente?Riprendendo il filo del nostro discorso, possiamo a questo punto porci una delle domande fondamentali di questo saggio: le teorie di Marx che abbiamo sopra distinto possono essere utilizzate oggi per un pensiero ed un’azione anticapitalistiche? Anticipiamo la risposta: a nostro avviso solo la teoria del modo di produzione capitalistico ha oggi una tale valenza, non il materialismo storico né la teoria della rivoluzione. Vediamo perché. Per quanto riguarda il materialismo storico, quanto abbiamo già detto ci sembra sufficiente. Inteso come teoria della genesi dei fatti storici, il materialismo storico rappresenta una interessante metodologia applicabile all’intera storia umana, e non ha dunque contenuti specifici da offrire all’analisi del presente. Inteso come filosofia della storia esso diventa una metafisica priva di fondamento.Esaminiamo allora la teoria marxiana della rivoluzione comunista, della quale finora poco abbiamo detto. Le tesi fondamentali della teoria rivoluzionaria di Marx e del marxismo (che in questo non si discosta molto dal maestro) possono probabilmente essere sintetizzate nel modo seguente: il modo di produzione capitalistico, come tutti i modi di produzione, presenta contraddizioni interne che determinano la possibilità di un suo superamento. Esso avverrà attraverso una classe sociale costituita in modo tale da essere indirizzata a promuovere e gestire il passaggio ad un superiore modo di produzione. Tale classe sociale (la classe operaia, o il proletariato, o forse il “lavoratore collettivo”: queste distinzioni, importanti da molti punti di vista, non lo sono per il nostro discorso attuale) è intrinsecamente rivoluzionaria, e il compito degli anticapitalisti è di fornire a questo intrinseco potenziale rivoluzionario gli strumenti (intellettuali e politici) per realizzarsi concretamente. Da molto tempo riteniamo che queste tesi non abbiano nessun fondamento. Non esiste nessun argomento, né empirico né teorico, a loro favore. La classe operaia, o più in generale il proletariato, non ha questa potenzialità rivoluzionaria che le viene attribuita. E’ questa la situazione di tutte le classi sfruttate (nello specifico senso marxiano, cioè come erogatori del pluslavoro da cui deriva il plusprodotto appropriato dalle classi dominanti) nei principali modi di produzione che possiamo esaminare. Le classi sfruttate sono certo capaci di lotte e ribellioni, ma non hanno mai, proprio mai, rivoluzionato il modo di produzione, cioè indotto e gestito il passaggio da un modo di produzione all’altro. In Europa i contadini si ribellano infinite volte contro lo sfruttamento feudale, ma queste ribellioni non comportano mai, di per sé, il superamento del feudalesimo. Allo stesso modo i contadini cinesi si ribellano contro lo sfruttamento cui sono sottoposti all’interno del modo di produzione asiatico, e queste rivolte, in particolari momenti di crisi, possono persino vincere sul piano politico, nel senso che mandano al potere i ribelli. Ma non cambia il modo di produzione, il capo dei ribelli contadini diventa il nuovo imperatore, e la società cinese, superata la crisi, si riassesta sui suoi fondamenti millenari. Nelle rivolte di schiavi in Sicilia, gli schiavi ribelli catturano i loro padroni e ne fanno i propri schiavi. Si ribellano non per abolire la schiavitù, ma per diventare essi stessi schiavisti[9].Nei tempi moderni la classe operaia, o più in generale il proletariato, non ha fatto nulla di diverso. La classe operaia ha lottato contro lo sfruttamento, è arrivata a imporre cambiamenti politici, ma non ha mai, proprio mai, indotto un cambiamento del modo di produzione[10]. Questi fatti, difficili da eludere, hanno secondo noi un fondamento teorico: le classi sfruttate, proprio perché sfruttate, sono interne al funzionamento del modo di produzione che organizza lo sfruttamento, e non sono quindi minimamente in grado di avviare una dinamica superatrice del modo di produzione stesso. Il fatto di essere sfruttate implica infatti un ruolo preciso all’interno di una società strutturata su un dato modo di produzione, e questo dà alle classi sfruttate un ruolo sociale, una rete di relazioni, una coscienza di sé, che le rende capaci di azione sociale e anche politica. Ma ruolo sociale, relazioni, coscienza di sé sono, appunto, legate al loro ruolo all’interno di quel modo di produzione, e rendono quindi impossibile l’avviare, in quanto classe, una dinamica storica di superamento del modo di produzione. La stessa situazione oggettiva che dà alla classe sfruttata la possibilità di lottare contro il proprio sfruttamento rende ad essa impossibile lottare per il superamento del modo di produzione nel quale essa è sfruttata.L’esempio principale di un mutamento rivoluzionario del modo di produzione indotto e gestito da una classe sociale, quello che Marx e i marxisti hanno sempre presente, è rappresentato ovviamente dalla rivoluzione borghese che abbatte il feudalesimo e instaura il modo di produzione capitalistico. Anche questo esempio conferma quanto stiamo dicendo. Infatti, nel modo di produzione feudale la classe sfruttata, nel senso marxiano, non è rappresentata dalla borghesia, ma, ovviamente, dai contadini. La borghesia nel feudalesimo è una classe in qualche modo “interstiziale”, che non partecipa, cioè, alla produzione del plusprodotto, ma organizza i processi del suo scambio, lucrando su di essi. E’ proprio per questo suo carattere in qualche modo “esterno” al modo di produzione feudale che essa riesce a creare, negli interstizi della società feudale, i primi nuclei del nuovo modo di produzione, che rappresentano la base oggettiva di un ruolo sociale, una rete di relazioni, una coscienza di sé, alternative al feudalesimo. Lo sviluppo di tutti questi elementi darà alla classe borghese la capacità di abbattere la società feudale.Di fronte a queste considerazioni, cosa hanno da opporre i teorici delle potenzialità rivoluzionarie della classe operaia? Sul piano empirico, nulla. Sul piano teorico, le analisi di Marx. Ma ciò che queste ultime realmente dimostrano è soltanto il carattere intimamente contraddittorio del modo di produzione capitalistico. Quello di Marx è insomma, secondo noi, un tipico esempio di wishful thinking. Egli ha individuato correttamente le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, e a questa analisi scientifica ha sovraimposto la narrazione mitologica di una classe operaia che liberando se stessa libera l’intera umanità. In ogni caso, di fronte all’ingombrante testimonianza dei fatti, l’onere della prova spetta al difensore della tesi del carattere rivoluzionario della classe operaia: chi, di fronte all’evidenza del fatto che la classe operaia non ha finora fatto quella famosa rivoluzione comunista, sostiene però le sue potenzialità in tal senso, ha l’obbligo teorico di fornirci gli argomenti razionali a favore di questa tesi.

 

note 


[1]              Per una visione più approfondita delle proposte dei teorici della decrescita, rimandiamo ai testi relativi, per esempio M.Buonaiuti (cura di), Obiettivo decrescita, Bologna 2005; M.Pallante, Decrescita e migrazioni, Edizioni per la Decrescita Felice, Roma 2009; M.Pallante, La felicità sostenibile, Rizzoli, Milano 2009. Serge Latouche ha esposto le idee della decrescita in numerosi testi, fra i quali particolarmente chiaro e sintetico è S.Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Senza nominare la decrescita, espone idee ad essa contigue P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008.

[2]              In questo paragrafo abbiamo ripreso alcuni passaggi di un nostro precedente intervento: M.Badiale, M.Bontempelli, Per salvare la vita-28 tesi contro la barbarie, reperibile in linea per esempio all’indirizzo http://www.rivistaindipendenza.org/Teoria%20nazionalitaria/tesi.htm

[3]              E.Pagliarani, da Proseguendo un finale, in Tutte le poesie (1946-2005), Garzanti, Milani 2006.
[4]           Si veda M.Badiale, Difficili mediazioni, Aracne, Roma 2008, pagg.21-22, per una breve critica allo scientismo.
[5]              Lenin vi afferma tra l’altro che “non si può comprendere a pieno il Capitale di Marx, ed in particolare il suo primo capitolo, se non si è studiata e capita tutta la Logica di Hegel. Di conseguenza, dopo mezzo secolo nessun marxista ha capito Marx!” (Lenin, Opere scelte, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1973, pag. 445).
[6]              In buona parte del Capitale Marx si dedica a ricostruzioni di tipo storico ed empirico, ma è ben noto agli studiosi che si tratta di esemplificazioni dei processi logici che egli individua nel modo di produzione capitalistico, in modo analogo alle note esemplificative che Hegel aggiunge nella Scienza della Logica.
[7]              Per esempio R. Finelli, Marxismo della “contraddizione”  e marxismo dell’ “astrazione”, in D.Sacchetto, M.Tomba (cura di), La lunga accumulazione originaria, Ombre corte, Verona 2008, pagg. 74-88, e soprattutto R.Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006. Lavori come questi, basati sulla nuova edizione critica della opere di Marx, rappresentano a nostro avviso il definitivo superamento delle discussioni novecentesche fra marxisti “hegeliani” e marxisti “anti-hegeliani”, e permettono di porre finalmente su basi adeguate il problema del rapporto Marx-Hegel.
[8]              Possiamo aggiungere, molto brevemente perché non è questo adesso il nostro tema, che un nuovo movimento culturale e politico anticapitalistico avrà senz’altro bisogno, fra tante altre cose, anche di una seria e rigorosa fondazione filosofica. Ma non la dovrà cercare in Marx.
[9]              Sulle rivolte degli schiavi si veda Diodoro Siculo, Biblioteca storica, Sellerio, Palermo, libro 34, par. I, II. E’ probabile che Spartaco sia stato uno dei pochissimi schiavi ribelli che rifiutavano davvero la schiavitù come istituzione. Sulla sua figura si veda M.Bontempelli, E. Bruni, Il senso della storia antica, vol. 2, Trevisini, Milano s.d., pagg. 247-259.
[10]            Se si interpreta come nuovo modo di produzione quello instaurato in Russia tra il 1918 e il 1933, occorre osservare che esso è il risultato non dell’azione della classe operaia industriale ma al contrario della sua scomparsa durante la guerra civile.