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The Velvet Underground

di Marco Iacona - 11/03/2010

Ci sono immagini che valgono più di parole, perifrasi, romanzi e quant'altro. Ci sono immagini incancellabili non per supposta singolarità quanto per la possibilità di essere ripetute nel tempo e diffuse nello spazio, e questo è uno dei codici del Novecento. L'idea che l'arte fosse non solo invenzione ma riproduzione di un'immagine o di oggetto anche di scarso valore apparteneva per esempio a Andy Warhol, re incontrastabile dell'epoca di diffusione del pop quando essere sulla bocca - e davanti gli occhi - di tutti era da considerarsi il non plus ultra del merito.
La forza di Warhol stava nell'aver compreso i meccanismi della società moderna: apparire e ancora apparire insomma, dare "scandalo" senza stare troppo a tormentarsi - come invece era accaduto nella vecchia Europa degli ultimi anni - seguendo il nuovo "vangelo" del decennio, i Sessanta, che avrebbe cambiato la storia della restante parte del secolo. In un mondo dominato dal consumo, la Pop art respingeva l'espressione dell'interiorità e dell'istintività e guardava, invece, al mondo esterno, al complesso di stimoli visivi che circondano l'uomo contemporaneo: il cosiddetto "folclore urbano". È infatti un'arte aperta alle forme più popolari di comunicazione: i fumetti, la pubblicità, i quadri riprodotti in serie. Il fatto di voler mettere sulla tela o in scultura oggetti quotidiani elevandoli a manifestazione artistica si può idealmente collegare al movimento svizzero Dada, ma completamente spogliato da quella carica anarchica e provocatoria. La critica alla società dei consumi, degli hamburger, delle auto, dei fumetti si trasforma presto in merce, in oggetto che si pone sul mercato (dell'arte) completamente calato nella logica mercantile. Ciò nonostante gli artisti che hanno fatto parte di questo movimento hanno avuto un ruolo rivoluzionario introducendo nella loro produzione l'uso di strumenti e mezzi non tradizionali della pittura, come il collage, la fotografia, il cinema, il video...
Molti ricorderanno che la firma d'oro di Warhol, l'immagine di una "peccaminosa" banana gialla - che ne nasconde una di colore rosa - e la scritta «sbuccia piano e vedi» (peel slowly and see) stanno lì a formare le illustrazioni di copertina di un album musicale fra i più famosi della storia del rock. Si tratta di The Velvet Underground & Nico, registrato nel 1966 e pubblicato nel '67 dal gruppo capitanato da Lou Reed con l'aggiunta dell'attrice-modella Nico, al secolo Christa Päffgen anima e corpo già prediletto da Coco Chanel, gli uni e l'altra strettamente legati a Warhol e alla sua "Factory" - fabbrica d'arte o laboratorio creativo di New York. Il figlio di miseri immigrati slovacchi nato a Pittsburgh nel 1928, è stato infatti il promotore di un'operazione che avrebbe portato alla nascita del primo Lp di uno dei più importanti gruppi musicali "alternativi" del dopoguerra, nonché di uno di quei prodotti, anche se in origine il disco non ebbe successo a causa delle sonorità e dei contenuti troppo audaci che fece da trait d'union fra musica rock e avanguardia artistica e di qualche problema legale: l'album venne pubblicato il 12 marzo 1967, e raggiunse la posizione numero 171 della classifica di Billboard. Il promettente debutto commerciale della band fu guastato da delle complicazioni legali. Il retro del disco mostrava una fotografia del gruppo mentre suonava in un concerto con una immagine proiettata alle loro spalle; l'immagine in questione era tratta da un fotogramma di un film di Warhol, Chelsea Girls. L'attore del film, Eric Emerson, che era stato arrestato per possesso di droga e aveva un disperato bisogno di soldi, affermò che la sua immagine era stata utilizzata sul disco senza il suo permesso (l'immagine del suo viso campeggiava sopra il gruppo che suonava). La Mgm Records ritirò dal mercato tutte le copie dell'album fino a quando la disputa legale venne risolta con l'eliminazione dell'immagine incriminata. Tutto questo però, bastò a rovinare l'ascesa commerciale del disco.
Adesso un libro racconta la storia di quella band maledetta - e lo fa molto bene grazie alle immagini inedite - che ha influenzato gusti e ritmi musicali fino ai giorni nostri, i gruppi Punk, la New Wave e anche i Nirvana. Il titolo è (e non poteva non essere): The Velvet Underground. Arte e musica a New York, a cura dello scrittore e curatore di esposizioni Johan Kugelberg, e con testi di Lou Reed, Maurren Tucker e Doge Yule (tutti componenti della band, ma in tempi diversi), Vaclav Havel (conosciutissimo autore teatrale e primo presidente della Repubblica ceca) e Jon Savage (giornalista musicale). Il volume (320 pp., 49 euro) è stato edito da Rizzoli proprio alla fine del 2009. Prima di sfogliare il libro che ricorda gli anni di una stagione d'indimenticabile, irruente, furiosa, creatività (ma anche di sesso, droga e quant'altro), è "obbligatorio" però ascoltare le tracce del disco a cominciare dalle note solari di Sunday Morning passando per Run run run e All Tomorrow's parties, approdando infine nell'inferno dell'arrabbiatissima European Son non prima di essere transitati per The Black angel's death song dedicata al narratore e poeta stelle-e-strisce (tra l'altro traduttore di Rimbaud) Delmore Schwartz, maestro di Lou Reed. Ascoltare le tracce per farsene una prima corretta impressione. Scopo primitivo dei V.U. non è comunque quello di piacere a chicchessia.
Ma facciamo un passo indietro. Qualche tempo prima dell'incontro con Warhol i due litigiosissimi membri della band, vale a dire Reed e il gallese John Cale - quest'ultimo con la passione per le avanguardie musicali - si erano già assunti l'onere di fondare il gruppo insieme al chitarrista e bassista Sterling Morrison e al batterista Angus MacLise. Le cose non andavano bene tuttavia e l'ultimo dei quattro abbandonava i compagni per supposta deriva commerciale (a sostituirlo una donna: "Moe" Tucker, una scelta insolita per un gruppo rock di quegli anni). A dare il nome definitivo alla band - e a dirla lunga sui temi e sui gusti "forti" dei quattro - era stato un libro erotico casualmente ritrovato in un gabinetto pubblico della Grande Mela, un'opera "underground" (dal titolo: The Velvet Underground), redatta in quegli anni dal giornalista Michael Leigh. Reed e Morrison raccontarono in seguito che alla band piaceva questo nome, perché sembrava evocare i film del "cinema underground" e inoltre perché Reed aveva già scritto una canzone intitolata Venus in Furs, ispirata al romanzo Venere in pelliccia scritto da Leopold von Sacher-Masoch, che parlava di masochismo e perversioni sessuali. La band immediatamente e all'unanimità adottò il titolo del libro come nuovo nome del gruppo. La perversione sessuale era peraltro gradita allo stesso Reed esperto, per così dire, in argomenti ritenuti dei veri e propri tabù: sadomasochismo e altre pratiche...
L'amicizia di Warhol - altro trasgressivo doc - apre comunque le porte a una maggiore notorietà. Non solo i V.U. possono tentare delle sperimentazioni più audaci ma si recano in tournèe fino a far parte di un singolare spettacolo itinerante, il cosiddetto Exploding plastic inevitabile (Epi): una performance warholiana fortemente trasgressiva di tipo "globale". Un mangia-e-bevi di musica assordante e proiezioni, arricchito dalle danze del ballerino prediletto da Drella (questo il nomignolo di Andy), il biondo Gerard Malanga e dalla modella-attrice Edie Sedgwick (morta per overdose di barbiturici già nel '71), alla quale verrà dedicato Femme fatale uno degli undici brani del disco dei V.U. cantato proprio da Nico. L'unica contropartita chiesta da Andy, se così la si vuol chiamare, sarà "l'arruolamento" della giovane valchiria che si sarebbe esibita - con un'intonazione non proprio cristallina ma con gusto e glamour da vendere - in tre delle canzoni del primo Lp della band newyorkese. Nel suo libro sulla bellezza femminile: Un secolo d'amore. Arte, bellezza e desiderio da Picasso a Marilyn, Giampiero Mughini la cita come il «marchio piccante» del gruppo musicale sponsorizzato da Andy Warhol. Ma Nico è soprattutto il marchio "europeo" del gruppo.
Troppo galli nel pollaio? Fra sospetti, irrequietezze e gelosie il matrimonio fra Nico e i Velvet dura lo spazio d'un solo mattino. La tedesca - ricordiamolo: anche fra i protagonisti minori de La dolce vita di Fellini, amante di Jim Morrison e compagna dell'attore e regista francese Philippe Garrel - riuscirà a legare solo con Cale che le farà da produttore nella sua successiva carriera da solista e anticipatrice dei gusti dark; Nico sarà già assente nel secondo disco della band (l'altrettanto sconcertante White light/White heat - 1968), nel quale peraltro Warhol si limiterà a illustrare la copertina lasciando a Tom Wilson il ruolo del produttore. Drella infatti ha già fiutato altri tipi di affari e si è lasciato "licenziare" da Reed, morirà come sappiamo nell'87 dopo un intervento alla cistifellea, forse malato di Aids. Destino non molto diverso: come una vera star Nico morirà in circostanze particolari, a Ibiza nel 1988, cadendo dalla bicicletta e non ricevendo in ospedale le cure dovute. I medici scambieranno un'emorragia cerebrale per un semplice colpo di sole.
Siamo dunque appena agli inizi e s'intravede il tramonto della band. Ancora nel '68 si acuirà il dissidio fra Reed e Cale che prima dell'incisione del terzo album (The Velvet Underground), certo di non voler trascinare il gruppo verso una deriva "cantautorale" dominata da Reed (e legato com'è a uno sperimentalismo sempre più accentuato), lascia il posto a Yule. Lo stesso Reed poi abbandonerà nel 1970, decretando la morte dei Velvet Underground anche se in altro clima e grazie alle carriere soliste degli ex componenti la riscoperta dei lavori della band è databile fine anni Settanta. Poi c'è un buco di un decennio, infine durante i Novanta - dopo la morte di Warhol - la formazione originale dei V.U. si riunirà per qualche anno con alterni successi (in Italia si esibirà con gli U2), ma i cronici litigi fra Reed e Cale e la morte di Morrison comporranno la frase conclusiva all'interno del curriculum vitae dei cattivi anticipatori dell'era del rock. Ricorderemo sempre i V. U. per aver trascinato la musica dall'azzurro/verde degli spazi liberi alle cupe "galere" delle capitali d'oltreoceano, e per aver portato le angosce delle avanguardie fra gli angoli viziosi e distruttivi della polverosa New York. Oggi possiamo dire che a quei tempi, allegri o infelici che fossero, gli americani persero in poche stagioni il sonno e l'innocenza.