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Belpaese declassato dal mondo

di Roberto Zavaglia - 21/03/2010

Mentre la nostra classe politica è impegnata in tutt'altro genere di discussioni, l'Italia rischia di perdere importanza, peso e prestigio in un mondo i cui equilibri sono in fase di ridefinizione. Lo afferma il rapporto elaborato dall'Istituto Affari internazionali (Iai) e dall'Istituto per gli Studi di politica internazionale (Ispi) di cui il Corriere della Sera ha anticipato, mercoledì scorso, alcuni passaggi. Intitolato "L'Italia e la trasformazione dello scenario internazionale", il documento, curato da Gianni Bonvicini e Alessandro Colombo, analizza il ruolo del nostro Paese alla luce della crisi del processo di integrazione europeo, della fine della cosiddetta rendita di posizione di cui godevamo durante la Guerra fredda e dell'emersione di nuove potenze. 
  Il declassamento, oltre che da ragioni strutturali, è originato, secondo il rapporto, dallo modesto  impegno che i governi dedicano alle questioni internazionali, testimoniato dagli scarsi investimenti per la politica estera e per la Difesa. Continuiamo, per esempio, a inviare migliaia di soldati in missioni all'estero, ma spendiamo poco e male per il nostro esercito, con il conseguente rischio di venire esclusi "nelle assise che intervengono per garantire la sicurezza internazionale".  Ci manca, soprattutto, una strategia con la quale scegliere gli obiettivi, privilegiando quelli che hanno a che fare con il nostro interesse nazionale e rifiutandone altri che non ci competono. Se dobbiamo fare degli esempi, possiamo constatare come le missioni di stabilizzazione in Albania siano state, al tempo, un esempio di corretto e tempestivo intervento per scongiurare l'improvviso collasso di un Paese vicino, evitando le ricadute negative, soprattutto nei termini di un'immigrazione ancora più massiccia sul nostro territorio nazionale. In Afghanistan, viceversa, abbiamo deciso recentemente di aumentare il nostro contingente, impiegando risorse finanziarie imponenti rispetto al bilancio della Difesa, senza avere chiaro lo scopo della nostra missione e non possedendo alcuna voce in capitolo né sulle decisioni belliche né su quelle politiche.
  Per convenzione, si ritiene che l'Italia sia una cosiddetta "media potenza", ma raramente ci si chiede cosa ciò significhi, quali doveri e quali profitti siano impliciti in questa definizione. Oggi, la situazione è molto meno chiara per tutti gli attori internazionali, ma la nostra classe dirigente pare non preoccuparsene. Durante la lunga fase del confronto bipolare, l'Italia, dal punto di vista della sovranità nazionale, era poco più di un protettorato Usa. Avevamo delegato quasi completamente a Washington la nostra sicurezza, rinunciando con ciò a una vera autonomia politica nelle questioni internazionali. Con la perdita di uno degli elementi decisivi dell'autorità dello Stato, abbiamo potuto risparmiare risorse in ambito militare, dovendo però subire pesanti intromissioni dell' "alleato" nei nostri affari interni. Al di la' dei vari responsi giudiziari, si spiegano così, sul piano politico, le tante trame occulte che hanno turbato, e spesso insanguinato, la vita del Paese durante la Prima Repubblica.
  Dai tempi della Guerra fredda ci separa, però, una fase successiva che è andata esaurendosi in questi ultimi anni. Dopo l'implosione dell'Urss, sembrò a molti osservatori che l'iperpotenza Usa  fosse destinata a "disciplinare" l'intero pianeta nel suo nuovo ordine mondiale, non incontrando resistenze di rilievo. La Nato si estendeva nell'Est europeo, giungendo ai confini russi, senza che Mosca fosse in grado di opporsi; l'Unione europea, con il suo "allargamento", provvedeva a rendere più omogenei, dal punto di vista economico e sociale, i nuovi appartenenti al club occidentale. Per l'Italia, le cose non sembravano cambiate di molto, avendo conservato il medesimo referente politico (Washington) ed economico (Bruxelles). Oggi, però, il sistema internazionale è di nuovo cambiato. E' diventato più "vasto", con la presenza di nuovi protagonisti che ambiscono a una parte di rilievo, e, di conseguenza, meno "regolato" o addirittura, come alcuni sostengono, tendenzialmente anarchico, senza un vero centro equilibratore.     
  L'Italia, da media potenza, ammesso che lo sia effettivamente stata, potrebbe essere declassata a Stato periferico di scarso rilievo politico. Un conto è, per esempio, fare parte dell'organizzazione che raduna i 7 o 8 Paesi più importanti del mondo, un altro è vedere il proprio peso diluito in un G20 in cui sono entrate nazioni gigantesche in rapida crescita economica. L'unica risposta coerente che i nostri governi hanno fornito, di fronte a questi mutamenti di scenario, è stata la decisione di continuare ad opporsi all'allargamento del Consiglio di Sicurezza a singoli nuovi Stati, invocando una riforma più vasta e meno punitiva per il nostro status.
  Anche le conseguenze della grande crisi economica e finanziaria, probabilmente, contribuiranno a stabilire nuove gerarchie fra gli Stati. L'Italia, pur gravata da un pesante debito pubblico, potrebbe uscirne in modo meno disastroso di altri Paesi. Si è infatti capito che, per valutare la situazione finanziaria di una nazione, occorre considerare anche i debiti privati che, talvolta, lo Stato è costretto a ripianare. Da questo punto di vista, l'Italia è messa decisamente meglio della maggior parte dei Paesi occidentali e, inoltre, le sue banche hanno fatto minore ricorso alle spericolatezze della finanza creativa. Nel discorso pubblico, i fattori di forza e quelli di debolezza del nostro Paese, rispetto ad alleati e competitori, trovano comunque ben scarsa attenzione. Sembra che tutto il gran parlare di globalizzazione abbia diffuso la convinzione che il destino dell'Italia, in quanto Stato, abbia scarsa importanza e possa bastare un "governo minimo", essendo le questioni più importanti governate solo da dinamiche globali.
  La stessa crisi finanziaria ha, però, mostrato che sono gli Stati a dovere intervenire nei momenti decisivi, confermando come la previsione sulla totale eclissi dei loro poteri sia lungi dall'avverarsi. In Italia ci si prepara, invece, a celebrare il centocinquantesimo anniversario dell'unificazione senza un vero dibattito sull'identità del Paese e sul suo ruolo nelle relazioni internazionali. Accanto agli omaggi di maniera dei vertici istituzionali, tocca sentire, più che altro, le sbrigative e rozze condanne dei nuovi sanfedisti di vario colore contro l'unità della nazione, nel rimpianto dei tempi in cui l'Italia era solo un'espressione geografica. Non invochiamo certo una nuova agiografia del Risorgimento, ma vogliamo sottolineare come occorrerebbe partire dal passato, rivisitando progressi ed errori, per interrogarsi sul senso dell'Italia come Stato, sul suo ruolo attuale e sul suo destino futuro. Altrimenti, nel mondo che cambia, conteremo sempre di meno, a prescindere da quale delle due fazioni del nostro triste panorama politico attuale finisca per prevalere.