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Ricordo di Luigi Frasca, uno dei pochi intellettuali politicamente onesti, sotto il fascismo e dopo

di Francesco Lamendola - 18/03/2010

 

 

Almeno uno, c’è!
Questa è l’impressione che si prova, sfogliando l’elenco degli intellettuali italiani che, durante il ventennio fascista, credettero nel fascismo non per opportunismo e meschino interesse privato, ma per nobile e sincera idealità; e che, dopo il 25 luglio del 1943 e, più ancora, dopo il 25 aprile del 1945, non si affrettarono a fare il salto della quaglia e a balzare sul carro del vincitore, millantando inesistenti benemerenze democratiche e resistenziali, ma furono capaci di fare un onesto e sofferto esame di coscienza di tutta una generazione, astenendosi dal gettare ogni colpa su Mussolini e riconoscendo virilmente quanto era responsabilità di ciascuno sia negli eventi della dittatura, sia in quelli della guerra perduta.
Esiste -  ma è quasi introvabile - un libro di Nino Tripodi, «Intellettuali sotto due bandiere», che documenta impietosamente la viltà e lo sfacciato camaleontismo di numerosi scrittori italiani che, dopo aver fatto carriera all’ombra del Fascio littorio e averne ricevuto onori e vantaggi materiali, cambiarono casacca da un giorno all’altro, magari con la miserabile giustificazione - come fece Ruggero Zangrandi - di essere sempre stati contrari al fascismo, ma di averlo voluto sabotare dall’interno: eloquente testimonianza della miseria politica e morale di una intera classe di intellettuali e, in prospettiva, di una intera classe dirigente, la quale non ebbe l’onestà di rimanere coerente con se stessa e giunse a vantarsi di aver favorito la caduta del regime che l’aveva in ogni modo avvantaggiata, e questo proprio nel momento in cui l’esito sfavorevole della seconda guerra mondiale avrebbe dovuto rendere ognuno pensoso della sopravvivenza stessa della Patria, al di là delle discordie e degli odî di fazione.
Uno dei pochi, dei pochissimi intellettuali onesti, che non si macchiarono di «vile oltraggio» verso il caduto regime ed il suo capo, così come non si erano mai abbassati al «servo encomio» quando il fascismo pareva navigare a gonfie vele, è stato il critico letterario siciliano Luigi Frasca, eminente studioso di Verga, di Foscolo, di Alfieri, oltre che dei classici latini e traduttore dallo spagnolo, il quale, forse proprio per questa sua dirittura intellettuale e morale, è stato totalmente dimenticato ai nostri giorni, al punto che l’«Enciclopedia biografica universale» della Treccani (ma anche il «Dizionario enciclopedico universale» della Sansoni e l’«Enciclopedia Garzanti», per citare alcune opere di larghissima consultazione) non lo nomina neppure, benché le sue pagine saggistiche possano reggere il confronto con quelle dei nostri migliori critici contemporanei, dal Russo al Momigliano.
Non c’è da meravigliarsi; una sorte ben peggiore è toccata al valente filologo Goffredo Coppola, (anch’egli ignorato dalla «Enciclopedia biografica universale» della Treccani), fucilato a Dongo dai partigiani insieme agli altri gerarchi di Salò, benché non avesse alcun crimine di cui rendere conto alla giustizia degli uomini; e cui è anche toccato l’ironico destino “post mortem” di vedere affidata la cura della sua biografia, sul «Dizionario biografico degli Italiani», a un curatore non certo obiettivo e tanto meno benevolo, che lascia trasparire ad ogni riga il livore di fazione anziché il doveroso distacco che si addice allo storico. Per non parlare, poi - naturalmente - del destino toccato al filosofo Giovanni Gentile, assassinato per la colpa di aver invocato la riconciliazione fraterna tra gli Italiani, nell’ora dell’estremo pericolo e dell’estrema sciagura nazionale.
Nel 1990 il comune del Frasca, Vittoria, in provincia di Ragusa, ha pubblicato in onore del critico da poco scomparso un volume antologico dei suoi scritti, accompagnati da importanti contributi di Nino Bentivegna, Francesco Ereddia, Gesualdo Bufalino e del filologo classico Virgilio Lavore. Peccato che l’iniziativa sia finita lì e che nessuna grossa casa editrice abbia ritenuto di trarne spunto per ripubblicare qualche scritto completo del Frasca; ma, si sa, in Italia le case editrici, proprio come fanno le banche, sono sempre pronte a correre in aiuto del vincitore, ma non tirano fuori un quattrino quando si tratta di correre un minimo di rischio.
Nel dopoguerra Luigi Frasca, dopo un periodo di silenzio e di disgusto, tornò alla politica, impegnandosi dapprima nelle elezioni per il referendum istituzionale, come indipendente nell’area del Partito Socialista: le sue fiere convinzioni repubblicane erano state rafforzate e, diciamolo pure, esacerbate dall’ignobile tradimento del re Vittorio Emanuele III nei confronti di Mussolini, il 25 luglio del 1943. Non si trattò comunque di una operazione ambigua e tanto meno di un voltafaccia, tant’è che perfino nella Sicilia del 1943-46, satura di veleni politici, tra mafia e separatismo, nessuno osò pronunciare una parola di biasimo nei confronti del Frasca, tanto era unanime il riconoscimento del suo disinteresse e della sua assoluta onestà morale.
Del resto, solo una visione manichea della recente storia d’Italia potrebbe indurre qualcuno a credere che, nel 1945, i “buoni” e i “cattivi” fossero distinguibili in maniera netta, in base al fatto di avere aderito al fascismo o di essere sempre stati, apertamente o magari occultamente (la cosiddetta “emigrazione interna”, alla Benedetto Croce!) antifascisti. La verità è che molti intellettuali come Frasca erano sempre stati convinti e sinceri fascisti di sinistra; citiamo, a titolo d’esempio, un altro intellettuale siciliano, quel Concetto Pettinato - che, però, nel dopoguerra aderì al Movimento Sociale Italiano-, del quale ci siamo altre volte occupati. Per loro, il fascismo “vero” era pur sempre quello degli inizi, quello di Piazza San Sepolcro: sociale, antiborghese, rivoluzionario; il successivo regime non ne era stato che l’imbalsamazione e la contraffazione.
Per uomini così, il successivo passaggio nell’area dei partiti di sinistra non fu affatto una operazione opportunistica (lo fu, forse, per scrittori come Curzio Malaparte), perché in essi trovarono quegli stessi valori per i quali si erano impegnati e, in alcuni casi - come quello di Berto Ricci - avevano anche dato la vita, chiedendo di andare a combattere al fronte, in prima linea. Del resto, c’è bisogno di ricordare che un filosofo come Ugo Spirito, da sempre vicino all’idea corporativa, visse una analoga parabola intellettuale ed umana, all’indomani della seconda guerra  mondiale?
Scriveva, dunque, Luigi Fresca nel suo «Taccuino di un Italiano», nei tragici mesi dell’estate 1943 (in: L. Frasca, «Scritti scelti», Comune di Vittoria,  a cura dell’Assessorato alla P. I. e alla Cultura, 1990, pp. 34-50, passim:

«(19 luglio) …E se il novantanove per cento degli iscritti al Partito non fossero stati una massa miserabile e putrida di funzionari corrotti dei impiegati camorristi, di professionisti opportunisti, di commercianti ladri, di artigiani disonesti, di agricoltori dalla mentalità borbonica, e, sembra incredibile, di gerarchi traditori della causa, insomma di infedeli paurosi di dire la verità solo perché la verità li avrebbe costretti a mettere a nudo la loro individuale e collettiva  miseri ae sporcizia morali, troppi mali che per troppo tempo furono coscientemente e deliberatamente taciuti e subiti e imposti, sarebbero stati prontamente diagnosticati e spietatamente curati ed estirpati prima che potessero tramutarsi nelle fistole purulente che hanno fatto incancrenire il corpo del fascismo. […]
(25 luglio) La tragedia di questi giorni sarà per gl’italiani una di quelle lezioni solenni e salutari da cui escono rinnovellati i popoli?
Impareranno gl’italiani ad essere finalmente più onesti, disciplinati, seri, organizzati, più, insomma, popolo?
È sperabile, ma c’è anche da dubitarne.
Temo fortemente che noi siamo davvero, in fondo all’anima, quel che Mussolini voleva che non fossimo assolutamente: un popolo di canzonettieri e di mandolinisti, di sorridenti accattoni paghi di stender la mano e al turista divertito perché vi lasci cader su qualche dollaro o sterlina. […]
(30 luglio) Molti, moltissimi fanno confusione tra fascismo e partito. […]
Il fascismo è un’idea, il partito una realtà concreta. Come tutte le idee che si fanno realtà concrete, il fascismo ha perduto, nel suo concretarsi  in partito, la purezza, l’altezza, la maestà con cui e per cui  s’impose, nel suo sorgere, al rispetto e all’ammirazione di quegli italiani che, mirando al di là e al di sopra delle miserie di parte, ne fecero un sinonimo particolarmente suggestivo  e trascinatore di Italia, di Patria. […]
Qual era il comandamento di Mussolini?  “Servire il fascismo, non servirsene” (20 maggio 1923); “Quando si occupano posti eminenti del Partito o del Governo, si deve tenere una condotta che non dia luogo ad osservazioni” (24 dic. 1924) “Per essere all’altezza della propria missione il fascista … deve - soprattutto - essere disinteressato, per dimostrare in ogni momento che tutto ciò che riguarda  la sua attività privata  è completamente estraneo alla sua funzione politica” (5 aprile 1929); “Non sarà mai abbastanza ricordato che il fascismo ha una duplice somma di doveri da compiere, nel confronto degli altri cittadini. In ogni seduta del Gran Consiglio non sono mancati appelli a capi e gregari perché fossero e siano degni della Rivoluzione”. […]”Il gerarca deve avere in sé, moltiplicate, quelle virtù che egli esige dai gregari.  E le virtù del gerarca sono:  senso del dovere, spirito di sacrificio,  assoluto disinteresse, coraggio fisico e morale” (28 ottobre 1937); e si potrebbe continuare con le citazioni.
Purtroppo - e questo Mussolini lo sapeva bene - “le insurrezioni, come tutti i grandi movimenti sociali, mettono insieme i buoni e i cattivi, gli asceti e i violenti, per lucro, gli idealisti e i profittatori; [essendo] la selezione degli individui, secondo la loro capacità e la loro probità,  assai difficile a farsi in tempi eccezionali” (24 giugno 1924).
A parte il fatto che i tempi in cui Mussolini è stato al governo d’Italia sono stati tutti “eccezionali”, sarà bene ricordare, soprattutto, che i fascisti erano, prima ancora che fascisti, italiani di tradizione, d’educazione, di costume;  ora il livello morale e politico della tradizione, dell’educazione, del costume degli italiani, è, riconosciamolo onestamente, basso, assai basso; Mussolini cercò di fare, in ventuno anni di regime, quel che poté;  ma l’impossibile - fare cioè degli italiani, anche portavano il distintivo, un popolo onesto, disciplinato, serio, cosciente, che abbia il senso del dovere e del sacrificio in sé  e per sé - era impossibile. […]
(2 agosto) … Un movimento nato rivoluzionario si erra fossilizzato infatti in un partito ch’era in realtà  una sorta di fritto misto in cui si trovavano a contatto  di gomiti ma divisi da distanze astronomiche nell’intimo, i conservatori più feroci, i borghesi dell’anima, i più alieni, per natura e per educazione, da una visione rivoluzionaria della vita, e i rivoluzionari veri, coscienti, gli spiriti inquieti bramosi di riforme  radicali nelle istituzioni, nel costume,  nell’educazione del popolo italiano. […]
Il problema primo, centrale del partito, è stato un problema di uomini; i quali son o stati, in generale, indegni o inetti, o, nella migliore delle ipotesi, impari al compito loro affidato.
Troppi gerarchi di tutti i calibri hanno fatto del loro meglio,  con una tenacia e una meticolosità degne veramente di una miglior causa, per disonorare, infangare,  tradire e pugnalare, giorno per giorno,  metodicamente, Mussolini alla schiena, tanto più agevolmente quanto più Mussolini era preso  da problemi di politica estera e militari di colossali proporzioni e quindi, necessariamente, più distratto dai problemi interni.
Anche a questo proposito credo di poter affermare che Hitler è stato più fortunato di Mussolini; non soltanto Hitler ha potuto contare su un popolo ch’era infinitamente più popolo di quello italiano, ma non ha avuto attorno, come collaboratori e dipendenti, una catena di inetti e di infedeli.
Ciò aiuta moltissimo, credo, a spiegare  perché mai il fronte interno tedesco  sia così saldo dopo quattro anni di guerra, e perché mai sia, invece, così debole, dopo tre anni di guerra, il fronte interno italiano. […]
Il popolo italiano è, in verità, troppo lontano dalla serietà morale e alla maturità politica che caratterizzano altri popoli a noi amici o nemici; è un popolo, Ancora, nazionalmente maleducato, per non dire ineducato; tuttavia,  una certa sfera di libertà, entro limiti intelligenti e ragionevoli, sarebbe bene dargliela, nell’interesse stesso del Regime e della Nazione; l’avergli voluto negare codesta ragionevole sfera di libertà  ha finito col far sì che stanco di ventuno anni di baliatico  divenuto, a lungo andare, mal sopportato,  dopo aver cominciato a dar segni d’impazienza palese  e quasi di una sorta di resistenza passiva, che si è manifestata, a mio modo di vedere, in un quotidiano sabotaggio  a discorsi o a piccoli fatti - della guerra, nella quale non sa vedere la sua guerra ma la guerra di Mussolini, esso sia esploso  in quel senso di soddisfazione aperta per l’invasione anglo-americana de suolo italiano che ha significato, di fatto, il crollo del Regime.
Conclusione, questa, estremamente ironica, se la si osservi sforzandosi d’inquadrarla  in uno sfondo storico: un movimento che, sorto  col compito di legare in fascio attorno a sé  t6utte le forze della Nazione con una volontà di potenza e d’impero,  divenuto Partito e consolidatosi in Regime, , finisce, per la inettitudine o corruzione  o disonestà di troppi suoi uomini, con l’apparire quasi l’antitesi della Nazione, sì che larghe categorie d’italiani, pur di scrollarne il giogo,  non si vergognano di confidare nella sconfitta della Patria  e nel trionfo del nemico!” […]
(3 agosto) [Il 25 luglio 1943] ha due facce:una drammatica e una farsesca.
La faccia drammatica è data da crollo di Mussolini, il quale,  comunque, cadendo, non soltanto non rinnega la sua opera politica (basti tener presente il discorso al Direttorio del Partito  del 24 giugno scorso, in cui rivendicava pienamente  la sua parte di responsabilità nel presente conflitto) ma non perde nulla della sua altezza ideale; la faccia farsesca è data dall’improvvisa quanto tardiva resipiscenza costituzionalista savoina.
Ora, per quanto basso possa essere il livello dell’educazione politica degli italiani, crede davvero Vittorio Emanuele III che i suoi troppo fedeli sudditi  siano anche così babbei da non capire che l’odierna mossa del re che ha lasciato fare per ventuno anni  non è altro che un miserevole quanto inabile tentativo  di scaricare su Mussolini una responsabilità che, se c’è veramente, è anche e soprattutto sua,  di lui re anticostituzionalista  ieri e ipocritamente costituzionalista oggi?
È inutile che il suo fedele Badoglio propini agl’italiani la quotidiana pietosa razione di rassegna  della stampa tutta osanna alla corona - simbolo di tradizione e dei valori  della Nazione del rispetto alla costituzione ecc. ecc. - e crucifige a Mussolini - che lascia all’attuale governo e all’Italia  la triste eredità di una guerra ecc. ecc.
Non è con questi pilateschi diversivi  che la monarchia può salvare il suo prestigio e la sua dignità irrimediabilmente perduti.
Aveva il re o non aveva il diritto e il dovere  di sapere se questa guerra si doveva fare nell’interesse della Nazione?
E il giovane ispettore delle Forze Armate dell’Italia centro-meridionale e insulare, Umberto di Savoia, che cosa aveva ispezionato in tre anni, se per accorgersi che la nostra difesa  era insufficiente ha dovuto aspettare che tre quarti della Sicilia fossero nelle mani del nemico?
È troppo comodo, quando il paese scricchiola sotto i piedi e la corona traballa sulla testa, additare al disprezzo e alla maledizione  di un popolo un uomo cui, dopo tutto,  la monarchia savoina deve l’ora più luminosa, anzi la sola ora veramente grande della sua storia.
Da questo dilemma on si esce: o Mussolini ha svolto, per ventuno anni,  una politica, all’interno e all’esterno, di giovamento agli interessi della nazione, e in tal caso, allora, la monarchia, che per ventuno anni se n’è servita, è incredibilmente  vile se nell’ora del pericolo lo pugnala alla schiena; o Mussolini per ventuno anni  ha svolto una politica nociva, all’intermo e all’estero,.  Agli interessi della nazione, e in tal caso,  allora, la monarchia è incredibilmente vile  se ha dovuto attendere l’ora del pericolo per decidersi  a venire a patti con la nazione per ventuno anni tradita, buttandole in pasto la miserevole soddisfazione di veder sbalzato  di sella il dittatore e la promessa  di un ritorno alla costituzione; nell’un caso e nell’altro la monarchia si è coperta di tanta infamia  che a cancellarla non basta tutto l’inchiostro dei giornalisti  che forniscono a Badoglio i quotidiani sbandieramenti  di omaggio alle virtù savoine. […]
(5 agosto) Quelli che la mattina del 10 luglio  si sono affrettati a fare pubbliche sconfessioni della fede che ostentavano  di professare fino alla serra del 9  e quelli che dopo aver fatto i pecoroni fino alla sera del 9  son diventati di punto in bianco eroi la mattina del 10 sono ugualmente privi no  soltanto di dignità politica ma addirittura di dignità morale.
Gli uni e gli altri costituiscono la inevitabile schiera  di buffoni e di carogne che fiorisce  ai margini di tutte le fedi, sulla scia di tutti gl’ideali. […]
(12 agosto) Quelli che non perdoneranno mai alla monarchia di aver pugnalato alla schiena Mussolini il 25 luglio  e quelli che non le perdoneranno mai di aver fatto subire al’Italia due decenni di dittatura, pur se  partiamo da premesse diametralmente opposte, ci ritroviamo  a un medesimo punto di arrivo:  eliminazione della monarchia. […]
(4-5 sett.) Cade l’ultima illusione: quella politica.
Quando anche questa sarà del tutto crollata, allora sarò davvero come chi ha tutto perduto.
È uno smantellamento si direbbe, metodico, razionale, quotidiano, da parte della realtà  sempre ostile. Cadute, sotto la spinta dell’avversità, tutte le mie illusioni di carattere individuale,  personale, propriamente e soltanto mie,  cadono anche quelle che, per essere meno mie e più generali, potevo ritenere  quasi più realizzabili e più degne, in ogni modo, più disinteressate.
E domani?
Quale sarà il domani?
Non per me soltanto, ma per tutta questa umanità  presa, direttamente o indirettamente, nel vortice della guerra.
Non sarà la nostra la più infelice tra le generazioni infelici, la “generazione infelice” per antonomasia?
Non è soltanto il mondo materiale che va sgretolandosi e  sconvolgendosi; c’è una desolazione più tragica,  irrimediabile che infierisce: è la desolazione  nella quale son piombati gli animi, naufraghi senza speranza in un mare  così tempestoso e buio che i vecchi strumenti  di bordo non giovano più alla navigazione, come un tempo.»

Questo è l’uomo, queste le sue idee.
Si può dissentire da queste ultime, naturalmente; in particolare, si può dissentire dall’interpretazione del fascismo come di un ideale sovrastimato rispetto al livello morale del’Italiano medio, affetto da una inveterata propensione a suonare servilmente il mandolino per la gioia di turisti sprezzanti; ovvero come di un estremo tentativo di fare degli Italiani un popolo, cosa che né il Risorgimento, né la classe dirigente liberale e la partecipazione alla prima guerra mondiale, da essa voluta, avevano saputo o potuto fare.
Si può dissentire, dicevamo: ma difficilmente si può mettere in dubbio che tale analisi sia pervasa da una ardente, onestissima idealità patriottica.
Per cui, la domanda che sorge inevitabile è se l’Italia sia poi così ricca di figure d’intellettuali dritti e onesti, animati da sincero amore per il bene comune, da potersi permettere di ignorare uomini come Luigi Frasca, da espungerne i nomi dalle enciclopedie e da tributare, invece, alte lodi a delle eccellenti mediocrità, il cui merito principale risiede nel tempismo con cui sanno fiutare la direzione del vento e trovarsi sempre dalla parte politicamente corretta della barricata, in quella eterna gabbia di fazioni scatenate che è il nostro Paese.