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Promemoria per gli usacentrici: il proficuo business del politically correct dell'imperialismo

di Claudio Moffa - 25/03/2010

 

Come si fa ancora a credere alla favola di un Israele “pedina” degli Stati Uniti in Medio Oriente, in nome – ovviamente - dei soli interessi petroliferi?


Dunque ci risiamo: arriva a Tel Aviv Joe Biden, vicepresidente USA, di origine ebraica, e Israele risponde picche alla richiesta ufficiale della massima potenza mondiale di bloccare le colonie selvagge in terra palestinese già annunciate nei giorni precedenti, alcuni giorni dopo la visita di Berlusconi. Le annotazioni possono essere tante – la violazione sistematica del diritto internazionale da parte israeliana, le nuove sofferenze dei palestinesi di fronte a questo ennesimo furto di terra e di acqua, il “diritto biblico” come base dell'ideologia espansionistica del sionismo – ma una riguarda noi, gli osservatori esterni in Occidente. E dunque la domanda, a ridosso di alcune prese di posizioni recenti, discussioni sia pure non approfondite, appelli circolanti in difesa dell'Iran, e con alle spalle soprattutto certi comportamenti omissivi almeno ventennali, è questa: come si fa ancora a credere alla favola di un Israele “pedina” degli Stati Uniti in Medio Oriente, in nome – ovviamente - dei soli interessi petroliferi? Come si fa a non capire che Israele è un tuttuno col sionismo internazionale, il quale non può ridursi soltanto all'occupazione della Palestina, come pretendono i furbetti di Radio Citta' aperta e Forum Palestina, ma è fenomeno e processo “totale” che coinvolge in Occidente soprattutto ma non solo, reti massmediatiche, ceti politici trasversali, istituzioni culturali e case editrici, presenze nei servizi segreti, nel Pentagono, nei governi e nelle magistrature (vedi quel voto della Corte Suprema pro elezioni di Bush jr a capo della Casa Bianca, emesso solo dopo che il futuro presidente USA aveva già inserito nella sua equipe i Cheney, Rumsfeld, il think thank bellicista dei neocons a pendant di Colin Powell)?

Sottolineo questo perché di volta in volta il politically correct del complottismo e dell'imperialismo, sorvola su fatti quali lo schiaffo di Nethanyau a Biden, e poi – passata e rimossa l'unità di notizia che mette in crisi la iperideologica visione usacentrica delle relazioni internazionali – ricomincia col ritornello della pedina, della coda del cane e così via. Alcuni in buona fede, altri no. Sarebbe a questo punto ora non solo di aprire gli occhi, ma anche di descrivere i fatti per quello che sono. Dai tempi di Mattei e Kennedy, fino ad oggi, Israele ha finito per trasformarsi da disturbatore ad hoc, in alleato paritario degli Stati Uniti, capace di bloccarne – facendo sponda anche sull'assassinio e sull'attentato stragista – ogni autonomismo in Medio Oriente: così fu quando Kennedy scrisse a Levy Eskhol chiedendogli di fare ispezionare la neonata centrale nucleare di Dimona e poi morì ammazzato; così fu nel dicembre 1990 quando Bush padre e il suo segretario di Stato Baker – nemico dichiarato della lobby israeliana – chiesero a Shamir di accettare una conferenza generale sul Medio Oriente inclusiva del Kuwait e della Palestina, ma Shamir disse no e fu guerra, col pushing attivo della lobby nel Congresso; così fu quando nel 1998 Clinton si incazzo' e “ordinò” a Nethanyau di ritirarsi da Cisgiordania ne Gaza – l'incontro più burrascoso fra USA e Israele, scrisse Abraham Yeohusha – e dopo quell'alzata di testa gli piovve addosso il caso Lewinsky; così fu il 2 ottobre del 2001 quando Sharon ricordò al Bush jr. tentennante la solita Monaco, e rifiutò di accondiscendere alla richiesta della Casa Bianca di far incontrare Peres e Arafat; così fu nel marzo 2003, la seconda guerra all'Iraq codecisa da Israele e i suoi ascari in Inghilterra e negli USA, come da denuncia di Saddam Hussein nella sua conferenza del giorno dell'invasione.


Così è oggi con il no a Biden: certo, il polemico e allusivo riferimento della Casa Bianca alla crisi del 1975 – quando Israele aveva rifiutato di ottemperare alla richiesta di Kissinger di ritirarsi dal Sinai – potrebbe voler dire che questa volta il pressing USA raggiungerà il suo scopo. Ma questa è per ora solo la speranza della Casa Bianca: e comunque, ove fosse pure vincente, quale pedina mai è un paese che riesce a resistere per mezzo secolo alla richiesta del suo "padrone" e giocatore di scacchi? Non è una pedina, è un cancro che penalizza e rende servi e ascari la Casa Bianca e tutti i ceti politici occidentali.

Sono fatti, fatti e fatti. Ci si può chiedere a questo punto perché il politically correct dell'imperialismo insiste nello sbagliare. Perché rifiuta di vedere le cose come stanno. La risposta è duplice: per chi è in buona fede è un attestarsi sul vecchio schema imperialista. Per chi è in malafede, e sono i più, è una forma di opportunismo, ma non quello ideologico e nobile denunciato da Lenin. E' bieco opportunismo pro domo propria, per guadagnare spazi mediatici e accesso ai finanziamenti: chi tace facendo il furbetto antiamericano fa i suoi business, riceve finanziamenti per la propria radiolina, spazi nelle case editrici tribali per i propri libri m-l doc, soldi per il propri giornalini rivoluzionari. L'appello pro Iran di Domenico Lo Surdo e Gianni Vattimo rientra perfettamente in questo quadro: alle loro spalle c'è Diliberto, con i suoi giri di amici minacciosi e potenti raccontati da Marco Rizzo e da Gioacchino Genchi. Quelli che perseguitano le teste veramente libere in Italia e nel mondo, assai più che un Bush un Obama un Berlusconi e quale che sia gentile abitante in quale che sia paese del pianeta terra.