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Jawohl! L'autosufficienza ambientalista ed energetica tedesca

di Marco Milioni - 11/03/2010

    


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Domenica sera Rai Tre con Presa diretta ha mandato in onda un ottimo esempio di reportage. Un reportage nel quale il punto di vista del giornalista era chiaramente espresso ma suffragato da analisi e dati presentati con rigore. La puntata del 7 marzo però ha chiaramente disvelato un aspetto che forse è sfuggito ai più. La scelta di campo portata avanti dal parlamento tedesco durante gli anni Novanta a favore delle energie alternative ha un valore incontestabile sul piano della difesa dell'ambiente. I continui richiami del cancelliere federale Angela Merkel al raggiungimento del cosiddetto pacchetto 20-20-20 sono ormai considerati attendibili da tutta la comunità internazionale. Ma il pacchetto che impone di abbattere, entro il 2020, il 20% delle emissioni di CO2 prodotte in Europa rispetto al 1990, di produrre il 20% di energia da fonti rinnovabili e di aumentare del 20% l'uso di biocombustibili, è una minima parte di un disegno assai più ampio.
La Germania, magari in punta di piedi, magari senza dare nell'occhio, ha capito che crollato il muro di Berlino era venuta meno una serie di paradigmi irrinunciabili figli della guerra fredda. Tra questi quello di una dipendenza energetica e militare di stretta osservanza atlantica: in uno schema che vedeva gli Usa come stella centrale in un sistema di pianeti ad essa collegata. I piccoli grandi segni di un mutato orientamento li si possono cogliere nella progressiva, seppur lenta e contrastata, diminuzione delle forze Usa che il Pentagono sta compiendo sul suolo tedesco; l'apertura di Berlino verso partner energetici come la Russia; la rinuncia, almeno in larga parte, alle guerre di George Bush in Medio Oriente.
Proprio in questo contesto si inseriscono le «meraviglie» raccontate da Presa diretta. In altre parole la Germania ha da tempo maturato la convinzione che le energie rinnovabili non sono solo una cosa buona per madre terra unitamente agli esserini che ci stanno sopra; non sono solo un buonissimo affare per gli imprenditori, ma sono diventate un asset, per dirla come gli analisti della Cia, irrinunciabile per le sorti del Paese germanico. Spingendosi infatti con convinzione e rapidità sulla strada imboccata dopo la fine degli anni Ottanta, i tedeschi puntano nel volgere di un secolo, forse meno, alla totale autosufficienza energetica. Se a questa aggiungiamo la capacità dei paesi nordeuropei di riciclare materiali di scarto risparmiando sulle materie prime, si capisce che tra gli obiettivi c'è quella disciplina che tende ad un tipo di autarchia che non va confusa con lo stratagemma propagandistico del Ventennio, ma che va intesa come cosciente «padronanza di sé stessi». Un concetto molto caro allo scrittore Massimo Fini quando quest'ultimo parla della necessità di spezzare il giogo perverso della globalizzazione.

Tuttavia descrivere un processo del genere significa descrivere una sorta di gioco della matrioška nel quale le bambole più esterne rappresentano il frutto tangibile di una politica più saggia e più rispettosa delle persone nonché dell'ambiente. Andando più in profondità però si scorge una dimensione più intima, che va oltre la politica. Se i tedeschi hanno fatto ciò che hanno fatto dovrà esserci pure un motivo. Governo e parlamento in tanti anni, pur con maggioranze diverse, non si sono mai sognati di toccare gli incentivi all'energia verde nonostante le pressioni delle lobby petrolifere e di quelle dell'atomo nonché di quelle che arrivavano da oltreoceano. Non va dimenticato infatti che le fonti alternative rendono infatti possibile la creazione dell'idrogeno, senza ricorrere a combustibili fossili, il quale poi può essere reimpiegato con automobili e simili se si rimarrà fermi (ed ho seri dubbi al riguardo) su stili di vita molto simili a quelli odierni. L'idrogeno ottenuto dalle fonti verdi però può anche essere utilizzato per vettori spaziali, aerei, veicoli militari. Una fattispecie che non deve essere sfuggita a quel pezzo di classe dirigente tedesca la quale pensa che un futuro pacifico non possa essere tale se si delega la difesa dei propri confini e della propria entità nazionale a chi sta dall'altra parte dell'oceano o a chi sta dall'altre parte del Mare di Azov. Il che dimostra che il "green power" viene percepito contemporaneamente come sana opzione ambientale e come imprescindibile opzione geo-strategica. Il che evidenza a sua volta la grande lungimiranza dei tedeschi e della classe dirigente che li rappresenta.
In quest'ottica va considerato un altro aspetto che spiega quanto descritto prima su un versante ancora più profondo. La classe dirigente tedesca ha imboccato questa strada, ad onor del vero tracciata per la prima volta dai movimenti ambientalisti, non per una illuminazione delle intellighenzie del Paese, ma perché queste hanno dovuto cogliere una istanza che proveniva dal basso. Non c'è schieramento politico che tenga. Così i tedeschi, dopo gli orrori della Seconda Guerra (e gli arrovellamenti siderali sulle relative cause) si sono riappropriati della parte migliore di quel Volksgeist, di quello spirito di popolo e di nazione, che per secoli li aveva connotati antropologicamente. Ciò non toglie che in un Paese di ottanta milioni di persone non ci si possa battere sul piano politico e dialettico: le differenze esisteranno sempre. Le differenze, pure quelle diciamo così ideologiche, sono linfa vitale, ma l'humanitas è un valore comune, che nel caso delle politiche ambientali i tedeschi hanno saputo coniugare assai meglio di ogni altro stato di peso assimilabile (i virtuosismi di Svezia, Norvegia, Finlandia, Austria e Sudtirolo sono ovviamente fuori concorso).
Epperò se il disegno di Berlino sarà realizzato in pieno, la via è impervia, l'arrivo tutt'altro che certo, la cosa avrà ripercussioni massive sul resto d'Europa: proprio in virtù della stazza della terra che fu abitata da Bajuvari, Sassoni, Svevi e altri. In prospettiva questo disegno potrebbe essere il preambolo di quell'Europa unita, adeguatamente armata, caratterizzata da un know how tecnico scientifico tale da poter vivere con un discreto benessere, umano in primis, sganciata dal delirio della globalizzazione economico-bancaria e dalle interferenze di altri blocchi continentali. É insomma quell'Europa preconizzata tante volte da Massimo Fini, la quale in qualche circostanza deve pur mostrare i muscoli non in ragione di un militarismo violento, ma in ragione del fatto che gli altri ti rispettano anche quando sanno che hai la schiena dritta e il cazzotto deterrente pronto all'evenienza meno desiderata: Cina, Russia e specie Stati Uniti infatti sullo scacchiere internazionale non si comportano esattamente come dame di San Vincenzo. Un'Europa così potrà quindi essere il luogo per la (ri)scoperta di antiche e nuove patrie, piccole o grandi che siano. Di antichi e nuovi saperi. Di antichi e nuovi uomini. E magari ci permetterà finalmente di badare ai nostri affetti per chi li apprezzi; alla nostra spiritualità per chi la senta; al nostro essere uomini in equilibrio con noi stessi, con gli altri, con la natura, col Cosmo o con Dio a seconda dei nostri valori. Il condividere concretamente questi obiettivi ovviamente comporta l'obbligo di destrutturare, magari con il piglio del filologo o di chi esegue un restauro conservativo, certi miti come progresso, sviluppo, crescita. Alcuni strumenti culturali come la decrescita conviviale sono già oliati. Altri debbono ancora essere pensati o messi in moto. Tutto questo può sembrare utopia e invece non si tratta che di un semplice percorso alla ricerca di un po' di pace, di un po' di rigore e di un po' sobrietà. Senza strafare ovviamente.
A questo punto però occorre replicare alla classica domanda che nasce spontanea. "Ma come si cala tutto questo nel concreto"? La risposta arriva se si pensa ad una Europa che ha elaborato, declinandole nel rispetto delle realtà locali, le innovazioni apportate dai tedeschi; si scorgerebbe in tal caso un sistema continentale che presenta tra le altre queste caratteristiche. Vaste aree arabili (pure o bonificate) destinabili anche all'allevamento; il tutto ottenuto grazie a processi saggiamente e scientificamente supportati di deindustrializzazione e di disintossicazione di un settore primario oggi all'asfissia. Ristrutturazione ed innovazione dei soli presìdi industriali necessari al mantenimento di un benessere reale sostenibile e non dopato (unitamente al mantenimento delle piazzeforti strategiche per evitare di divenire bocconi per potenze straniere). Rinuncia progressiva ma rapida ad ogni ingerenza ed aggressività nei confronti di altri Paesi, in primis quelli cosiddetti meno sviluppati. Apertura alle transazioni commerciali solo se strettamente necessarie, puntando sulla circolazione delle idee a scapito di quella delle merci e dei capitali. Mantenimento e innovazione di quei presìdi scientifici utili a rimediare ai guasti della deriva tecnica del XX secolo. Gli aggiustamenti appena descritti (lascio le questioni dello spirito ad altri non avendo io titolo alcuno) debbono avere tra le altre un risultato irrinunciabile. Quello di fare ri-guadagnare agli uomini il tempo e il suo senso profondo; tempo che una tecnologia figlia del profitto ci ha negato illudendoci di darcene di più. Ma che cosa significherebbe portare a casa risultati del genere? La cosa potrebbe avere infatti un sano effetto collaterale. In una comunità che il benessere lo realizza insieme e non si scanna per qualche bene o per qualche falso mito, il mito del denaro come anelito primo, si squaglierebbe (e con esso lo strapotere bancario) per tornare a ciò che era alle origini. Un mero marca-valore, un mero strumento contabile, poco più di un regolo per bambini.
Per questo spiraglio ad ogni buon conto va dato merito ai tedeschi. Hanno saputo osare con fantasia, spirito di iniziativa e tenacia. In fondo come dice uno straordinario George Scott che interpreta il folle e monolitico Generale Turgidson nel Dottor Stranamore «un tedesco, è sempre un tedesco». Jawohl.