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Così la vita è diventata post-crescita

di Roberto Festa - 22/03/2010




La fine della corsa all´acquisto sfrenato e l´emergere di un nuovo tipo di consumatore, più attivo e responsabile. Nel suo ultimo saggio, Giampaolo Fabris fotografa la società al tempo della crisi
Si affitta di tutto, dal passeggino all´abito da sposa e il fashion victim tende a scomparire Le considerazioni etiche orientano spesso chi compra: ecco il successo del biologico Oggi la scelta di un´auto ibrida o di bere l´acqua del rubinetto sono veri gesti identitari


«È finita l´era della crescita bulimica. La decrescita è impossibile. Stiamo entrando nella fase della post-crescita». È una vita che Giampaolo Fabris si occupa di consumi e stili di vita. Sin da quando, giovane professore di sociologia a Trento e vicino al Pci, predicava il valore liberatorio dei consumi, e otteneva in cambio da colleghi e compagni di partito ironia e diffidenza. «In Italia, a sinistra, ha dominato una cultura catto-comunista che esaltava la produzione, il lavoro, e relegava al privato la questione dei consumi. Come se gli stili di vita fossero inessenziali». Oggi, un centinaio di pubblicazioni e diversi incarichi dopo (professore allo IULM e al San Raffaele, presidente della Triennale), Fabris torna al tema prediletto e coglie la società italiana in una fase di passaggio, di ripensamento critico ma anche di straordinarie opportunità. Il suo ultimo libro, La società post-crescita. Consumi e stili di vita (Egea, pagg. 421, euro 26,50), racconta la fine della corsa agli acquisti, delle case riempite di ogni genere di bene inutile, dei desideri moltiplicati all´infinito. E l´emergere di una nuova figura di consumatore, o consumattore, più attivo, cosciente, responsabile rispetto al passato.

Giampaolo Fabris, che sta succedendo?

«Succede che la crisi ha accelerato un processo in corso ormai da anni. L´aumento dei consumi non produce più maggiore felicità. C´è stata una fase, conclusa alla fine degli anni Novanta, che ha portato nelle nostre vite una serie di beni che ci hanno consentito di vivere meglio. Poi c´è stato un salto quantico, e siamo passati alla società dell´iperconsumo, in cui i bisogni si riproducono incessantemente. Cambiamo il cellulare in media ogni undici mesi. Ci buttiamo sull´ultima generazione di computer. Riempiamo gli armadi di vestiti e maglioni che non indosseremo. Tutte le ricerche dicono però che questa bulimia non ha prodotto più felicità. La curva del consumo, e quella del benessere, si sono separate».

La soluzione è consumare meno?

«La soluzione che si sta imponendo è consumare in modo diverso. Riproporre una società frugale può essere ammirevole, ma è elitario, anacronistico. Indietro non si torna. La tendenza oggi è quella a un consumo più critico. Non è la quantità, ma la qualità, a fare la differenza. L´individuo-consumatore crede che il consumo rappresenti una parte importante di sé, e agisce di conseguenza. La scelta di un´auto ibrida, o di bere l´acqua del rubinetto, sono veri e propri atti identitari».

Che conseguenza ha avuto questo nuovo atteggiamento nei consumi?

«Il fatto inedito è soprattutto uno. Proprio perché atto di identità, il consumo si lega ormai a considerazioni etiche, politiche, pubbliche. Le faccio l´esempio dei prodotti alimentari biologici, non toccati dalla crisi delle vendite, nonostante costino il 10-12% in più rispetto a quelli normali. In un primo tempo, la motivazione che spingeva all´acquisto del biologico era legata soprattutto alla salute. Mangio biologico perché fa meglio. Oggi chi compra i prodotti della terra lo fa perché sono all´insegna della biodiversità, di un´agricoltura non di tipo estensivo. La soddisfazione immediata del bisogno non c´entra più. Stesso discorso per i cosmetici. Fino a qualche anno fa, tutto quello che era chimico, di sintesi, era privilegiato. Oggi è la naturalità che vende. Penso a catene come Occitane, o Body Shop. La riscoperta della natura, del mondo contadino, il rapporto con il territorio sono motivazioni che orientano fasce sempre più larghe di consumatori».

Il consumo etico e responsabile punisce, oltre a premiare?

«Certo. Alcuni anni fa, ai tempi dello scandalo Parmalat, feci una serie di ricerche. Scoprii che il consumatore, anche se non coinvolto direttamente nel crack dell´azienda, era arrabbiatissimo.
Non aveva perso nulla, in termini economici, monetari. Ma aveva perso la fiducia».

Altri segnali di questo mutato stile di vita?

«Gli sprechi. La diminuzione delle spese alimentari si spiega anche con la riduzione degli sprechi. La durata. Quando acquistiamo un prodotto, valutiamo di più l´elemento della durata. Un po´ come facevano le nostre nonne. Il risparmio. Il consumo di acque minerali diminuisce perché cresce la consapevolezza che una bottiglia che fa 1000 km per arrivare sulla nostra tavola, consuma energia. L´autonomia. Il consumo critico è segnato da una maggiore autonomia dai marchi. Vestirsi diventa come comporre un palinsesto. La figura della fashion victim tende a scomparire. E ancora, l´affitto, l´accesso, la condivisione. Oggi si affitta tutto, dal passeggino per i bambini all´abito da sposa. Perché devo comprare un oggetto che mi serve poco e poi occupa spazio in casa?».

Quanto è stata importante la Rete nell´emergere di questa nuova figura di consumatore?«Non è stata importante. È stata fondamentale. La Rete esplode di blog, commenti, dibattiti sui consumi. La Rete rilancia richieste e diritti dei consumatori. La mamma di un bambino autistico, maltrattato alla Carrefour di Assago, consegnò alla Rete la sua protesta. Dovette muoversi l´amministratore delegato di Carrefour, per limitare lo scandalo».

Le imprese hanno registrato le novità?

«Pochissimo. È per esempio incredibile che le aziende alimentari italiane non siano all´avanguardia nei prodotti biologici. In giro c´è pochissima coscienza dei cambiamenti avvenuti. Ho partecipato a una riunione tra sindaci, imprese, istituzioni del Monferrato. Ho proposto di rendere la zona la prima ogm free d´Italia. I benefici, economici, turistici, ambientali, sarebbero enormi. Non ho ottenuto alcuna risposta».

All´estero è meglio?

«Senza dubbio. Walmart, la più grande impresa al mondo, ha per anni devastato l´ambiente e imposto condizioni di lavoro scandalose. Oggi è diventata, con i suoi fornitori, la più vigorosa interprete di richieste di qualità. Lo fa mossa da ragioni morali? No. Lo fa perché conviene».

Quali saranno in futuro i beni più richiesti?

«Quelli relazionali. Quelli che aumentano la partecipazione. In questo senso sarebbe fondamentale il ruolo delle istituzioni pubbliche. Pensiamo solo cosa potrebbe essere fatto nelle piazze d´Italia. Pensiamo come potrebbero essere trasformate le nostre stazioni. In realtà, non si fa nulla. L´ex sindaco di Milano Albertini diceva di essere come un amministratore di condominio…».

Un´ultima cosa. Che opportunità offre alla sinistra questa nuova coscienza nei consumi?

«Enorme. In un momento di generale caduta dei sistemi teorici e ideologici, le questioni legate al consumo diventano uno straordinario terreno di battaglia e acquisizione dei diritti. Boycott/Buycott esprime una posizione politica attraverso il consumo. Da noi lo ha capito prima Berlusconi, che ha offerto un modello di consumo, e ha capito che stile di vita, desideri, aspirazioni, sono fondamentali nell´orientare le scelte politiche. Spero che la sinistra si svegli».