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Libano: il martirio di una nazione

di Stenio Solinas - 30/03/2010

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Sembra che in questi ultimi tre anni il Libano abbia preso a crescere, economicamente parlando, a un ritmo frenetico. Beirut è tornata a essere una capitale del piacere e degli affari, il suo porto commerciale è pieno, quello turistico vede ormeggiate le barche più lussuose, le pubblicità invitano a godersi la vita al massimo e a ogni istante. Ancora nel 2006 lì piovevano le bombe israeliane dell’operazione Grappoli d’ira e la capitale ripiombava in quella che nell’ultimo trentennio è stata la sua condizione naturale: sangue e distruzione. È un popolo ostinato il popolo libanese, eroico nella tenacia con cui si piega e sopporta l’insopportabile. Il martirio di una nazione (il Saggiatore, pagg. 848, euro 35) è il saggio che Robert Fisk le ha dedicato e che esce ora in edizione italiana, libro complesso nel suo essere storia e cronaca, analisi geopolitica, riflessione sul mestiere giornalistico e sul mestiere delle armi, scritto da quello che per il New York Times è «il più famoso inviato di guerra del mondo».
Ancora oggi negli alberghi, nei salotti borghesi, nelle baracche dei campi profughi ritrovi sotto forma di stampe gli acquerelli che nella prima metà dell’Ottocento l’artista inglese David Roberts dedicò a Tiro e ai templi di Baalbek, a Sidone e alle montagne dello Shuf. Rappresentano la visione idilliaca di un mondo violento dove l’impero ottomano esercitava ancora il suo dominio, ma le potenze europee già andavano erodendolo anno dopo anno, fino a ridisegnarne i confini all’indomani della Grande guerra. Il Libano che geograficamente conosciamo nacque allora, ritagliato dai francesi su una minoranza cristiano-maronita che era insieme garante e sovrana della maggioranza drusa musulmana. Nel secondo dopoguerra, il protettorato francese lasciò il posto a una nazione indipendente in cui la condivisione del potere fra le due comunità poggiava dunque su un compromesso, sino ad allora tutelato da una potenza militare straniera e ora elevato a dottrina di Stato: come tale, fragile.
Il suo reggere per quasi un trentennio ebbe del miracoloso, alimentando in seguito il mito di una convivenza pacifica che non corrispondeva però a una realtà storica, né passata né coeva. A quel miracolo non fu estraneo il ritrovarsi a essere intersezione commerciale fra l’Europa e il Medio Oriente, centro finanziario dotato di un’economia aperta che lo faceva godere dell’indulgenza sia dell’Oriente sia dell’Occidente. Ma dietro di esso, a più riprese, negli anni Cinquanta come negli anni Sessanta, le frizioni e gli scontri sanguinosi fra le due comunità continuarono, favoriti anche da un impianto politico feudale, in cui famiglie cristiane e famiglie musulmane si fronteggiavano in piazza e in Parlamento avendo alle spalle milizie armate e non semplici partiti. Alla metà degli anni Settanta, l’intero sistema saltò per aria, complice anche l’ingrossarsi di una presenza palestinese trasformatasi nel tempo da realtà di profughi in presenza armata. Su quella che all’inizio si prospettò come una guerra civile fra maroniti e drusi, cristiani contro musulmani, se ne innescò una seconda, in cui i guerriglieri palestinesi si schierarono con quest’ultimi e una terza in cui la Siria giungeva in soccorso dei primi... Nel giro di un paio d’anni, all’invasione siriana si sarebbe aggiunta quella israeliana, un primo fallimentare contingente Onu, prodromi di ciò che negli anni a venire si sarebbe ripetuto con crudele monotonia, con un Paese trasformato in carne da macello, cambi di alleanze, eserciti invasori che si succedevano...
Scrive Robert Fisk che il sempre maggiore coinvolgimento di Israele in Libano significò per il suo esercito la perdita dell’innocenza. «La sua presunta invincibilità, con i suoi principi morali e i suoi obiettivi militari di lotta al “terrorismo” chiaramente formulati, non corrispondeva alla leggenda che si era creata. Gli israeliani si comportavano in modo brutale, maltrattavano i prigionieri, uccidevano migliaia di civili, mentivano sulle loro attività e stavano a guardare le milizie alleate massacrare gli abitanti di un campo profughi. In pratica, si comportavano in modo molto simile a quello degli “incivili” eserciti arabi che avevano regolarmente denigrato negli ultimi trent’anni. Il crollo della sua immagine fu un momento devastante nella storia d’Israele». In Israel’s Lebanon War, due analisti militari israeliani, Ze’ev Schiff e Ehud Ya’ari, riassumeranno così il senso di quella prima invasione del 1982. «Nata dall’ambizione di un uomo testardo e avventato, Sharon, essa era ancorata a un’illusione, motivata da un inganno e destinata a concludersi in un disastro». Nel film Lebanon, dell’israeliano Samuel Maor, Leone d’oro a Venezia lo scorso anno, questa specie di discesa agli inferi è resa in modo drammatico e potente.
Nel Martirio di una nazione Fisk scrive parole d’elogio per il contingente italiano che in quel 1982 andò in Libano. «Solo gli italiani sembravano capire perché fossero lì. Erano uomini umili, senza la boria e l’arroganza che gli americani e i francesi spesso inconsapevolmente mostravano nei confronti dei libanesi. Avevano ricevuto l’ordine di difendere Sabra e Shatila e lo fecero con grande dedizione, rifiutando di lasciarsi coinvolgere negli scontri che più tardi si sarebbero verificati tra la Mnf e i libanesi. Mentre i marines americani guardavano film importati da casa - Rambo2 era il loro preferito - gli italiani andavano a lezione di arabo. Il generale Franco Angioni distribuiva ai suoi soldati libri sulla storia del Libano. Per questo motivo, quando andavamo a trovarli a Shatila, gli italiani parlavano con cognizione di causa dei drusi, dei maroniti, dei musulmani sciiti. E non erano ottimisti come i loro colleghi».
Fisk ritiene che la storia del Libano sia «una storia di implosione ed esplosione insieme, di conflitto interno e pressione esterna, ma la sua è una tragedia - una storia - fatta di continui eserciti invasori che per entrare a Beirut sono ricorsi a negoziazioni, lusinghe, intimidazioni e assalti. Gli israeliani arrivarono, come i siriani, con atteggiamento innocente e la promessa di venire unicamente a ripristinare la sovranità del Libano... Come tutti gli altri eserciti si impegnarono a non fermarsi una sola ora più del necessario. E poi restarono per mesi, anni a dire il vero, fino a che non furono buttati fuori in modo disonorevole e doloroso. Hanno tutti marciato attraverso un lungo tunnel grigio, inevitabilmente sfociato in fumo marrone e brandelli di carne.
In Libano Fisk arrivò nel 1976, trentenne inviato del Times, e da allora non se n’è più andato. In quest’arco di tempo ha dovuto prendere atto di come i giornalisti divenivano loro malgrado obiettivi dello scontro in atto (rapimenti, esecuzioni), ha verificato l’escalation di una guerra asimmetrica che proprio qui ha visto l’apparizione dei primi attentatori suicidi, non si è mai accontentato di un giornalismo embedded al servizio del combattente di turno. A proposito dell’uso del termine «terrorismo» fa delle considerazioni coraggiose e sofferte: «Quando per il Medio Oriente adottiamo questa parola significa che ci stiamo schierando, non dalla parte della ragione o del torto, del bene o del male, di Davide o di Golia, ma con un gruppo di combattenti piuttosto che con un altro. Per i giornalisti che scrivono dal Medio Oriente, usare la parola “terrorismo” è quasi come portare la pistola. A meno che non la usi per tutti gli atti di terrorismo - cosa che non fa - il giornalista che la usa partecipa alla guerra. Diviene lui stesso un belligerante. In Libano significa anche che quel giornalista crede che i potentissimi eserciti e le milizie del Paese possano essere divisi fra “buoni” e “cattivi”. Ma questo non è possibile, in Libano sono tutti cattivi. Questo fu l’errore che commisero gli americani quando inviarono di nuovo i marines a Beirut nel settembre del 1982. Ignorandone la storia, convinti di poter stabilizzare il Paese, armati di certezze moralistiche che lì non esistono, condizionati da molti cliché, tornarono per ereditare un campo di sterminio».