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Israel Horowitz. Il ‘68, tra Columbia University e Valle Giulia

di Miro Renzaglia - 25/03/2010



Ora ha settanta anni, portati molto bene. E’ Israel Horovitz il drammaturgo americano, noto al grande pubblico per essere lo sceneggiatore di Fragole e sangue, il film cult della generazione ’68, americana e no. Persino nostra e persino: al di là della destra e della sinistra. E’ per questa ragione che non ci lascia indifferenti la sua visita in Italia per presentare Trilogia Horovitz (Editoria & Spettacolo, 2009), che contiene i tre atti unici «della solitudine», inediti da noi: L’indiano vuole il Bronx (1968), Beirut rocks (2006), Effetto muro (2009). Il tour promozionale è cominciato a Spoleto, domenica scorsa 21 marzo, ed è proseguito il giorno dopo a Roma, prima al Centro Studi Americani, dove l’autore ha incontrato i giovani delle accademie teatrali, per concludersi martedì 23 marzo, all’Università La Sapienza con una conferenza e con la mise en espace, al teatro India, di Suite Horovitz, per la regia di Andrea Paciotto (musiche di Rolando Macrini).

Spoleto non è un luogo scelto a caso per il suo ritorno in Italia. E’ dalla cittadina umbra, infatti, nell’ambito del Festival dei Due Mondi, che la parabola di Horowitz schizza in alto. Era, giustappunto, il 1968 e quel festival, già da anni, rappresentava la vera fucina di un’arte e di una cultura non perfettamente (anzi, per niente…) allineate ai canoni in vigore d’essere. Nel 1964, per esempio, il maestro patron della manifestazione, Gian Carlo Menotti, aveva proposto  l’opera musicale di Ezra Pound con testo di Françoise Villon, Le Testament, destando lo scandalo che destò nel già montante pregiudizio antifascista ma restituendo di fatto il poeta dei Cantos, “fascista e traditore”, al pubblico italiano.

Nel 1968 vi sbarcò, invece, un giovane e fin lì misconosciuto Horovitz che propose proprio L’indiano vuole il Bronx, con un cast che comprendeva i giovanissimi e anche loro sconosciuti Al Pacino e John Cazale. Dice oggi Horovitz: «A volte non ti chiama nessuno, poi bastano 24 ore per cambiarti la vita», riferendosi al fatto che fu nel medesimo giorno di quella rappresentazione che ricevette la conferma che la sua sceneggiatura di Fragole e sangue era stata comprata dalla Metro Goldwyn Mayer e l’invito di Samuel Beckett ad incontrarlo a Parigi: «Dovevamo vederci per mezzora – dice durante l’incontro pubblico – e siamo diventati amici per tutta la vita. E’ stato il mio padre spirituale, letterario, morale».

Fragole e sangue, diretto da Stuart Hagmann, esce nelle sale americane nel 1970 e vince il Premio della giuria al 23° Festival di Cannes. La sceneggiatura horowitziana prende cognizione dal libro di James Kunen, The Strawberry Statement. Notes of a College Revolutionary, raccolta di articoli pubblicati dal New York Times sul periodo delle proteste studentesche alla Columbia University. “The strawberry statement” sta esattamente per “la dichiarazione delle fragole”, dove le fragole sono gli studenti in rivolta, nella scarsa considerazione che il preside del Collage ha di fronte  al moto di protesta, e che sollecitato ad un’opinione, più o meno recita: «Non mi preoccupo degli studenti più di quanto mi preoccupo delle fragole».

La trama è paradigmatica. Simon (Bruce Davison) è un giovane universitario. Di politica non si interessa, tanto che le busca pure da un suo compagno per lo scetticismo che mostra inizialmente nei confronti delle ragioni della protesta che sta nascendo nel suo Collage. Ma dopo un po’, spinto dall’interesse sentimentale che nutre per Linda (Kim Darby), militante attiva, si avvicina al movimento. I motivi della protesta hanno per immediato pretesto la destinazione di un campo da gioco, prima riservato agli afro-americani,  all’addestramento di militari da inviare in Vietnam. Gli studenti si incazzano e alla fine occupano l’istituto. Nel frattempo, l’onda della contestazione, dal pretesto immediato si allarga a temi più vasti: il razzismo, le discriminazioni sociali, la guerra, il femminismo, i diritti civili, etc… L’occupazione diventa, insomma, la palestra di un sana e sempre più convinta «presa di coscienza» politica. Più volte invitati a sgomberare, gli studenti, con Simon ormai in prima linea, rifiutano opponendo la loro resistenza non violenta. Finché, come vuole il  meccanismo perverso della repressione, entra in gioco la polizia a decretare, con le cattive, la fine della “dichiarazione delle fragole”. E nella scena finale, sulle note struggenti di Give peace a chance di John Lennon, che lasciano progressivamente campo fonico alle manganellate delle forze dell’ordine, alle sirene delle autoblindo, alle urla dei feriti, la resistenza di Simon, da passiva che era, diventa attiva. Titoli di coda? No, perché il fermo immagine del the end – Simon che comincia a menar le mani – apre, in realtà, su tutto quello che negli anni 70 ed ultra ne sarebbe seguito. E non solo in America.

Una ragazza presente all’incontro con Horovizt ha detto che a lei quella scena ricordava il G8 di Genova, al quale aveva partecipato. A noi, un po’ più attempati, è venuta in mente anche un’altra storia. Do you remember Valle Giulia? Roma, Italia, 1° marzo 1969. No? Vabbeh! Allora facciamola cantare a  Paolo Pietrangeli: «Undici e un quarto davanti a architettura, / non c’era ancor ragion d’aver paura / ed eravamo veramente in tanti / e i poliziotti in faccia agli studenti. / “No alla scuola dei padroni! Via il governo, dimissioni!” / Hanno impugnato i manganelli / ed han picchiato come fanno sempre loro; / ma all’improvviso è poi successo / un fatto nuovo: / non siam scappati più, non siam scappati più!».


(Paolo Pietrangeli, Valle Giulia, 1968)

E mo’, se qualcuno si stupisce ancora che  venga rivendicata come anche nostra quella battaglia allo stato sorgiva della rivolta generazionale del ’68 italiano, mi metto a snocciolare i nomi di tutti i fasci che quel giorno stavano in prima linea durante gli scontri con la polizia, e non la finisco più… Sì, vabbeh, lo so che poi è venuta l’improvvida spedizione di Almirante, Caradonna e dei loro picchiatori a rompere quell’unità generazionale anti-sistema. Ed è una delle più gravi colpe che vanno ascritte al leader missino di allora. Ma fra chi, dalle parti nostre, è stato morso dalla vipera libertaria di quel primo giorno di marzo, pochi hanno accettato di prendere, poi,  il siero per ritornare all’ordine dei diritti vietati e dell’obbedir tacendo.

Del resto, «chi è senza peccato scagli la prima pietra». Non fu infatti solo il Movimento sociale a sbagliare scagliandosi contro i suoi giovani. Pier Paolo Pasolini – che era ed è tutt’ora una delle icone intangibili della sinistra – in quello che è fra i pochi suoi interventi sciaguratamente miopi, dichiarò di essere stato idealmente, sempre in quel dì di marzo, dalla parte dei «celerini proletari» e contro gli «studenti borghesi». Non gli è neanche passato in mente che una lotta per i diritti civili giova sempre a tutti: borghesi e proletari, studenti braccianti e operai e perfino ai poliziotti. Se tanto mi dà tanto: alla visione di Fragole e Sangue, il poeta friulano avrebbe dovuto plaudire anche al pestaggio e alla gassificazione lacrimogena degli ultraborghesi studenti della Columbia University.

No, la realtà è più complessa di quella che gli schematizzatori  per partito preso pretendono che sia: il bene sempre da una parte, il male tutto e solo dall’altra. Non è mai così e la stessa vicenda  di produzione di questo film è, in tal senso, esemplare. Fateci caso: la pellicola sceneggiata da Horowitz è a conto spese e ricavati – come ricordavamo sopra – dalla Metro Goldwyn Mayer. Vale a dire una major dell’establishment economico-culturale americano che, in quanto tale, avrebbe potuto evitare di finanziare  un solare stato di accusa anche al suo potere. Non trovate almeno curioso che, invece, ne abbia fatto un cult? Che lo abbia fatto per vil denaro, cavalcando l’onda della nascente ribellione della gioventù americana, invaghita ormai perdutamente dei miti di Che Guevara, di Mao, di Martin Luther King è – come si suol dire – una delle tante contraddizioni del sistema capitalista. Il che non vieta a Fragole e Sangue di narrare, ancora oggi,  una storia di ribellione a chi non si è rassegnato alla cantilena ipnotica che ci vuole morti-viventi nel preteso migliore dei mondi possibili.