Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Alain de Benoist oltre l’opposizione destra/sinistra

Alain de Benoist oltre l’opposizione destra/sinistra

di Stefano Sissa - 23/03/2010


 http://02varvara.files.wordpress.com/2008/11/alain-de-benoist.jpg
 
 

Un intellettuale curioso
Alain de Benoist è un intellettuale curioso. Curioso nel duplice senso: è dotato di una grande curiosità intellettuale, che si manifesta in una voracità di letture e interessi un po’ di ogni tipo; è un intellettuale singolare, fuori dagli schemi, talmente dinamico e antisistematico da risultare incurante di sembrare a volte anche un po’ contraddittorio, o almeno non del tutto conseguente; anche se vi è da dire che negli ultimi anni il suo pensiero si è fatto sicuramente più compiuto e sistematico. La sua evoluzione è molto rapida, e costringe ad una continua rincorsa coloro che lo vogliano prendere come intellettuale di riferimento o anche soltanto studiarlo. […]

Costanzo Preve, filosofo torinese di opposta provenienza politica, ma spiccatamente anticonformista, ha recentemente imbastito con de Benoist un confronto filosofico e politico, in cui emergono, pur da punti di partenza così distanti, delle significative convergenze.  […]

Per Preve, la società contemporanea è dominata a livello cognitivo da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, ascrivibili una alla destra e una alla sinistra, intese come categorie assiologiche generiche, non più identificate con concrete forze sociali. Di destra è il cosiddetto «pensiero unico», ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale (con tutti i suoi corollari, compresa la guerra, intesa come operazione di ‘polizia internazionale’) costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra è lo stile «politically correct», imperniato su di una parossistica esaltazione dei diritti dell’individuo, al moralismo e all’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito (quando non, addirittura, a pura chiacchiera). Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’indust ria culturale, così come pure il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e carriere ‘intellettuali’. Tale situazione può per lui essere riassunta con una formula: «idee di destra, valori di sinistra». Ecco allora che l’originalità di de Benoist, ciò che lo qualifica oggi in quella che dovrebbe essere propriamente la funzione intellettuale, consiste nel non essere allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con la formula esattamente contraria: «valori di destra, idee di sinistra».


La destra come categoria antropologica: un paradigma dell’azione umana
Con «destra politica» intendiamo un fronte sociale e politico le cui idee sono rese immediatamente funzionali alle esigenze di una concorrenza politica tra forze sociali, che si va a costituire subito a ridosso degli sconvolgimenti apportati dalla Rivoluzione francese e dalle sue conseguenze in Europa, in difesa delle antiche gerarchie sociali. L’asse paradigmatico destra-sinistra si è progressivamente imposto, finendo per contrassegnare in modo decisivo il campo della percezione e dell’azione politico-sociale della modernità matura. Tra i massimi rappresentanti intellettuali della nascente cultura della destra politica vi sono, ad esempio, Maistre, Bonald, Burke. Inizialmente molto critica nei confronti della modernità, la destra politica è comunque un prodotto della modernità, anche se in una chiave reattiva; la figura ambivalente di Tocqueville rappresenta una sorta di transizione verso l’ac cettazione della modernità compiuta; quella del suo assistente Gobineau, invece, come un tentativo, in realtà mitologizzante, di naturalizzare le ragioni profonde di epocali mutamenti sociali. Pochi decenni dopo vediamo autori – citiamo esemplarmente Barrès e Maurras – assumere mimeticamente temi, modalità e principi della modernità che si voleva combattere, mantenendosi però ancorati ad una parte precisa dello schieramento politico, ormai chiaramente identificata con la destra.

Con «destra antropologica» intendiamo, invece, una modalità tradizionale di apprensione del mondo, da un punto di vista sia cognitivo che etico, caratterizzata da una più o meno implicita ‘antropologia filosofica’, secondo la quale il soggetto umano non è arbitro di se stesso, ma si inscrive in un ordine che lo trascende, che ha una sua misura precostituita, e che gli assicura, per via di eredità, i modelli della sua azione, cui attenersi scrupolosamente per non scivolare nel caos. Come scriveva Karoly Kérényi: “Prima di agire l’uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale. Egli avrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersi come in una campana di palombaro, per affrontare, così, protetto e in pari trasfigurato, il problema del presente. La sua vita ritrovava in questo modo la propria espressione e il proprio senso. (Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1972, pag. 18).

Lo stesso uso assiologicamente connotato del termine «destra» e «destro», così come i correlati «dritta» e «diritto», diffusi in numerosissime lingue e culture umane per esprimere il senso dell’adeguatezza e della norma, esprimono molto bene la percezione, come minimo a livello inconscio, della necessaria esistenza di un modo di ‘fare le cose’ secondo una regola connaturata alle relazioni umane primarie. Il radicale indoeuropeo del termine «destra», è *dek-, che imprime alle parole da esso composte una serie di accezioni riconducibili ad un’area semantica che possiamo delimitare attraverso le seguenti espressioni: «ricevere rendendo onore», «accogliere secondo la forma adeguata», «ospitare degnamente», «possedere autorevolezza e capacità», «ereditare perché degni», «essere destinati». In sost anza, potremmo definire una «destra antropologica» come la concezione secondo cui occorra essere degni per ricevere. Lo stesso aggettivo «degno», così come «decenza» e «decoro», conservano etimologicamente lo stesso radicale indoeuropeo alla base del termine «destra». Non è per nulla irrilevante, poi, che il termine ‘destra’, in molte lingue di origine indoeuropea, ma non solo, si associ al diritto, a ciò che è retto, all’idea di render giustizia e di compiere azioni ‘conformi alla regola’. Nelle culture arcaiche il nesso simbolico tra parola e azione è molto stretto e vincolante, in particolare se, come è il caso proprio di questo termine, si riferisce soprattutto ad usi cerimoniali.
Destra e sinistra nel simbolismo tradizionale dell’ordine sociale non sono metà simmetriche.

La distinzione tra destra e sinistra sorge – come tutti sanno – in seguito alla rivoluzione francese (anche se diventa veramente diffusa solo alla fine dell’Ottocento), nel contesto della trasformazione dei criteri di rappresentazione del rapporto tra le componenti della società. Si passa dalla modalità verticale che incardina i ceti all’interno di diseguali livelli di dignità alla modalità orizzontale, che consente di modulare le posizioni e le appartenenze su di un asse polarizzato in cui tutti, però, si trovano sullo stesso piano. Proprio questa caratteristica ne ha decretato il successo all’interno del gioco politico della società compiutamente moderna, come rimarca Marcel Gauchet nel suo studio su destra e sinistra (Storia di una dicotomia: la destra e la sinistra, Milano, Anabasi, 1994). L’arco destra-sinistra consente allo stesso tempo di differenziarsi, ma anche – all’occorren za – di sfumare la differenziazione, realizzando un continuum che si può di volta in volta polarizzare sulle estreme oppure addensare verso il centro, a seconda delle contingenze storiche.

Secondo la lettura di Gauchet, la forza della distinzione destra-sinistra sarebbe insita nella sua stessa struttura simmetrica. Eppure non vi è da essere così sicuri della perfetta simmetria della distinzione politica destra/sinistra. Come ben risulta dallo studio di Jean A. Laponce (Left and Right. The Topography of Political Perceptions, University Toronto Press, Toronto, 1981), le forze sociali e politiche che nel contesto della Francia protorivoluzionaria muovevano in direzione di una maggiore democratizzazione del potere hanno favorito lo scivolamento da un ordinamento verticale-gerarchico ad uno orizzontale-egualitario. All’interno della configurazione spaziale a valenza simbolica che caratterizzava l’Ancien Régime, l’«alto» valeva ovviamente più del «basso»; oltre a questo asse, però, ne esisteva un altro, ad esso corrispondente, che ne riproduceva l’assiologia sul piano orizzontale; esso – rileva Laponce – era incardinato sul primato della destra, intesa come corrispettivo topologico del senso di adeguatezza, dignità e favore. In conformità con quasi tutte le culture tradizionali, la destra non era equivalente alla sinistra, poiché disponeva di un valore simbolico superiore, rispetto al quale la sinistra, più che esserle opposta, ne era gerarchicamente inclusa, allo stesso modo in cui il basso veniva sussunto dall’alto.


La svolta storica della Rivoluzione francese e il primato morale della sinistra
Nel contesto politico francese successivo alla grande rivoluzione, comunque, sarà ‘contrario all’etichetta’ dichiararsi apertamente di destra; si potrà soltanto essere più a destra rispetto ad una posizione di sinistra. In sostanza, le forze politiche e sociali novatrici non hanno mancato di riconoscere l’esistenza di un patrimonio simbolico che assegnava alla destra il primato, ma lo hanno rovesciato secondo la logica deliberatamente trasgressiva dell’antinomismo, secondo il quale la vera legittimità è raggiunta proprio con la consapevole azione di esatto ribaltamento della norma.

Ogni società umana, nell’individuare i crismi della sua legittimità, si deve misurare in un modo o nell’altro con la propria tradizione. Anche la modernità politica, che si propone come ‘nuovo inizio’, basato sulla libera ragione critica del soggetto puro, ha comunque dovuto far ricorso ad una versione – pur completamente rielaborata – dell’antica dottrina del diritto naturale per legittimare la propria azione rivoluzionaria.

Nella sfida tra spinte rivoluzionarie e accanite resistenze controrivoluzionarie, con tutte le possibili posizioni intermedie che vi furono, si è andata progressivamente a costituire una modalità di rappresentazione della contesa politica come un campo di forze agglutinate attorno ad una sinistra ed una destra. Il fatto che tale modalità si sia costituita nel plesso della modernità compiuta significa che nel contesto attuale della cosiddetta postmodernità essa debba decadere? Oppure destra e sinistra mantengono comunque la capacità di denotare differenze significative rispetto alle opzioni politiche, in modo tale da identificarne la prelazione in termini di culture politiche di riferimento?


C’è una distinzione politica tra destra e sinistra e una metapolitica: non sempre coincidono
La ricerca metapolitica di Alain de Benoist va nella direzione di individuare un ambito specifico entro cui collocare la sua prospettiva di valore; ambito che non coincide più (anche se ha coinciso, in passato) con l’appartenenza ad un fronte politico preciso. Avendo distinto, a mo’ di presupposto della nostra ricerca, fra una «destra antropologica» e una «destra politica», che possono sì sovrapporsi, ma anche divergere, è interessante verificare quanto de Benoist possa porsi, ad esempio, su di un crinale caratterizzato dall’adesione ad una Weltanschauung di destra senza essere schierato politicamente con le forze di destra. De Benoist, in effetti, fin dagli anni ‘70, dichiarava che le sue idee si trovavano a destra, ma non erano necessariamente di destra. Vi è da dire, per il vero, che gli orientamenti espressi allora erano ancora piuttosto inequivocabilmente di destra, anche e sopratt utto in senso politico. […] La sua produzione, però, ha mostrato, nel tempo, sviluppi molto interessanti, che ridefiniscono il suo quadro assiologico.


Eredità e ambiente

“Per la destra, storicamente parlando, l’uomo è in primo luogo un erede, laddove per la sinistra egli è innanzitutto un individuo”( A. de Benoist, Ultimo anno. Diario di fine secolo, cit., pag. 242.). In altri termini, l’uomo è tale non in astratto ma come degno ricevente di un patrimonio che lo rende tale. Si tratta ora di precisare quanto vi è di biologico e quanto vi è di culturale in questo “essere erede”. Insistere troppo sul lato biologico significherebbe richiamare le mostruosità del razzismo nazista; l’approdo al paradigma ecologico consente invece di tener buona la dimensione biologica senza essenzializzarla, in quanto stabilisce il primato della relazione forma di vita / ambiente vitale.

Identità e discriminazione.  De Benoist è uno strenuo difensore del principio differenziale dell’identità, come costitutivo dell’essere umano e della vita sociale; tuttavia sa bene che l’attuale, convulsa rincorsa al particolarismo e a difendere caparbiamente il proprio profilo identitario da presunte contaminazioni ha pure i caratteri tipici del sintomo di una patologia. Una società salda nei suoi principi e nella sua fisionomia culturale ed etica non teme l’incontro con le altre culture, ed è anche in grado di accogliere – in misura e tempi ragionevoli – gli stranieri, poiché non li avverte come capaci di esercitare una forza tale da favorire la dissoluzione della cultura ospitante. […]De Benoist riconosce che l’atteggiamento xenofobo scambia l’effetto (la difficoltà di integrazione) con la causa (la crisi di identità del Paese ricevente), andando all a ricerca di soluzioni semplificatorie e brutali, se pur efficaci sul piano di una disorientata opinione pubblica; insomma: “ogni volta che c’è crisi dell’identità, si cerca un capro espiatorio”(Sull’identità, in Identità e comunità, cit., pag. 72).


La pratica del dono alla base contro i poteri dominanti
Nell’incipiente sfaldamento della società moderna e nella messa in crisi delle tutele predisposte dal welfare, la Nouvelle Droite pensa ora come ricostituire dal basso i canali della socialità primaria, attraverso raggruppamenti di prossimità che restituiscano alla società la sua struttura originaria di rete di alleanze, contrapposta al monstrum della società ipercomplessa in cui il senso della reciprocità è venuto ormai meno. Tutto questo può propiziare l’emergere di nuovi gruppi di riferimento e una rimessa in moto del meccanismo di acquisizione degli status al di fuori della stringente logica del denaro. Contro le oligarchie pseudo-democratiche oggi in auge, favorire allora nuove aristocrazie continuamente in fieri: non un’aristocrazia-istituzione, ma un aristocrazia-movimento, che mostra la propria autorità nella capacità di legare a se stessi, elargendo e beneficiando: & ldquo;Nella misura in cui il dono è creatore di gerarchia, nasce l’obbli­go di rendere, ovvero la possibilità aperta per il neofita di rove­sciare il suo stato di inferiorità. Poiché, come ricorda Alain Testart, la gerarchia suscitata dal dono è essenzialmente fluttuante (carat­teristica per cui si distingue, anche se talvolta vi si sovrappone, dalle stratificazioni fondate sul sangue o sulla proprietà acquisi­ta e trasmessa): essa permette alle società polisegmentate – divise per sesso, età, generazione, luogo ecc. – di intrecciare e collegare permanentemente i loro sottogruppi costitutivi”(C. Champetier, Homo consumans, cit., pag. 73). È solo a queste condizioni, quelle di una ritrovata rete sociale che ricorda la foggia delle società segmentarie, che la differenziazione si può porre come ancora proporzionata e quindi legittima, potendosi così il conc etto di gerarchia smarcarsi dal tabù, ridiventando pe! nsabile. È vero che si tratta di condizioni sociali ancora non chiaramente verificatesi, ma – nell’attuale crisi dell’ordine sociale – potrebbero non tardare troppo a manifestarsi.


Dal principio dell’auctoritas al federalismo di Althusius contro le odierne oligarchie
Scrive Althusius: “Qualora non esistano gli Efori, il popolo deve istituire allo scopo vendicatori e difensori pubblici” (J. Althusius, Politica, cit., pag. 82). Sappiamo che de Benoist non è animato da moventi di pura erudizione: è vero che egli è ormai un intellettuale piuttosto compassato, lontano mille miglia dalla militanza politica, ma vi è da scommettere che non si esenterebbe dalle responsabilità dell’azione politica se si determinassero le condizioni di farsi «difensore pubblico» e proclamare lo «stato di eccezione». […] Egli, infatti è fautore di una sorta di alleanza tra popolo e ottimati contro le agenzie del potere. Avversario della borghesia individualista in tutte le sue declinazioni, concepita come forza sociale disancorata dal sociale, pensa – in ciò, effettivamente, in linea con certe istanze del pensiero reazionario &ndash ; a costituire un blocco storico tra base popolare e aristói, contro tutti i trafficanti di merci e di denaro.

Pure il diritto di secessione, previsto da Althusius, gli sembra un’importante risorsa da spendere contro un sistema sempre più pervasivo e totalizzante: “Se non si può cambiare il sistema, bisogna lasciare il sistema. Lasciare che la Nuova Classe regni, ma regni sul vuoto” (Ultimo anno. Diario di fine secolo, cit., pag. 129).

Tirando le conclusioni di questo capitolo, puntualizziamo che l’auctoritas è il principio che ci consente di distinguere tra la legittimità e la mera legalità del potere, subordinando la forza al diritto, inteso non in modo puramente formale e procedurale, ma numinoso, ossia in grado di far riverberare su di sé in modo conforme la coscienza collettiva. Questo è un punto cardine della tradizione culturale che abbiamo denominato «destra antropologica».

Sottratta la vera autorità allo stato, che non vuole e non può resistere al potere di disposizione dei potentati economici – totalmente indifferenti, se non ostili, al principio dell’auctoritas – de Benoist, dopo il volontarismo nietzschiano degli inizi, si reinscrive proprio nel seno di quella tradizione, declinandola però, da postmoderno, nei termini di un diritto naturale non teologico, ma pienamente incorporato in un tessuto sociale differenziato al suo interno.


Alain de Benoist: un no global rivoluzionario-conservatore
Anche nella sua analisi del fenomeno terroristico attuale, de Benoist si esprime da vero rivoluzionario-conservatore, distantissimo dagli atteggiamenti tipici degli esponenti intellettuali o politici della destra occidentale, buoni solo ad evocare «scontri di civiltà» di cui l’Occidente sarebbe la vittima, finendo per aggrapparsi, come bambini paurosi, all’unico credibile tutore dell’ordine internazionale, ovvero gli Stati Uniti d’America. Non è opponendosi allo sviluppo degli eventi, né nella strenua difesa del vigente sistema, che stanno le chiavi della risoluzione della grande crisi, ma nell’immersione in essa con spirito combattivo, puntando a far riemergere le costanti umane che, nella loro profondità, fanno da presidio e fondamento di ogni ordine sociale e politico.

Conseguente è il giudizio, allora, sul movimento cosiddetto no global. Da una parte de Benoist gli manifesta una certa approvazione, soprattutto nelle sue componenti più comunitarie e postmoderniste; ma dall’altra non cela anche parecchie perplessità. Egli ritiene, infatti, che questo movimento non sia sufficientemente radicale; che stia sì dalla parte giusta, però per motivi sbagliati. Ne apprezza la critica alla modernità, ma scorge nelle soluzioni proposte, pur nella fumosità, più che altro la tendenza a voler radicalizzare le istanze della modernità stessa. Il rischio, allora, è che pur battendosi giustamente contro l’omologazione capitalistica globale, si riduca a farlo, più o meno consapevolmente, ancora sotto le insegne dell’ideologia dell’Identico che ne sta alla base.  […]

Anche per de Benoist, «un altro mondo è possibile», come proclamano i no global, ma non lo si costruirà nel solco del primato dell’economia, della produzione e dei diritti dell’Individuo, poiché su questa cifra il capitalismo liberale, la logica del desiderio infinito che porta al consumismo, la distruzione delle differenze rimarranno sempre, purtroppo, le formule vittoriose. Occorre piuttosto una decolonizzazione radicale che miri a rianimare quelle concrete forme di socialità primaria che attingono da quell’inesauribile serbatoio di differenze che è la vita stessa, nei suoi fondamenti.


Per una nuova e radicale sintesi tra destra e sinistra 
La sinistra politica, magari anche proclamando un’uguaglianza molto astratta e ideologica, ha però, nei fatti, combattuto per migliorare le condizioni di chi era subordinato. Ha consentito a chi si era reso degno lottando, di ricevere. E ha fatto bene, contribuendo a realizzare sistemi sociali più inclusivi e più equi. Oggi però assistiamo ad una sorta di degenerazione della sinistra politica: dopo il collasso del comunismo e la dismissione del welfare socialdemocratico, essa si va rifugiando nella mera esaltazione di esigenze individualistiche e libertarie contornate da un pacifismo moralistico e semplificatorio. Avendo incorporato pienamente il paradigma soggettivista e individualista tipico della filosofia politica borghese, non intende più – avendo dismesso la dialettica – superare dialetticamente la forma di società data e sconfiggere l’alienazione collettiva. La sua proposta pol itica si riduce così, ormai, ad essere una semplice accentuazione, più o meno radicale a seconda dei casi, di quella liberaldemocratica, secondo la quale l’azione politica è sostanzialmente discussione e mediazione tra rappresentanti di legittimi interessi privati. È una sinistra che non sembra più capace di pensare il «noi», componendosi per lo più di una molteplicità di «io» narcisistici, refrattari a sacrificare qualcosa di sé per gli altri o a riconoscere che bisogna anche rendersi degni per poter ricevere. Una sinistra che avrebbe forse bisogno di interrogarsi profondamente sulla possibilità che esistano dei presupposti strutturali pre-politici, non arbitrari o modificabili a piacere, da cui attingere per riformulare una proposta politica congrua e incisiva per i tempi che verranno. Presupposti che – a nostro avviso – sono stati prefigurati in quel modo di concepire il mondo e i rapporti umani che abbiamo chiamato «dest! ra antro pologica».

[stralci da Stefano Sissa, Pensare la politica controcorrente. Alain de Benoist oltre l’opposizione destra/sinistra, Arianna editrice - e-book 2010| ariannaeditrice.it]