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Slobodan Milošević. 4 anni fa

di Fabrizio Fiorini - 16/03/2010

Vi dicono che colpiscono la Serbia per colpire me. Ma in verità colpiscono me per colpire la Serbia.

S. Milošević

Il fondamentalismo e la vulgata laiciste, per una sola volta, ci consentiranno di parafrasare cristianamente la parabola della trave e della pagliuzza. Questa esemplificherebbe egregiamente, infatti, l’atteggiamento che il popolo italiano (o ciò che ne resta) tiene nei confronti del mondo che si apre al di là dell’Adriatico. Si fa un gran parlare, da più parti – anche dalla nostra – di una sacrosanta de-novecentizzazione della dialettica politica, di un superamento degli schemi immobili del XX secolo, di una auspicata liberazione che, nell’enunciazione della nostra dottrina sociale, dovrebbe finalmente svincolarci dal fardello storico e dalla conformità ai modelli ideologici del secolo breve. Talvolta o spesso – a seconda del campo d’azione – vi si riesce. Ma appena si parla di Jugoslavia inesorabilmente si ripiomba nelle grinfie del passato, il secolo breve allunga la sua ombra, suonano le campane di San Giusto, baionetta in canna e delenda Belgrado.

Detto per inciso: lungi da noi il voler relegare nell’oblio la vicenda dei profughi istriano-fiumano-dalmati o, peggio, offendere la memoria delle persecuzioni da loro subìte. E’ d’obbligo però la constatazione che tale atteggiamento ha, nel corso dei decenni che ci separano dalla fine del secondo conflitto mondiale, posto una ferruginosa tara sulla valutazione obiettiva che un libero europeo dovrebbe mettere in atto relativamente al mondo slavo del sud e alle strutture politiche e sociali che lo hanno disciplinato nel corso della storia recente. Simultaneamente, non si vuole qui fare apologia tout court del modello jugoslavo e della sua versione eretica del realsocialismo, cui va certamente rimproverata la vicinanza – pur se inserita in un encomiabile quadro di non-allineamento e di distanza dall’imperialismo sovietico – al mondo occidentale e alle strutture della Nato.

E’ comunque necessario, in un ottica di fratellanza tra i popoli della nostra più grande patria europea, saper dare una valutazione obiettiva e saper apprezzare la vicinanza dei popoli balcanici, che dell’Europa sono stati il motore a scoppio, che dell’Europa e per l’Europa hanno saputo dare – conformemente alle connotazioni assolutistiche della loro antropologia – il loro meglio e il loro peggio, che l’Europa ha relegato a valvola di sfogo per le sue tensioni continentali e che la (serva) Europa ha sacrificato sull’altare della sudditanza al nuovo padrone d’oltreoceano.

Ricorre in questi giorni il quarto anniversario della morte del presidente Slobodan Milošević. La nostra simpatia per la sua figura è di vecchia data (a parte il personale senso di vicinanza col mondo balcanico…: nella città adriatica in cui sono nato, quando ero bambino, era consuetudine rivolgersi a quelle terre nei familiari termini di “di là”), fin da quando, nei primi anni Novanta dello scorso secolo, gli americani e i loro accoliti (tra cui molti ‘umanitaristi’ nostrani) riempirono il nostro continente con manifesti stile far west che ritraevano il presidente jugoslavo come un ricercato internazionale con tanto di taglia sul collo, e lo definivano butcher, macellaio. Grazie all’illuminata saggezza del fanciullo, lontana dalle elucubrazioni e forte di sensazioni epidermiche (questa saggezza con l’età sfiorisce, sotto il peso delle letture, dei ricordi, della vita vissuta), quei manifestini erano per me certificazione garantita di santità: cosa avrà mai fatto di tanto buono quest’uomo per essere talmente inviso agli americani?, mi chiedevo. Il destino, che ha magnanimamente voluto tenermi un posto nella ristretta cerchia dei fortunati che da adulti vedono confermate le proprie impressioni giovanili, mi ha dimostrato che la valutazione non era errata.

Slobodan Milošević è stato l’uomo grazie al quale l’Europa ha visto proiettare sugli albori del XXI secolo uno strascico di sovranità istituzionalizzata. E’ stato il politico che è riuscito a mettere in atto e a preservare, tra le difficoltà e le concessioni alla realpolitik dettate dalla contingenza, quello che chiunque dotato di senso della misura non esiterebbe a definire un miracoloso connubio tra socialismo e nazione, nel cuore dell’Europa americanizzata della fine del Novecento. E’ stato il capace amministratore che è riuscito a preservare lo stato sociale e la proprietà pubblica in un Paese vittima del più pesante isolamento internazionale, è stata la guida di una orgogliosa e caparbia nazione che ha saputo tener testa alla più massiccia e violenta coalizione armata della storia. E’ stato il segretario di uno degli ultimi partiti socialisti che di socialista non conservava solo la denominazione. E’ stato il saggio e avveduto presidente dell’unico stato plurinazionale dei Balcani, è stato il volto della schietta e sfrontata sfida a quanti, tramite lui, volevano sottomettere gli ultimi aneliti d’indipendenza e di sovranità che ancora si manifestavano in piena Europa. E’ stato soprattutto l’uomo buono, ma fortunatamente non mite, che ha saputo servire la sua nazione, che ha provato dolore e costernazione quando questa è stata colpita.

Seguendo il suo esempio, vogliamo schernire le accuse che gli venivano rivolte e volare alti sulla mirata propaganda che lo dipingeva – lui e gli uomini del suo governo – con le tinte più fosche. E sappiamo che ogni accusa e ogni menzogna sono state una certificazione incontrovertibile della giustezza e dell’efficacia del suo operato. Vogliamo sorvolare anche sulla pochezza di chi lo ha arrestato, incarcerato e vessato: per costoro saranno sufficiente sanzione la piccolezza del loro sguardo, l’aridità delle loro esistenze e l’odio che gli riserveranno i patrioti europei. Non vogliamo neanche addentrarci sulle diatribe autoptiche sulla causa della sua morte. Pillola di cianuro o infarto sono dettagli di fronte al fatto incontestabile che Slobodan Milošević è stato ucciso, e che le responsabilità dell’omicidio ricadono sugli stessi che da più di mezzo secolo stanno lentamente uccidendo l’Europa: gli Stati Uniti d’America e i loro accoliti.

Vogliamo invece ricordarlo così com’era, beffardo e sorridente nell’aula del Tribunale dell’Aia. Con la sua cravatta regimental che da grigia divisa da burocrate era diventata emblema di libertà. Vogliamo ricordarlo con le parole proferite per risposta al presidente della Corte che gli chiedeva se volesse dichiararsi colpevole o innocente: «è un vostro problema».

Alla memoria del presidente jugoslavo mi sia permesso un ricordo e un ringraziamento personale. Doveroso, per aver permesso a un giovane europeo, in quegli anni poco più che ventenne, di avere il privilegio di camminare – in occasione dei miei viaggi in Serbia – per le vie di una città libera. Di respirare un aria di orgoglio. Di sentirmi socialista. Di sentirmi libero. Di sentirmi belgradese. Di camminare a testa alta per le strade e di sentirmi fiero della mia Europa.