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Africa libera (cinquant’anni dopo)

di Guido Rampoldi - 23/03/2010

   

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Cinquant’anni fa, insieme all’indipendenza di molti paesi Africani, nasceva la Nigeria, il più popoloso e promettente fra i nuovi Stati.
Tutto inizia con la conferenza di Berlino (1885) che creò “un miscuglio di nazioni senza Stato e di Stati senza nazione” e che dopo la decolonizzazione lasciò dietro di sé uno “scramble of Africa” (frullato d’Africa). Prende da qui le mosse Guido Rampoldi per raccontarci come riesca a rimanere unito uno Stato dove convivono 250 gruppi etnici differenti.
La Nigeria è tuttavia anche il paradigma della corruzione di un gruppo di potere che costringe 140 milioni di persone a vivere nell’ingiustizia e spesso nell’indigenza economica.


Se il male dovesse scegliersi una residenza, Lagos sarebbe certamente presa in considerazione. La megalopoli nigeriana guida la classifica delle città più pericolose al mondo ed esaspera tutti i vizi di un Paese che “Transparency” valuta tra i dieci più corrotti della Terra. Qui la classe dirigente infila le mani nei favolosi proventi del petrolio e ruba oltre il verosimile, raramente disturbata da una polizia che a sua volta depreda a casaccio la popolazione. Ma se un ragazzino borseggia una donna in un mercato può finire come l’undicenne di cui racconta Teju Cole in Every day for the thief: i bottegai lo stordiscono di pugni, lo infilano dentro un vecchio copertone, lo cospargono di benzina e gli danno fuoco. Mentre il ragazzino brucia la folla osserva, come a teatro, poi torna ai suoi commerci, alle sue chiacchiere. Una settimana dopo è in vendita un dvd del rogo, l’ha girato qualche intraprendente che aveva sottomano una handy-cam. La Nigeria non è sempre così. Non è così la nuova capitale, Abuja, le cui geometrie razionali esprimono un’aspirazione a governare, perfino una vaga idea della nazione. Ma già in periferia quello sforzo sembra soccombere al caos di casa a Lagos, una città che può prendere anche sei ore a chi decida di traversarla da lato a lato nel pomeriggio sbagliato. Dunque è a Lagos che si deve misurare il cammino zoppicante della Nigeria nel cinquantenario delle indipendenze africane. In quel 1960 il Paese pareva destinato a diventare il traino di un’Africa finalmente libera. La più grande popolazione del continente, oggi 140 milioni, e all’epoca i maggiori giacimenti di idrocarburi, le valevano la fama di Gigante dell’Africa. Mezzo secolo più tardi sembra soprattutto un Paese imbarazzato dagli inevitabili bilanci che l’anniversario trascina. Il sentimento più diffuso è la disillusione. I nigeriani hanno perso fiducia nella politica, nella giustizia, in uno Stato talvolta simile ad un’impresa criminale. Neppure le nuove generazioni suscitano speranze: «Vogliono soltanto un posto pubblico per arraffare la loro parte di bottino», si rattrista Andrew Agbese, giornalista del “Daily Trust”. Non tutto è così cupo, e non mancano indizi di una società civile non estesa ma vitale. Combattive organizzazioni per i diritti umani. Scrittori tra i più interessanti della letteratura in lingua inglese. Nollywood, l’Hollywoood nigeriana, centro della più prolifica cinematografia africana. Una grande scuola di musica, il Muson. Una rapida informatizzazione. Alcuni leader politici incorrotti e capaci. Ma tutto questo non riesce a formare una direzione virtuosa. Peraltro, gli ottimi scrittori sono più letti in Occidente che in patria. L’informatizzazione del Paese si accompagna alle truffe degli immaginifici studenti universitari che ogni sera riempiono i cafè-internet di Lagos per lanciare i loro ami nella Rete. Li chiamano gli “yahoo boys”,o anche i “419”, l’articolo di legge che dovrebbe trattenerli dal mandare in giro per il mondo quelle e-mail in cui promettono favolosi guadagni in cambio di un contributo al confronto irrisorio. Se uno su mille abbocca, vivranno a sbafo per mesi. Se invece sono colti con le mani nel sacco, spartiscono i guadagni con il poliziotto che dovrebbe arrestarli. [...]
Queste ambivalenze sono comuni alle economie emergenti e non scoraggiano la piccola tecnocrazia laureata all’estero che adesso rimpatria, attirata dalla prospettiva di privatizzazioni. Ma ci vuole molto ottimismo per credere che la Nigeria attuale sia la Gran Bretagna all’inizio della rivoluzione industriale, come sostiene Sery Boroffice, laureato ad Harvard. Vista dalla caotica Lagos, la Nigeria sembra una nazione casuale. Tanto casuale che pare quasi rinunciare ad avere una storia. Questa laguna fu per tre secoli il più importante mercato degli schiavi: eppure a Lagos non c’è monumento che lo ricordi. Puoi attribuire l’amnesia a disagio. Per quanto la storiografia terzomondista sorvoli, il commercio era per gran parte in mano alle tribù locali. Ma quando ti affacci nel Museo nazionale e lo scopri derelitto come un magazzino, non puoi non domandarti se questa noncuranza non riveli un Paese che non riesce a credere in se stesso. Di sicuro qualcosa è andato storto nel cammino della Nigeria: ma cosa? Per rispondere forse conviene partire non dal 1960, l’anno delle 17 indipendenze africane, ma dai tre mesi a cavallo tra il 1884 e il 1885 in cui si celebrò «l’abominevole Conferenza di Berlino», come la chiama il mensile “New African”. A Berlino tredici nazioni europee e gli Stati Uniti decisero di spartirsi le ricchezze del continente senza attardarsi in pericolosi conflitti armati. Perciò concordarono le rispettive zone d’influenza. Di lì a sedici anni soltanto la Liberia e l’Etiopia sarebbero rimaste indipendenti. Dunque la Conferenza fu la premessa della frammentazione del continente, un territorio che nella sua gran parte non aveva mai conosciuto i confini nazionali e gli Stati-nazione così come si erano formati in Europa. In capo a pochi decenni un migliaio di popoli e di culture, solo per stare ai ceppi maggiori, si ritrovarono incapsulati dentro contenitori statali, oggi 53. Incongrue frontiere sfasciarono il telaio di relazioni costruito dai secoli. Sparpagliarono popoli, costrinsero nemici a fingersi fratelli. In una parola, produssero un miscuglio di nazioni senza Stato e di Stati senza nazione. Quel che tutt’oggi è in parte l’Africa. Alcuni storici africani chiamano tutto questo the scramble of Africa, formula traducibile come “frullato d’Africa”. E lo considerano la colpa più grave dell’Europa dopo la tratta degli schiavi. Il “New African” fa propria questa tesi ma vi aggiunge una complicazione. Quel “frullato d’Africa” non era irreversibile. E infatti subito dopo le indipendenze del 1960 Nkruma, Ben Bellae altri leader africani tentarono di riunificare il continente. Fallirono non tanto per le astute manovre delle ex potenze coloniali, quanto per le brame personali dei capi rivoluzionari africani. Divenuti premier, ministri e presidente della Repubblica, costoro convennero che quelle frontiere per buona parte assurde fosse perfettamente congruo alle loro ambizioni. «Per paura di perdere la loro posizione di dominio», scrive il New African, proclamarono «non negoziabile lo status quo geopolitico e la sovranità nazionale». Il risultato di questa continuità è una separatezza suicida, per la quale oggi il commercio tra gli Stati africani conta appena per il 4% del pil continentale. “Africa” non è molto più di un un’espressione geografica. Anche la Nigeria sconta quella storia. Come le pareti di una pentola a pressione, le sue frontiere contengono ufficialmente dieci ceppi linguisitici e 250 gruppi etnici (oltre 350, secondo stime più verosimili) che spesso non si capiscono tra loro, se non in inglese. Le guerre improvvise che scoppiano tra gruppi o sottogruppi - per rivalità storiche, per antagonismi contingenti, per l’antica competizione tra agricoltori stanziali e pastori nomadi - da qualche anno trovano pretesti, ispirazioni e complici nell’islam salafita e nel cristianesimo dei pentecostali. E qualche ostacolo nell’islam sufi e nel cristianesimo cattolico e anglicano. Ma la straordinaria frammentazione nigeriana ha un effetto doppio. Se da una parte ostacola o impedisce i processi unitari che altrove portarono alla nascita degli Stati-nazione, dall’altra evita che il Paese si spacchi, essendo impossibile inventare frontiere interne accettabili da un numero sufficiente di gruppi etnici. Per tutto questo si potrebbe dire che 50 anni dalla nascita la Nigeria sia nelle stesse condizioni di salute del suo presidente, Umaru Yar’Adua, secondo i giornali gravissimo ma ufficialmente in condizioni stabili: ammettere la verità non converrebbe al gruppo di potere che, seduto al capezzale del malato, non intende mollare la presa sugli affari.