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Che Guevara fuori dai luoghi comuni

di Lorenzo Salimbeni - 08/03/2010


 

Che Guevara icona da maglietta rossa. Che Guevara sbandierato nelle marce pacifiste. Che Guevara spietato sovversivo. Quanti luoghi comuni hanno accompagnato e tuttora accompagnano questo personaggio, nato nel 1928 in una famiglia irlandese-argentina e morto in Bolivia alla vigilia di quel ’68 che tanto rivoluzionario avrebbe voluto essere.

Punto di riferimento della sinistra, ma capace di esclamare in un discorso davanti alle Nazioni Unite “Patria o muerte”. Esaltato per i suoi tratti quasi da ribelle jüngeriano in certi ambienti della destra e del cosiddetto socialismo nazionale, nonostante quella stella rossa così evidente sul basco che indossa nella più famosa fotografia che lo ritrae (vedasi a tal proposito di M. La Ferla L’altro Che. Ernesto Guevara mito e simbolo della destra militante, ed. Stampa Alternativa).

Ernesto Guevara de La Serna credeva nella rivoluzione, ma in un’accezione quasi trotzkista: una rivoluzione permanente, esportabile in tutto il mondo. Lui, argentino di nascita, che scopre le miserie del subcontinente latinoamericano durante un avventuroso viaggio in motocicletta. Lui, medico di professione, che depone il bisturi per imbracciare il fucile. Lui, recentemente riscoperto anche dal cinema, comparendo addirittura come voce narrante del musical Evita in cui duetta con la rock-star Madonna, laddove fu Juan Domingo Peron a “dialogare” proficuamente con il suo connazionale, anche se si trattò di un dialogo postumo, ovverosia di un elogio funebre che lo statista argentino in esilio in Spagna dedicò al Comandante Che Guevara (l’appellativo “Che” gli fu affibbiato dai primi compagni di guerriglia per canzonare la sua cadenza argentina che abbondava di questa tipica esclamazione) quando apprese della sua morte. Il controverso leader giustizialista riconobbe in lui le stimmate dell’eroe, del combattente per l’indipendenza e la libertà di quel Sudamerica che una superpotenza aveva arbitrariamente eletto a suo giardino di casa e vi spadroneggiava da decenni.

Ma il ritratto più interessante di quest’uomo reca in calce la firma di Jean Cau, intellettuale francese dal percorso politico segmentato e particolare, il quale riesce a dar vita nelle sue parole alle immagini. Di lui ricordiamo Il cavaliere, la morte e il diavolo, di Ciarrapico Editore, immaginario dialogo stimolato dalla visione della nota incisione di Albrecht Dürer, ma è per lui un altrettanto significativa fonte di ispirazione la celebre foto del cadavere di Che Guevara disteso su un tavolaccio e compulsato da Rangers boliviani e agenti della CIA. Il visionario autore, infatti, vide in quell’immagine il celeberrimo Cristo deposto del Mantegna e vi trovò l’ispirazione per scrivere Una passione per Che Guevara, edito in Italia da Vallecchi. È un ritratto a prima vista contraddittorio, ma che a ben pensarci ha una sua coerenza di fondo: il fil rouge della Rivoluzione e della coerenza ad un ideale, magari utopico, ma che si vuole conservare puro e cristallino a fronte dei compromessi cui deve soggiacere un potere costituito per perpetuarsi.

Sarà l’incontro a Città del Messico nel 1955 con l’esule cubano Fidel Castro a segnare la svolta nella sua vita. Un anno dopo essersi conosciuti, Castro e Guevara fanno rotta su Cuba a bordo dello scalcagnato yacht Granma assieme ad un pugno d’uomini per unirsi al movimento di resistenza che intende rovesciare il regime di Batista, sostenuto da quelli Stati Uniti che hanno trasformato l’isola caraibica in un luogo di sfruttamento economico. Il primo scontro a fuoco obbliga Che Guevara a una scelta: formalmente Ernesto è il medico del gruppo, ma sotto i colpi della pattuglia che li ha scoperti decide di abbandonare i ferri del mestiere e di tenersi invece ben stretto il fucile, non potendo portarsi tutto dietro nella sua fuga. Gli esiti della guerriglia castrista sono ben noti, quasi quanto il fatto che Guevara si trova, al pari dei suoi compagni, proiettato in poco tempo dalle insidie della boscaglia ai formalismi degli scranni ministeriali. I panni di Ministro dell’Industria gli vanno stretti, preferisce fare l’apostolo della rivoluzione andando in visita dai leader di quei paesi africani che stanno lottando per ottenere un’indipendenza non solo formale, ma anche e soprattutto sostanziale nei confronti di quelle potenze coloniali che non esercitano più il loro controllo attraverso l’esercito e la burocrazia, bensì tramite enormi concentrazioni di capitali grazie a cui detengono ancora le leve del potere effettivo negli importantissimi ambiti minerario ed agricolo.

E intanto a l’Avana Fidel Castro sente l’ombra statunitense farsi via via più minacciosa: inizialmente tollerata poiché aveva tolto di mezzo un personaggio scomodo e discutibile come Batista, la rivoluzione cubana ora deve essere anestetizzata, bisogna ripristinare il controllo dello Zio Sam. In un contesto di Guerra Fredda, Castro minacciato da uno dei due contendenti non può trovare protezione e appoggi che dall’altra parte della barricata. Il percorso di avvicinamento al colosso sovietico garantisce sì le esportazioni di canna da zucchero in cambio di petrolio a prezzi stracciati, ma d’altro canto conduce pure ad un’escalation che culminerà con la famosa crisi dei missili nel 1962. Nei suoi viaggi Guevara è stato anche al Cremino, ha visto la fredda nomenklatura all’opera nei suoi rigidi formalismi, vede parimenti Cuba fossilizzarsi sul mito di sé stessa e dei suoi trascorsi rivoluzionari. Dal cono d’ombra a stelle e strisce, l’isola caraibica sta scivolando in quello moscovita, con tutto quel che comporta in termini d’indipendenza: lo sviluppo economico è bloccato, nel sistema sovietico di alleanze ogni Paese deve specializzarsi in qualcosa e con ciò alimentare lo scambio con gli altri Stati, quindi Cuba ha davanti a sé un destino agricolo che la lega indissolubilmente al sempre più invadente alleato eurasiatico per quanto riguarda tutti gli altri approvvigionamenti. Ernesto Che Guevara dismette i panni ministeriali e va a fare il contadino nelle piantagioni di canna da zucchero fianco a fianco con coloro per la libertà dei quali ha combattuto e tribolato. Finché, come scrive in una delle ultime lettere alla madre, cui è affezionatissimo, ha «di nuovo inforcato Ronzinante»: il riferimento donchisciottesco è chiaro, meno nota è probabilmente la percezione dell’eroe partorito dalla fantasia di Miguel Cervantes nella letteratura ispanica. Se da noi, infatti, Don Chisciotte della Mancia è visto come un perdente e un disadattato, nei paesi di lingua spagnola gode di una malinconica fama, il suo utopismo è oggetto di rispetto e non di sberleffo, il suo disinteressato e maldestro prodigarsi per gli altri raccoglie non scherno, bensì simpatia nel senso etimologico del termine, vale a dire condivisione di sofferenza. Che Guevara si sente quindi chiamato di nuovo in causa, si confronta con Castro, non gli nasconde le sue perplessità sul cammino che ha intrapreso la loro rivoluzione, dopodiché torna in Africa, non in visita nelle capitali, altresì nella giungla ad accendere quei “dieci, cento, mille Vietnam” con i quali spera di mettere definitivamente in crisi non solo lo sfruttamento capitalista in generale, ma anche quest’assurdo duopolio di Mosca e di Washington che si consuma sulla pelle di quei popoli in lotta per la propria libertà e che si trovano invece volenti o nolenti invischiati in giochi diplomatici e di potere ben più grandi di loro. E’ il 1965, “l’anno in cui non siamo stati da nessuna parte” come disilluso e malinconico Guevara annotò nei suoi scritti.

Questo suo iperattivismo non era gradito sulla Piazza Rossa: per l’ultima volta Guevara fu costretto a tornare a Cuba, ma si trattò di un passaggio rapidissimo, poiché il cerchio del destino doveva chiudersi ed il combattente argentino era chiamato all’ultima tappa della sua Via Crucis, la quale avrà luogo in quei posti visitati in gioventù e che tanto avrebbero influenzato le sue future scelte di vita. Seguito da un manipolo di disperati e senza collegamenti né con i servizi segreti cubani né tanto meno con quelli sovietici, il Che tentò di accendere un fuoco rivoluzionario in Bolivia, ma lo scenario non era come quello cubano di una decina d’anni prima. La gente adesso aveva paura di questi guerriglieri affamati e malconci praticamente sbucati dal nulla, braccati dai reparti speciali dell’esercito e privi di una rete di simpatizzanti. Sempre più minato dall’asma di cui soffrì da sempre, Guevara vide le sue fila assottigliarsi giorno dopo giorno, fino all’imboscata finale in cui, ferito ed esausto, venne fatto prigioniero e trascorse l’ultima notte della sua vita (quella fra l’8 ed il 9 ottobre 1967) sul tavolaccio di una piccola scuola di un villaggio boliviano. È in questa circostanza che Jean Cau immagina si volga questo dialogo in retrospettiva, in cui il guerrigliero argentino ripercorre le tappe della sua vita perché sa che l’indomani il plotone di esecuzione porrà fine alla sua utopia. Il Che morì a 39 anni d’età (“gli eroi son tutti giovani e belli” cantava qualcuno), in segno di massimo spregio i suoi sicari ne deturperanno la salma mozzandone le mani.

I detrattori di Guevara additano al pubblico ludibrio il guerrigliero spietato che uccise un suo commilitone reo di aver rubato del cibo in un villaggio, obnubilati come sono dai droni e dagli strumenti sempre più tecnologici  con cui si combatte la guerra oggi, sicché tremano di fronte all’algido Guerriero. I detrattori del suo successo cubano si stracciano le vesti per il mancato rispetto dei diritti umani nello Stato castrista, ma non si rendono conto delle ben più gravi nequizie che si consumano a danno dei detenuti nella base di Guantanamo, ubicata sì a Cuba, ma sotto sovranità di un Paese che vorrebbe essere esportatore di democrazia. Qualcuno cinicamente afferma che con Castro Cuba si è trasformata da bordello degli USA a bordello dell’Europa, ma da un punto di vista politico i capi di stato di quella corrente neobolivarista (Chavez in Venezuela, Correa in Ecuador, Morales in Bolivia ed in una certa qual misura Lula in Brasile e la Kirchner in Argentina) che sta ponendo fine alle posizioni privilegiate di cui godevano multinazionali e ditte statunitensi nell’America latina, non hanno negato la loro solidarietà a L’Avana, stretta dall’embargo di Washington, e vanno sempre più compattando le fila del subcontinente, come era nei desiderata non solo di Simòn Bolivar quasi due secoli fa, ma anche di Ernesto Che Guevara, nato in Argentina, diventato famoso a Cuba e morto in Bolivia.

Il testo che segue è estratto dall’intervento di Lorenzo Salimbeni al convegno Economia, filosofia, politologia ed antropologia di fronte all’utopia nel XXI secolo del Centro Studi Internazionali della Regione Friuli Venezia Giulia Heliopolis svoltosi a Trieste.

La redazione