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Il potere crepuscolare degli Usa

di Fabrizio Fiorini - 22/03/2010


Quanta violenza può contenere un soffio? Quanta disperazione un sussurro?

G. L. Ferretti

La politica sussurrata dell’Amministrazione degli Stati Uniti d’America, intrisa di un pacifismo d’accatto buono per gli sciocchi e di una melensa moderazione calibro nove, si inserisce in un progetto e in delle linee di programma ben previsti e programmati anzitempo.

L’elezione di Barack Hussein Obama alla presidenza della più grande impresa commerciale armata della storia è stata infatti, a meno di voler credere alla favola della democrazia americana, la consapevole e riparatrice manovra messa in atto dal sistema istituzionale e coloniale residente a Washington al fine di arginare una pericolosa deriva che aveva spinto gli apparati politici e militari a stelle e strisce pericolosamente vicini a un punto di non ritorno che avrebbe drammaticamente (o meglio: finalmente) accelerato il processo di decadenza in cui la superpotenza d’oltreatlantico è ormai irrimediabilmente precipitata. Una manovra che – come tutti i colpi di coda che si rispettino – si sta dimostrando più perniciosa che mai.

Il primo decennio del nuovo secolo aveva visto trascinarsi stancamente sulla scena internazionale gli ultimi residui della dottrina Brzezinski del new american century, caratterizzata da una politica di forza che (a qualunque costo, anche a quello della vita di migliaia di connazionali sacrificati negli auto-attentati dell’11 settembre) avrebbe dovuto apporre il sigillo sull’incontrastata preponderanza unilaterale degli Stati Uniti su tutti i popoli e su tutti gli Stati del pianeta. Fortunatamente la tracotanza e l’infondata supponenza di superiorità, che hanno storicamente caratterizzato la prassi della politica estera nordamericana negli ultimi secoli, spesso costringono a mettere il piede in fallo.

Cadute l’Unione Sovietica e le strutture politiche e militari che a questa facevano riferimento, gli Stati Uniti d’America hanno dovuto fare fronte – a partire dai primi anni Novanta – a un vertiginoso calo della loro popolarità internazionale che non riusciva a essere arginato neanche dalla consueta martellante propaganda su cui possono contare grazie all’asservimento della maggior parte dei mezzi di comunicazione in gran parte dei Paesi del mondo. Il rischio di isolamento era concretamente espresso anche da insospettabili e allineati uomini politici d’Occidente, che semplicisticamente sostenevano la teoria secondo cui alla dissoluzione dell’Urss dovesse corrispondere un ridimensionamento dell’influenza e dell’ingerenza statunitense sugli Stati a loro alleati, a partire dalla stessa Europa atlantica.

Ben lungi dal voler segnare il passo, il potere statunitense fece allora ricorso a quella componente della sua supremazia planetaria su cui poteva fare ampiamente affidamento: la forza militare. Sospinta anche da una crisi economica che rendeva necessaria la crescita del settore bellico, degli armamenti e del loro indotto, la potenza americana scatenò e intraprese una serie di conflitti di rilevanza tanto regionale quanto internazionale che avrebbe dovuto puntellare la loro egemonia. Il nuovo nemico era da individuarsi innanzitutto nel vicino e medio oriente, e non si può certo accusare Washington di aver perso tempo: la prima guerra del Golfo fu combattuta quando formalmente a Mosca ancora risiedevano i soviet. Poi fu la volta di mettere definitivamente a tacere le residuali istanze di libertà e indipendenza dell’Europa: le migliaia di tonnellate di bombe vomitate sulla Jugoslavia furono sufficiente monito. Non furono disdegnate manifestazioni di forza neanche in teatri apparentemente secondari: le Filippine, il sud-est asiatico, l’Africa.

Non occorre scomodare Von Clausewitz per comprendere come un’esposizione militare di tale portata richiedeva, per poter conseguire una pur improbabile vittoria, la più totale quiete nelle retrovie. Per coronare di successo i loro progetti criminosi gli Stati Uniti avrebbero necessitato infatti di una crisi della potenza imperialista concorrente, la Cina liberale e parasocialista, di un occultamento della potenza continentale russa, della mansuetudine dell’America latina e di un tracollo militare dei movimenti di resistenza e degli Stati medio orientali. Tutte opzioni che, per quanto verosimili nel 1990, solo pochi anni dopo si sarebbero rivelate nient’altro che un sogno bagnato e delirante di una superpotenza in rovina.

Lo ’scorno’ più grande, per gli illuminati strateghi e per la soldataglia yankee, è stata di dover soccombere alle conseguenze delle mostruosità da loro stessi generate. La Cina si è rafforzata grazie al sistema finanziario e monetario internazionale posto in essere dai medesimi Stati Uniti, che ora hanno anche il pessimo gusto di lamentarsene; il vicino e medio oriente non si è lasciato cogliere impreparato (politicamente e militarmente) grazie allo stato di tensione permanente in cui è stato per decenni costretto dalla potenza atlantica per via dell’incondizionato sostegno da questa conferito allo stato sionista e guerrafondaio; l’America del sud, dagli Stati Uniti ingenuamente trascurata e considerata ‘partita chiusa’ (non sono poi così scaltri), si è unita in un movimento istituzionale di sovranità e indipendenza che ha trovato la sua maggior forza propulsiva nell’opposizione allo sfruttamento e alle violenze cui la lunga mano di Washington l’aveva sottoposta per lungo tempo; non ultima la Russia, che – lontana dall’intenzione di sviluppare una politica di ingerenza nei confronti di Stati terzi, pur nel rispetto della sua missione transcontinentale di fulcro geopolitico eurasiatico – si è trovata a dover fare di necessità virtù, replicando con una rinnovata (e straordinariamente pacifica) politica di forza alle incursioni statunitensi in Asia centrale e in Europa orientale.

A questa sonora débâcle, la bestia ferita della potenza americana ha tentato di porre rimedio con una nuova linea si sviluppo sommesso della prassi imperialista, contraddistinto da una riduzione delle imprese armate, da un rientro nei ranghi, da una apparente e mendace volontà di distensione, e dalla costante e mediaticamente appariscente azione diplomatica. Insomma, la “linea Obama”. Come se volessero ricaricare la molla per poi tentare un’altra sortita, un’altra ondata di violenza: cosa che verosimilmente faranno. Nel frattempo spacciano gli avvoltoi per colombe, e mettono in campo le armi bianche: rivoluzioni colorate, sobillazione di sommosse, propaganda, destabilizzazione e sostegno a regimi tirannici e antipopolari e alle politiche violente del sionismo.

Nulla di più vero, però, del fatto che la bestia ferita aumenti esponenzialmente la sua pericolosità. La loro strategia è precaria e confusa, tipica di chi, pur di conservare le proprie posizioni, non si rende più conto della portata e delle conseguenze spesso autolesionistiche delle proprie azioni. Alle suddette velleità di distensione si alternano – trovandosene costretti – spaventose impennate di violenza armata e incremento di truppe nei teatri di conflitto; azioni militari contraddistinte da una miope e fallace strategia che si concludono naturalmente con l’impantanamento delle loro forze armate, col loro logoramento e con le sonore scudisciate che vengono loro inflitte dagli uomini liberi che – con loro sommo disappunto – si ostinano, in tutto il mondo, a opporre incrollabile resistenza alle invasioni, agli assassini, ai bombardamenti, ai rastrellamenti, all’imbarbarimento, alle torture, allo sfruttamento, alla morte di cui si fanno portatori.

La loro potenza non è eterna. A chi, nel 1985, avesse pubblicamente proclamato che l’Unione Sovietica sarebbe scomparsa da lì a cinque anni, molti avrebbero consigliato un controllo neurologico. Certamente la loro fine sarà differente, e sarà caratterizzata da un lungo e lento declino. I popoli di quello che – con malriposta superbia – continuiamo a chiamare terzo o quarto mondo, sono già pronti per riappropriarsi della libertà che gli spetta. Drammatica invece la situazione qui, nella civile e sviluppata Europa, che continua a ‘brillare’ per la sua inconsistenza politica e per il suo contestuale asservimento alle direttive della discendente potenza americana. Che non esiterà a succhiare il suo sangue fino al midollo, ad aggrapparvisi come ci si aggrappa all’ultimo ramoscello, spogliandolo ed eradicandolo fino a portarlo con sé nella definitiva e inevitabile caduta nel baratro.

Ai popoli d’Europa spetta il gravoso e immane compito di svegliarsi dal loro narcotico torpore e di festeggiare il loro giorno della liberazione. Si è ancora in tempo, ma il tempo non ci aspetterà.