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Etanolo, quando l'energia affama il Pianeta

di Andrea Bertaglio - 23/03/2010


Spesso vengono esaltate le caratteristiche ecologiche e sostenibili dell'energia ricavata dai bio-carburanti, ma si tratta di vantaggi ancora da dimostrare. Con la scusa di voler combattere i cambiamenti climatici cominciano a decollare questi nuovi business che, col tempo, potrebbero addirittura peggiorare la situazione, sia a livello economico che ambientale. È il caso dell'etanolo.



campo grano etanolo
“L'industria americana dell'etanolo, la più importante al mondo, nel 2009 ha consumato grano sufficiente a sfamare 330 milioni di persone”
L'industria americana dell'etanolo, la più importante al mondo, nel 2009 ha consumato grano sufficiente a sfamare 330 milioni di persone”. Lo afferma l’Earth Policy Institute con un rapporto intitolato U.S. Feeds One Quarter of its Grain to Cars While Hunger is on the Rise, in cui risulta che, durante lo scorso anno, 107 milioni di tonnellate di granaglie - ossia oltre un quarto della produzione statunitense - siano finite nelle distillerie di etanolo americane. Proprio nell’anno in cui si è raggiunto il record di un miliardo di affamati nel mondo.

Un tale quantitativo di cereali sarebbe bastato, secondo i calcoli dell’Organizzazione presieduta da Lester Brown, a sfamare circa 330 milioni di persone. Vale a dire più della stessa popolazione statunitense. “Con le 200 distillerie di etanolo nel Paese adibite alla trasformazione di cibo in carburante”, continua l’EPI, “la quantità di cereali trasformata è triplicata dal 2004”.

Gli Stati Uniti sono il principale produttore di cereali al mondo, in grado di esportare più di Argentina, Australia, Canada e Russia messi insieme. Non stupisce quindi il fatto che, in un’economia globalizzata, l’accresciuta richiesta di cibo necessario a produrre carburanti per i veicoli americani può creare non indifferenti variazioni dei prezzi alimentari in tutto il resto del mondo.

La crescita della domanda mondiale di agro-combustibili ha ridotto la produzione di granaglie, riconvertito le coltivazioni di ampie superfici agricole e fatto esplodere i prezzi. La popolazione mondiale consuma direttamente meno della metà delle granaglie che si raccolgono. Il resto serve a nutrire il bestiame e i veicoli a motore (Luis Hernandez Navarro). E considerando il fatto che il quantitativo di cereali necessari a produrre etanolo per il pieno di un SUV potrebbe sfamare una persona per un anno, viene effettivamente da chiedersi se etanolo, biodiesel e tutti i cosiddetti “biocarburanti” non siano una cosa immorale.

Soprattutto se si valuta quanto la domanda sia insaziabile, nel Paese della crescita a tutti i costi, che oltre all’usa e getta ha insegnato al resto del mondo come cercare sempre nuovi modi per aumentare l’offerta, piuttosto che diminuire la domanda. L’Earth Policy Institute ha calcolato che, se anche l’intera produzione di granaglie statunitense fosse convertita in etanolo (non lasciando quindi niente per la produzione di cibo, non solo pane, pasta e riso, ma anche ciò che serve a nutrire gli animali che forniscono carne, latte e uova), si riuscirebbe a soddisfare, al massimo, il 18% dei bisogni dell’automotive americana.

Quindi? A cosa serve, o sarebbe meglio dire a chi serve, questo improvviso boom dei biocarburanti, quando Jean Ziegler, relatore speciale dell’Onu per il Diritto al cibo, sostiene addirittura che, per la crisi alimentare esplosa in 37 paesi nel 2008, "questo è un assassinio di massa silenzioso"? Forse il problema risiede nella crescente concentrazione monopolistica dell’industria agro-alimentare mondiale. La fame di molti è l’abbondanza per pochi. In momenti di avversità come la crisi attuale, un piccolo numero di imprese hanno visto crescere i propri profitti in modo esorbitante. È il caso delle compagnie che fabbricano fertilizzanti. Nel 2007 Potato Corp ha incrementato i suoi guadagni del 72% in confronto al 2006. Yara ha avuto un aumento dell’utile del 44%. I profitti di Sinochem sono cresciuti del 95% e quelli di Mosaic del 141%. Vale anche per i grandi commercianti di grani. Nei primi tre mesi del 2008 Cargill ha ottenuto guadagni dell’86% maggiori che durante lo stesso periodo dell’anno precedente. Nel 2007 Adm ha avuto profitti superiori del 67% in più sul 2006, Conagra del 30%, Bunge del 49% e Noble Group del 92%. La stessa fortuna conoscono le multinazionali trasformatrici di alimenti come Nestlé e Unilever, e le imprese che si dedicano alla produzione di sementi e di agro-chimica, come Dupont, Monsanto e Sygenta (Luis Hernandez Navarro).

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La crescita della domanda mondiale di agro-combustibili ha ridotto la produzione di granaglie, riconvertito le coltivazioni di ampie superfici agricole e fatto esplodere i prezzi
Per contro, dopo essere diminuito costantemente fino alla fine degli anni novanta, il numero di persone malnutrite è ricominciato a salire, vertiginosamente. Stando ai dati della FAO, se nel 1969 soffrivano di malnutrizione meno di 900 milioni di persone, nel 1997 erano poco più di 800 milioni; fino al ritorno a 900 nel 2006, il sorpasso di tale cifra nel 2008 e l’incredibile impennata, che ha portato appunto ben oltre il miliardo di individui, nel solo 2009. Sarà casuale?

Continuare a destinare sempre più cibo alla produzione di carburante, come previsto dal governo federale americano nel suo “Renewable Fuel Standard”, rafforzerà ulteriormente i problemi relativi all’aumento della fame nel mondo. E continuando a dare sussidi alla produzione di etanolo, ora intorno ai sei miliardi di dollari all’anno, i contribuenti statunitensi stanno supportando, probabilmente senza saperlo, la crescita dei prezzi degli alimenti sia in casa loro che nel resto del mondo

Negli Stati Uniti la legislazione prevede che nel 2012 si consumeranno 27 miliardi di litri di agro-combustibili. George W. Bush propose nel 2008 come obiettivo di distillare 133 miliardi di litri nel 2017, e per raggiungere questo obiettivo stabilì un ambizioso programma di incentivi economici ai produttori. Vedremo se il suo successore Obama, così innamorato della “Green economy” (quella atomica?), riuscirà anche in questo caso ad andare oltre le aspettative. Non delle popolazioni di Messico, Haiti, Mauritania, Yemen, Filippine, Egitto, Bangladesh, Indonesia, Marocco, Guinea, Mozambico, Senegal, Camerun, Burkina Faso e di tutte le altre che hanno più volte protestato negli ultimi due anni per l’abnorme aumento dei prezzi del cibo, ma delle multinazionali agro-alimentari.