Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I miti delle origini e le grandi teste di pietra raccontano la storia misteriosa di Jeju-do

I miti delle origini e le grandi teste di pietra raccontano la storia misteriosa di Jeju-do

di Francesco Lamendola - 16/03/2010

 

 

L’isola di Jeju-do (o Cheju-do, o semplicemente Cheju) sorge all’estremità sud-occidentale dello Stretto di Corea, fra la Corea e il Giappone, quasi alla stessa distanza da Pusan, sulla costa coreana, e Nagasaki, sull’isola nipponica di Kyūshū. La terraferma più vicina è a 130 km. in direzione nord, dove sorge il porto coreano di Wando.
In lingua coreana, “do” è la trascrizione fonetica di due distinti caratteri cinesi, che significano, rispettivamente, “isola” e “provincia”. Prima della sua annessione al Giappone, nel 1910, Jeju-do era nota agli Europei col nome di Quelpart, derivatole da una nave olandese che, partendo dalla base di Formosa, era diretta al porto di Nagasaki, per stabilire delle relazioni commerciali fra la Compagnia olandese delle Indie Orientali e l’Impero del Giappone.
È di natura vulcanica; ha una superficie di 1.820 chilometri quadrati ed è dominata dalla mole del Monte Halla, il più alto della Corea (1.950 metri). Larga 73 km. da Est a Ovest e 31 da Nord a Sud, è emersa dal mare mediante cinque successive eruzioni, circa 2 milioni di anni fa. A causa della sua posizione geografica essa gode di un clima temperato, assai più mite dal resto della Corea del Sud, di cui politicamente fa parte, dal 1946 come provincia speciale autogovernata.
La vegetazione è di tipo subtropicale, favorita dalle piogge abbondanti. Ha una popolazione di circa 410.000 abitanti, 130.000 dei quali sono concentrati nel capoluogo di Jeju City, che sorge quasi al centro della costa settentrionale.
Gli isolani di Jeju-do sono sempre stati soggetti a discriminazioni, fin da quando, nel lontano 662, l’isola, che anticamente era stata un regno indipendente conosciuto con il nome di Tamna, perse la propria autonomia e divenne un protettorato. Anche nei recenti testi scolastici e nei manuali specialistici pubblicati nella Corea del Sud, la storia dell’isola è trattata in maniera molto parziale e riduttiva.
Pesa come un macigno il ricordo di una tragedia moderna, che il resto del mondo ha pressoché ignorato. Fra l’aprile del 1948 e il maggio del 1949, prima che scoppiasse la guerra di Corea fra il Nord e il Sud della Penisola, l’isola fu teatro di una prova generale di quel tremendo conflitto: gli abitanti di Jeju-do, infatti, sobillati da alcuni agitatori comunisti, insorsero contro il governo sudcoreano e subirono una repressione spaventosa.
Si calcola che le vittime dell’esercito inviato da Seul furono non meno di 30.000, buona parte delle quali furono assassinate dopo che si erano arrese ed erano state rinchiuse in grandi campi di concentramento. Gli ultimi focolai della rivolta si trascinarono ancora per qualche anno, fino a che vennero definitivamente spenti nel 1953. Questa tragedia, sconosciuta dal resto del mondo, è ricordata dagli isolani come il massacro di Jeju.
Per la sua natura vulcanica, l’isola è ricchissima di strane formazioni rocciose, di suggestive cascate, di grotte (non meno di sessanta, tra le quali la grotta vulcanica più lunga del mondo, Manjang-gul, che si addentra nella terra per 13,4 km.) e di bocche vulcaniche secondarie (366 in totale, chiamate “orum”), alcune delle quali occupate da splendidi laghetti e utilizzate dai contadini come tombe, recintate da bassi muretti di pietra, tuttora visibili.
Un interesse particolare riveste la cultura dell’isola (la cui società era basata su una antichissima struttura patriarcale) e specialmente la sua mitologia, che, a causa del relativo isolamento, mostra caratteri distinti dai miti di origine dei Tungusi e dei Siberiani, predominanti invece sulla terraferma coreana.
Secondo il mito della fondazione, Jeju-do era disabitata finché tre uomini divini o tre semidei, Koh, Yang e Boo, emersero dal suolo nei pressi del Halla-san da tre fori nella terra, che ancora vengono mostra ai visitatori. Essi vivevano di caccia, finché non incontrarono tre principesse provenienti da un lontano regno e le sposarono; ciascuna di esse portava con sé i semi di cinque tipi di granaglie e animali domestici, per insegnare ai rispettivi sposi l’arte dell’agricoltura.
I miti della fondazione sono tramandati mediante racconti orali e, in parte, sono intrecciati alla figura del «harubang», il cosiddetto «nonno di pietra», originalissimo manufatto consistente in una figura umana scolpita in un solo blocco di roccia lavica, sormontato da un caratteristico copricapo, e di cui esistono alcune decine di esemplari sparsi per tutta l’isola. Di questi, 55 sono sicuramente autentici, mentre numerosi sono quelli contraffatti, anche perché essi sono divenuti le “mascottes” dell’isola in chiave turistica. Il cattivo gusto della modernità si è spinto a riprodurli ovunque, perfino sotto forma di cabine telefoniche dipinte in un vivacissimo colore azzurro, ignorando e profanando il loro significato religioso, peraltro tuttora avvolto nel mistero (erano destinati, forse, a svolgere la funzione di custodi dei villaggi).
È strano, ma non ci risulta che alcun antropologo occidentale abbia notato l’impressionante analogia concettuale e, in parte, anche costruttiva, fra queste sculture ed i famosissimi «moai» che hanno reso celebre in tutto il mondo un’altra isola del’Oceano Pacifico, lontanissima da Jeju-do: l’isola di Pasqua, scoperta nel 1722 dal navigatore olandese Jacob Roggeveen.
Un parallelismo interessante è dato dal fatto che le due isole, benché si trovino a una distanza immensa l’una dall’altra, sorgono a una latitudine abbastanza simile, ma nei due opposti emisferi della Terra: Jeju-do si trova a 33° di latitudine Nord e 126° di longitudine Est; l’isola di Pasqua a 27° di latitudine Sud e 109° di longitudine Ovest da Greenwich. Il clima, quindi, è abbastanza simile nelle due isole, anche se quello dell’isola di Pasqua è stato stravolto, in tempi storici, dalla inconsulta distruzione del meraviglioso manto forestale originario, quasi certamente proprio per facilitare il trasporto delle grandi teste di pietra dai cantieri, sulle pendici del vulcano Rano Raraku, mediante il loro scorrimento su tronchi d’albero. Notiamo questa doppia, curiosa coincidenza e passiamo oltre.
Scrivono i saggisti tedeschi Anneliese e Peter Keilhauer nella loro monografia «Corea del Sud» (titolo originale: «Südkorea, Kunst und Kultur im ‘Land der hoehen Schönheit», Köln, DuMont Buchverlag, 1986; traduzione italiana di Francesco Saba Sardi, Milano, Touring Club Italiano, 1989, pp.  183-85):

«Sull’isola si tramandano costumanze antichissime. Così per esempio, contrariamente a quanto avviene sulla terraferma, ai rituali funerari sono addetti soprattutto evocatori di spiriti appartenenti al sesso maschile. Una nota famiglia  di sciamani locali vanta un albero genealogico che risale a ventidue generazioni fa.
Le particolarità etniche di Cheju sono rivelate innanzitutto dalle saghe dell’origine, che si differenziano nettamente dai miti di origine siberiano-tungusa propri della terraferma. Qui infatti non regnano le credenze dell’origine celeste, e l’eroe solare non è considerato il portatore della cultura, ma al primo posto è il legame con la terra e con regni insulari lontani, l’Asia sud-orientale, la Cina meridionale e il Giappone.
Le leggende locali raccontano che l’isola un tempo era disabitata, ma un bel giorno il terreno sulla pendice settentrionale del vulcano si spalancò e da tre squarci uscirono gli spiriti Ko, Pu e Yang, i quali si nutrivano di caccia e pesca e si nutrivano di pelli. Un giorno, venne a riva una cassa di argilla chiusa con un sigillo color porpora, in cui stava un messo che aveva che aveva con sé cavalli, vitelli e sementi.  Da una cista in pietra uscirono tre vergini, figlie dell’imperatore giapponese, che le aveva mandate per popolare e coltivare la terra con i tre spiriti. L’origine delle tre stirpi rivela singolari somiglianze con racconti biblici. La grande cassa di argilla corrisponde all’arca e lo Halla-san al luogo in cui questa si arenò, il monte Ararat, mentre l’inviato ricorda Noé e i tre spiriti i suoi figli. Alcuni studiosi ipotizzano infatti che si tratti di un’assimilazione di elementi culturali giudaici, dovuta alla presenza di ebrei a Tamna, come un tempo veniva chiamata Cheju.
Secondo un’altra leggenda, l’imperatore cinese avrebbe inviato messi alla ricerca dell’elisir dell’immortalità, e accadde allora che tre marinai si unissero con donne locali. Sulla vicina isola di Namhae, costoro avrebbero lasciato enigmatici ideogrammi, i cosiddetti “ipgu”.

In antichi documenti scritti, l’isola è citata come regno di Tamna (ma anche Tambulla e Damlla), che nel 498 dovette riconoscere la supremazia di Paekche e quindi pagare tributi a Silla e a Koryo, per essere finalmente assorbito da quest’ultimo regno nel 1105. Nel XIII secolo vi giunsero i mongoli, che hanno lasciato profonde tracce nelle fisionomie oltre che nella lingua dell’attuale popolazione.  Quando, nel 1259, i mongoli fecero pace con il re di Koryo e si ritirarono dalla terraferma, continuarono a restare a Cheju dove allevavano cavalli, abbattevano gli alberi dell’isola per costruire navi e nel 1274 se ne servirono quale base di partenza per il fallito attacco contro il Giappone tentato da Kublai Khan. Durante il periodo Yi, Cheju fu un luogo di confino per prigionieri politici. In Occidente, l’isola divenne nota in seguito al naufragio, avvenuto nel 1653, di un veliero olandese davanti alla costa meridionale: l’equipaggio riuscì a tornare in patria solo dopo tredici anni di permanenza sull’isola. Hendrik Hamen, uno dei reduci, pubblicò un celebre libro intitolato: “The Dutch come to Korea”. Di origine olandese anche l’antico nome di Quelpart, dato all’isola e derivante da un tipo di nave.
Tra le cose da vedere sull’isola, la capitale Cheju con circa 130.000 abitanti, collocata grosso modo al centro della costa settentrionale e composta dall’antico porto di pesca e dalla città nuova con edifici amministrativi e una università. L’edificio più antico dell’isola è il padiglione Kwandok risalente alla metà  del XV secolo, che sorge sulla piazza principale dove si trovano anche alcune delle celebri statue-menhir locali, enigmatiche figure con grandi occhi prominenti e un cappello appuntito, che il popolo chiama ‘grandi nonni di pietra’ (Tol-Harubang) con chiaro riferimento alla credenza che ne fa antenati e custodi. Sull’isola dovrebbero trovarsene altre 52, mentre 55 sarebbero nel complesso i dolmen. Se ne ignora sia l’origine che l’età precisa, anche se per lo più vengono attribuite all’età della pietra, concetto del resto assai nebuloso su un’isola rocciosa come questa, dove culti della pietra hanno sempre avuto sede. In seguito all’avvento del Buddismo, questi monumenti vennero in parte fatti oggetto di venerazione quali Maitreya di pietra (To-Miruk).
I tre fori nella terra (Samsong-Hyol) dai quali circa duemilasettecento anni fa sarebbero usciti gli spiriti Ko, Pu e Yang, si possono ammirare nel parco nei pressi dell’albergo Kal.  Il santuario Samsong è il luogo di culto delle tre stirpi fondate dagli spiriti. Alla periferia occidentale della città, nei pressi dell’aeroporto, si drizza una bizzarra roccia a testa di drago(Yongdu-am). La Grotta del Serpente (Sa-kol) e la grotta Manjang, due cavità laviche nei pressi di Kimnyong, tra Cheju-Città e Songsan sulla costa orientale, contano tra le principali attrazioni dell’isola. Una leggenda narra che nele grotte abitava un enorme serpente che fino a tempi corrispondenti all’inizio dell’era cristiana esigeva che gli venissero sacrificate fanciulle. Solo durante il periodo Yi, quando un nuovo governatore venne sull’isola, costui attrasse con cibarie e vino di riso il mostro dal suo nascondiglio e lo uccise a colpi di lancia.»

Come si vede, e lasciando da parte la «vexata quaestio» di ordine generale circa il significato delle corrispondenze fra i miti delle diverse culture umane, non si può non notare curiose somiglianze fra il mito di fondazione di Jeju-do richiama quello biblico del diluvio universale (tanto che alcuni etnologi non hanno esitato a ipotizzare la presenza di una colonia ebraica sull’isola coreana); il mito della ricerca dell’elisir dell’immortalità rinvia all’epopea babilonese di Gilgamesh; mentre la leggenda relativa al drago che divorava le fanciulle in una grotta dell’isola, richiama palesemente quella cristiana di san Giorgio e, prima di essa, quella greca di Perseo e Andromeda.
Da ultimo, come se tutte queste corrispondenze non fossero già, di per sé, abbastanza intriganti, i “nonni di pietra” di Jeju-do fanno venire alla mente i giganti dell’isola di Pasqua, ma anche analoghe sculture antropomorfe presenti su svariati arcipelaghi del Pacifico, e pure dell’Oceano Indiano: ad esempio, per quest’ultimo caso, le enigmatiche statue delle Maldive, che hanno richiamato l’attenzione dell’archeologo norvegese Thor Heyderdahl, già appassionato studioso dei grandiosi monoliti dell’isola di Pasqua e convinto sostenitore di un popolamento delle isole polinesiane da parte delle antiche popolazioni del Sud America.
Né questa ampiezza di prospettive deve sconcertare, perché le religioni e le mitologie viaggiano - come, del resto, le idee e i sistemi filosofici -  non meno celermente delle merci o delle monete; e già Mircea Eliade osservava, ad esempio (in opere come «Lo Yoga, immortalità e libertà» del 1954; traduzione italiana Rizzoli, 1973, e Sansoni, 1982, p. 297-98) che si sono potute identificare forti influenze religiose dell’India antica non solo in tutto l’ambito dell’Asia sud-orientale, ma perfino nelle lontane isole dell’Oceania.
Questioni estremamente complesse, come si vede; ma anche tali da destare una viva curiosità, sia sotto il profilo della storia comparata delle religioni e delle mitologie, sia sotto quello più propriamente storico-artistico.
Questioni che mettono in crisi il nostro etnocentrismo, il nostro scientismo, il nostro razionalismo esasperato; e che sembrano fare appello a una parte più profonda del nostro essere, alle regioni della nostra Mente superiore, le quali sanno molte più cose di quante non ne sappia la nostra modesta, e tuttavia sempre sopravvalutata, ragione strumentale e calcolante.