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Home / Articoli / Il filo d'erba. Verso una teologia della creatura a partire da una novella di Pirandello.

Il filo d'erba. Verso una teologia della creatura a partire da una novella di Pirandello.

di Andrea Sciffo - 30/03/2010



 

 

È tornata. Verdeggiando, come sempre, dapprima chiara e quindi tenera poi man mano più sicura di sé: è la prima erba d’inizio primavera. Di nuovo qui, fedele come la stagione. Dopo i lunghi mesi oscuri dell'inverno, negli sprazzi non asfaltati delle nostre città scopriamo che è ricresciuta l'erba: anche senza confessarselo, qualcosa nel profondo di ognuno la saluta, come per un tacito accordo tra il nostro segreto e i misteri  del cosmo e delle stagioni. Anche se qualcuno si lamenta perché di recente è piovuto molto, e il grigio gioviale delle nuvole incombeva per settimane nel cielo delle città tristi… ma, per fortuna! Dicevano gli Antichi che OB CREBRAS PLUVIAS AGRI HERBIS VIRENT : per le fitte piogge, i campi verdeggiano d’erba.

La novella pirandelliana intitolata Canta l'Epistola uscì su “Il Corriere della Sera” il 31 dicembre 1911, in un giorno calante di una bigissima annata, tra le ultime di un'epoca che ignorava di ballare sul ponte di una nave destinata ad affondare stracarica, con tutte le luci accese, nel gorgo della Grande Guerra e, poi, della Mobilitazione Totale.

La tristezza inconsolabile di Pirandello scrittore fu, qui e altrove, simile all'istinto dei cani che guaiscono e uggiolano inquieti poco prima di un cataclisma: gli studenti italiani degli ultimi quarant'anni hanno dovuto affrontare per decenni le “desolate” parole dell'autore de Il fu Mattia Pascal vivendone il pathos, ma senza comprendere che il drammaturgo siciliano non fu soltanto il testimone oculare del naufragio dell'io nell'assurdo del Novecento. Ora ne esce un commento teologico di De Benedetti, che ha il merito di amplificare il valore del testo pirandelliano, restituendogli anche le ricchezze che esso non ha (e, di passaggio, segnalando la traduzione in italiano di un'operetta audace dal titolo Nanna, o l'anima delle piante di Gustav Theodor Fechner per Adelphi) e che potrebbe, se volessimo completare l'opera, trasportarci dentro l'ultima pagina di Uno, nessuno e centomila (scritta nel 1926) là dove la voce narrante del protagonista, impazzito per finta e poi per convenienza, rinchiuso in un manicomio per disprezzo alla condizione umana borghese, e sdrajato in mezzo all'erba, conclude che “così soltanto, io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo”.

Ma per chi contempla ancora oggi il crescere verdeggiante dell'erba nei prati, o nei ritagli sopravvissuti all'asfaltatura del mondo, tante strade si aprono come in un crocevia invisibile: lo testimoniano la poesia di Emily Dickinson (333, scritta nel 1862)

 

L'Erba ha così poco da fare -
Una Sfera di semplice Verde -
Con solo Farfalle da covare
E Api da intrattenere -

E agitarsi tutto il giorno alle amabili Melodie
Che le Brezze portano con sé -
E tenere la Luce del Sole in grembo
E inchinarsi ad ogni cosa -

E infilare Gocce di Rugiada, tutta le notte, come Perle -
E farsi così fine
Che una Duchessa sarebbe troppo comune
Per degnarla di uno sguardo -

E anche quando muore - trapassare
In Odori così divini -
Come Umili spezie, che giacciono nel sonno -
O Nardi indiani, morenti -

E poi, in Sovrani Fienili dimorare -
E sognare i Giorni lontani,
L'Erba ha così poco da fare
Che vorrei essere Fieno -

 

 

e il cantato aperto di Walt Whitman (Foglie d’erba, 1855-1881: Canto di me stesso, parte 6)

 

Che cos'è l'erba? mi chiese un bambino, 
   portandomene a piene mani; 
Come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che 
   cosa sia. 
Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione, 
   fatto col verde tessuto della speranza. 

O forse è il fazzoletto del Signore, 
Un ricordo profumato lasciato cadere di proposito, 
Con la cifra del proprietario in un angolo sicché 
   possiamo vederla e domandarci di Chi può 
   essere?
 

O forse l'erba stessa è un bambino, il bimbo generato 
   dalla vegetazione. 

O un geroglifico uniforme 
Che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in 
   strette fasce di terra, 
Fra bianchi e gente di colore, 
Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, gente 
   comune, io do loro la stessa cosa e li accolgo 
   nello stesso modo. 

E ora mi appare come la bella capigliatura delle 
   tombe. 

Ti userò con gentilezza, erba ricciuta, 
Forse traspiri dal petto di giovani uomini, 
Che avrei potuto amare, se li avessi conosciuti, 
Forse provieni da vecchi, o da figli ghermiti appena 
   fuori dai ventri materni, 
Ed ecco, sei tu il ventre materno. 
Quest'erba è troppo scura per uscire dal bianco capo 
   delle nonne, 
Più scura della barba scolorita dei vecchi, 
È scura per spuntare dal roseo palato delle bocche. 

Oh nonostante tutto io sento il parlottio di tante 
   lingue, 
E comprendo che non esce dalle bocche per nulla. 

Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle 
   fanciulle, 
Gli accenni ai vecchi e alle madri, ai rampolli ghermiti 
   ai loro ventri. 

Che cosa pensate sia avvenuto dei giovani e dei 
   vecchi? 
E che cosa pensate sia avvenuto delle madri e dei 
   figli? 

Vivono e stanno bene in qualche luogo, 
Il più minuscolo germoglio ci dimostra che in realtà 
   non vi è morte, 
E che se mai c'è stata conduceva alla vita, e non 
   aspetta il termine per arrestarla, 
E che cessò nell'istante in cui la vita apparve. 

Tutto continua e tutto si estende, niente si annienta, 
E il morire è diverso da ciò che tutti suppongono, e 
   ben più fortunato. 

 

 

infine, la lirica di Giuseppe Ungaretti (da IL DOLORE- I ricordi, 1942/’46)

 

NON GRIDATE PIU’


Cessate d'uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.

Hanno l'impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell'erba,
Lieta dove non passa l'uomo.

1942/1946

 

L’erba verde è sempre portatrice dell’estrema umiltà del Creato, per il suo colore pronto a cedere il passo all’insulto di tinte sporche e stupratrici (i bruni defecati dei cani di città, il grasso degli oli meccanici, il cinerino dello smog e degli scarichi): infatti, quando un vivente attraversa un prato erboso, lo calpesta perché capisca di lasciare un segno, perché mediti e rifletta sul fatto che “le azioni hanno conseguenze, che ci seguono”, come la traccia che i nostri passi segnano quando schiacciano gli steli del manto erboso, e a cui i fili d’erba rispondono, come? Emanando un effluvio soave di verde.

Pirandello non voleva ammettere la Creazione, il mondo visto dal di dentro? L’altra vita? Tutto il suo delirante dramma novecentesco è aver negato via via ciò che via via trovava come evidente: che l’altra parte non solo c’è ma è già qui, in anticipazione, nelle cose che la indicano, cioè in tutte le cose. Che l’erba è la miniatura dell’albero, in quest’ottica trasparente: e ciò che le si fa condiziona ciò che ci viene fatto. Un detto chassidico di Rabbi Nachman di Brazlav diceva: se un uomo uccide un albero prima del suo tempo, è come se avesse ucciso un'anima.

Così, mentre il disboscamento della Lombardia, dell’Europa e del Pianeta prosegue inarrestabile come un genocidio muto (e taciuto, anche proprio mentre noi scriviamo adesso…) appare il gesto inutile e criminogeno della Mentalità Moderna: continuare a pavimentare le distese d’erba o a tagliare gli alberi per qualunque motivo, cioè senza motivo, e poi piangere lacrime stolte quando lutti infiniti e mali osceni si abbattono su di noi, nella calura unta delle estati metropolitane o nei tetri inverni del traffico veicolare oscurato dalle caldaie. Un disastro per i polmoni dei bambini, di cui tardivamente si accorge persino Il Corriere della Sera. Però, bisognava pensarci prima.

Il grigio combatte la sua battaglia finale contro il verde, sotto i nostri occhi. Dobbiamo prendere posizione. Per chi ha scelto di giustificare questa Società tardo-Industriale, non ci sono vie d’uscita né spiegazioni: il respiro è corto. Ma esistono anche altre correnti, nascoste come linfa; per questo, viste dal di dentro o dall’altro mondo, o dalle zolle, le stagioni dell’uomo sono sempre primavera.

 

Il filo d'erba. Verso una teologia della creatura a partire da una novella di Pirandello. 

di Paolo De Benedetti (Morcelliana, 2009; pp.55 euro 5,00)