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Il pegno rotativo: un odioso privilegio a favore degli istituti di credito

di Stefano Rosati - 16/03/2010

 

La nostra legge civile prevede che tutti i creditori abbiano “eguale” diritto di soddisfarsi sul patrimonio del debitore, nel caso in cui il loro credito resti insoddisfatto (articolo 2741 del codice civile).
Questo principio acquista particolare significato in caso di fallimento del debitore.
In tal caso nessuno dei creditori potrà agire individualmente.
Il legislatore, infatti, appronta una speciale procedura volta a liquidare il patrimonio del debitore per ripartire proporzionalmente il ricavato tra i creditori.
“Proporzionalmente” vuol dire che i creditori subiranno, in identica proporzione, le conseguenze del fallimento; se, infatti, il debitore fosse stato in grado di far fronte a tutti i suoi debiti non ci sarebbe necessità di fallimento.
In sostanza si tratta di un’applicazione specifica del principio di eguaglianza.
Ci sono, tuttavia, delle eccezioni a questo principio di civiltà giuridica che rispondono ad altrettanto importanti ragioni.
Queste eccezioni sono le cosiddette cause legittime di prelazione.
Legittime, in quanto previste dalla legge.
Il titolare di queste ha diritto di essere “preferito”, ossia di soddisfarsi prima degli altri creditori, sul bene specifico del debitore su cui grava la causa di prelazione.
L’alternativa legislativa è stringente: o si è titolari di una causa legittima di prelazione o si concorre insieme a tutti gli altri creditori. Tertium non datur.
Poiché il diritto di prelazione incide profondamente su quello degli altri creditori a soddisfarsi sui beni del debitore, le cause di prelazione sono disciplinate da leggi inderogabili e di ordine pubblico.
Nel nostro sistema, quindi, le cause di prelazione sono solo quelle indicate come tali dal legislatore, operano solo nei limiti e nei casi tassativi di legge.
Il diritto di pegno è una di queste.
Perché questo produca l’effetto di prelazione dovrà essere costituito nel modo esatto prescritto dalla legge.
La disciplina del diritto di pegno si articola su due requisiti essenziali.
Il primo è lo spossessamento; non esiste “pegno” se il debitore non consegna il bene (appunto, “dato in pegno”) al creditore: non basta l’accordo, serve lo spossessamento. Art. 2786 cod. civ.: “Il pegno si costituisce con la consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce l’esclusiva disponibilità della cosa”.
Il secondo è la redazione di una scrittura privata con data certa contenente sufficiente indicazione del credito e della cosa data in pegno; in sua mancanza si dà diritto di pegno del creditore nei confronti del debitore  ma non il diritto di prelazione del creditore nei confronti degli altri creditori. Art. 2787 cod. civ., terzo comma: “Quando il credito garantito eccede la somma di lire cinquemila, la prelazione non ha luogo se il pegno non risulta da scrittura avente data certa, la quale contenga sufficiente indicazione del credito e della cosa”.
La certezza della data della scrittura privata è, inoltre e soprattutto, fondamentale ai fini della opponibilità al fallimento del pegno.
La legge, infatti, al fine di evitare condotte fraudolente del creditore sul debitore a danno degli altri creditori, esclude l’efficacia del pegno costituito poco tempo prima (uno o due anni, secondo i casi) della dichiarazione di fallimento.
In tal caso non opererà il diritto di prelazione e il creditore sarà trattato come tutti gli altri.
 Questo quadro di rigorosa nitidezza e lineare semplicità è sottoposto alla continua pressione di chi esercita professionalmente l’attività di erogazione del credito.
In questi anni si è assistito, infatti, a una proliferazione di forme di garanzie atipiche, ossia formulate in difformità dagli schemi previsti dalla legge; pegno omnibus, pegno rotativo, fideiussione omnibus, contratto autonomo di garanzia, sale & lease back et similia.
Il pegno rotativo, in particolare, consisterebbe (se fosse valido, come dai più è reputato) nella sostituzione del bene dato in pegno con altro di pari valore, senza che il cambiamento della cosa data in garanzia determini costituzione di un nuovo pegno.
L’originario diritto di pegno ruota, ossia si trasferisce, su un altro bene del debitore.
La sostituzione del bene è resa necessaria dai cambiamenti di valore del bene dato in garanzia, spesso titoli mobiliari (azioni o obbligazioni).
Questa clausola, inserita nei formulari predisposti dagli istituti di credito, secondo i sostenitori della sua validità, renderebbe il pegno anomalo ma non atipico (si rammenti le non sono ammissibili e valide cause di prelazione atipiche).
Il pegno cioè continuerebbe a produrre i suoi effetti tipici; il diritto di prelazione, in primo luogo.
Pur essendo cambiato il bene non ci sarebbe un nuovo diritto di pegno; conta, infatti, il valore della garanzia che rimane identico.
In questo modo una sostituzione del bene avvenuta poco tempo prima del fallimento del debitore sarebbe perfettamente efficace e opponibile agli altri creditori.
Questa forma di garanzia in realtà è palesemente in contrasto con i principi e le norme che regolano la materia delle garanzie.
Cambiare il bene, ancora esistente seppur divenuto di minor valore, dà luogo evidentemente a una nuova garanzia dello stesso debito (tra l’altro il secondo comma dell’art. 2787 prevede chiaramente che “La prelazione non si può far valere se la cosa data in pegno non è rimasta in possesso del creditore o presso il terzo designato dalle parti”).
In particolare non si vede come la scrittura privata di data certa che descrive il bene (inizialmente) dato in pegno e il credito, necessaria perché operi la prelazione, possa essere la stessa pur essendo cambiato il bene dato in garanzia.
In sostanza la formula del pegno rotativo anomalo non atipico ha il valore di una formula magica.
La magia, tuttavia, nel mondo reale nasconde solo un trucco, o una “fregatura”.
Tale è quella che subiscono i creditori diversi dalle banche a seguito del fallimento del comune debitore.
Si sostiene che le forme legali di garanzia siano ormai obsolete; che non rispondano alle esigenze della nuova economia e dei suoi assetti produttivi.
Il fatto che simili argomentazioni siano avanzate soprattutto da chi esercita l’attività di erogazione del credito genera qualche dubbio.
Maggiori garanzie servono per maggiori crediti, per garantire crediti che altrimenti non sarebbero concessi.
Il credito è un bene come gli altri. Qualcuno ha interesse ad averlo ma qualcun altro ha interesse a darlo, per conseguirne un ricavo (gli interessi).
E’ l’offerta (di credito) che genera la domanda (di debito).
Una giurisprudenza sempre più anarchica avalla queste nuove forme di garanzia sulla base del(la petizione di) principio che queste siano generalmente accolte negli ordinamenti dei paesi civili (sic!).
Opporre a simili affermazioni argomenti giuridici, come il vincolo costituzionale del giudice alla legge della Repubblica italiana, non pare utile; a quanto pare ai giudici non si può parlare di legge.
Gli empiristi inglesi del ‘600, tuttavia, ci hanno insegnato che non può dedursi logicamente da una proposizione con la parola “fatto” una proposizione con la parola “deve”.
In effetti, un’argomentazione come quella sostenuta dalla Corte di Cassazione avrà fatto rigirare nella tomba il povero Hume.
Qualche tempo prima i razionalisti avevano affermato che "vi sono pure due specie di verità, quelle di ragione, e quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessarie ed il loro opposto è impossibile, quelle di fatto sono contingenti ed il loro opposto è possibile" (Leibniz, "Monadologia", 33). 
Quella della suprema corte di cassazione pare più una verità “supposta”.
Vorremmo, a questo punto, sommessamente ricordare la massima di esperienza – vero condensato di saggezza popolare e buon senso – secondo cui “se uno si butta a fiume non è detto che devi farlo pure tu”.