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Proposte per l’Alternativa: valorizzare il lavoro, non soltanto subordinato

di Stefano D'Andrea - 01/04/2010

Proposte per l’Alternativa: valorizzare il lavoro, non soltanto subordinato ma anche autonomo, in tutte le sue forme

Premessa

Con questo articolo proseguiamo il nostro “Che fare?” e ci auguriamo di recare un contributo al dibattito, avviato meritoriamente da Giulietto Chiesa, volto alla costituzione di una formazione politica che non sia “né comunista né di sinistra” (sono parole di Giulietto Chiesa) e che ovviamente non dovrà essere né fascista né di destra.

In un precedente articolo abbiamo preso le mosse da un importante e breve saggio di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, Lettera dal fondo dello sfacelo, del quale abbiamo condiviso la premessa e l'obiettivo, ridefinendo quest'ultimo in modo, crediamo, più preciso: "occorre far nascere un partito che contesti le idee che negli ultimi trenta anni hanno guidato e mosso le scelte politiche e quindi la legislazione dei rapporti sociali, economici, civili, umani e politici e che si faccia portatore delle idee opposte. Far nascere un simile partito deve essere l'unico obiettivo di chi voglia lottare per risollevare il nostro paese dalla situazione di sfacelo nella quale è venuto a trovarsi" (l'articolo si può leggere qui). 

Un’idea che ha dominato e condotto la legislazione, (almeno) negli ultimi venti anni, è stata senz’altro quella di valorizzare il capitale a danno del lavoro. Questa idea ha dominato sia la legislazione emanata dal centrosinistra, sia la legislazione emanata dal centrodestra; e ha dominato anche la legislazione emanata dai governi tecnici che hanno preceduto la (e aperto la strada alla) formazione del partito unico delle due coalizioni.

Come è naturale,  nessun attore politico  (se si eccettuano sporadiche e poco rilevanti eccezioni) ha mai asserito espressamente e pubblicamente che si dovesse valorizzare il capitale a scapito del lavoro. L’idea, con particolare riguardo al lavoro subordinato,  è stata nascosta dalla invocazione della necessità: il “mercato” del lavoro in Italia sarebbe stato ingessato; senza le necessarie riforme avremmo perso “competitività”; la globalizzazione (il mercato mondiale dei beni e dei servizi)  era una necessità o addirittura un dato di fatto (e non un fine perseguito mediante l’emanazione di leggi e la stipulazione di trattati internazionali), che “imponeva” di tener conto della concorrenza internazionale; urgeva dunque ed era anzi necessario rendere “flessibile” (ossia precario) il lavoro subordinato; così come era necessario  introdurre una crescente moderazione salariale; la “gobba” della curva delle prevedibili entrate e uscite dell’inps, infine, avrebbe reso necessarie le riforme delle pensioni.

L’idea

L’idea “opposta” è che occorre valorizzare il lavoro.

Essendo pacifico che il lavoro subordinato è stato colpito con riforme che hanno inciso ora sulla stabilità del rapporto, ora sull’ammontare delle future pensioni, ora sul salario (mediante una prolungata politica di moderazione salariale), vogliamo soffermarci, più con indicazioni che con spiegazioni, su altre riforme che hanno colpito il lavoro; con la precisazione che il lavoro che è stato colpito non è soltanto quello dei lavoratori subordinati, bensì anche quello dei lavoratori autonomi: quello veramente autonomo, non quello formalmente autonomo ma in realtà subordinato e anzi ultrasubordinato. Infatti, se è vero che il lavoro dipendente è subordinato al capitale, è anche vero che il lavoro autonomo è (precisamente può essere) in concorrenza con il capitale o ha per controparte il capitale (è prestato a favore di quest’ultimo). Le forme dello scontro tra capitale e lavoro, insomma, sono numerose e non riducibili al conflitto tra lavoro subordinato e capitale del datore di lavoro.

Il tema che stiamo per trattare, quindi, dovrebbe essere uno dei cardini della formazione politica che si vuole che nasca. Infatti, intendiamo soffermarci sulle riforme (o sulle interpretazioni di norme giuridiche) che hanno colpito il lavoro autonomo  al fine di dimostrare che il partito che deve nascere – deve perché è l’unica possibilità per tentare di risollevare l’Italia dalla situazione di sfacelo nella quale è caduta – dovrà avere la capacità, da un lato di unire i lavoratori, sia autonomi che subordinati, dall’altro e previamente di individuare tutti i meccanismi giuridici con i quali il lavoro è stato colpito in modo da poter proporre controriforme. Quei meccanismi appartengono  a tre specie. Quelli che hanno colpito direttamente il lavoro subordinato e che sono noti e indiscussi e che in questa occasione tralasceremo. Quelli che hanno colpito, sia pure indirettamente, il lavoro in sé, subordinato ed autonomo ed ai quali sarà dedicato un prossimo articolo. E quelli che hanno colpito direttamente il lavoro autonomo, che invece andiamo ad indicare e brevemente spiegare, perché il “mondo del lavoro” (inteso purtroppo e maledettamente troppo spesso come il mondo del lavoro subordinato) si è sempre disinteressato ai problemi del lavoro autonomo (ovviamente è vero anche il contrario) ed anzi sovente ha aderito alle sirene neoliberiste e quindi è caduto nella trappola del capitale costruita, come al solito, attraverso la formula del divide et impera.

I liberi professionisti.

I liberi professionisti sono stati colpiti in vario modo. Ci limitiamo a segnalare tre aggressioni che hanno svalutato il lavoro dei liberi professionista a vantaggio del capitale.

1. In primo luogo, i liberi professionisti sono stati colpiti dalla abolizione dei minimi tariffari. La ideologia comunemente definita neoliberista, che forse meglio si dovrebbe nominare “mercatista, globalista e concorrenzialista” ha sostenuto che la riforma era necessaria per affermare la regola del libero gioco della domanda e dell’offerta: per introdurre la concorrenza in un settore protetto. Complessivamente, asserivano i sostenitori del pensiero unico, introdotta la riforma legislativa, sarebbero diminuiti i compensi percepiti dai liberi professionisti e ciò a tutto vantaggio dei “clienti” e quindi anche dei “consumatori”. Qui l’obiettivo di impoverire i liberi professionisti era dichiarato ed esplicito. L’impoverimento avrebbe dovuto consistere in tutta quella parte dei compensi che i professionisti riuscivano fino ad allora a percepire per mezzo dei minimi tariffari, i quali li sottraevano (secondo l’ideologia concorrenzialista) al libero gioco della domanda e dell’offerta.

La premessa del ragionamento seguito dai sostenitori del pensiero unico era falsa e perciò le conseguenze della modifica legislativa sono state diverse da quelle “previste” (in buona o mala fede). Credo di poter dire con assoluta certezza che in questi anni  non è mai accaduto che un comune cittadino, anche nella qualità di piccolo imprenditore o commerciante, si sia presentato da un libero professionista comportandosi nel modo (falsamente) presupposto dai teorici neoliberisti. Consideriamo, per esigenze di semplificazione, la figura dell’avvocato. Il comune cittadino, che magari si presenta dall’avvocato per sottoporgli casi di modesto valore, non vuole comportarsi come presuppongono i  “concorrenzialisti”; non ama comportarsi in quel modo; non lo reputa giusto né, soprattutto, opportuno, perché sa che se si reca da tre avvocati per chiedere i “prezzi” e li fa lavorare (tra appuntamenti, colloqui  e studio preliminare del caso) anche soltanto sei ore ciascuno deve intanto retribuirli per le (almeno) diciotto ore di lavoro. Il cittadino è un uomo serio, dotato di moralità e senso di responsabilità e rispetto per il lavoro altrui (al più è disonesto perché non paga); non è lo stupido, arido, aziendalistico, miserabile homo oeconomicus che i concorrenzialisti economicisti credono che sia – in realtà i concorrenzialisti più intelligenti e quindi più malefici sanno che il cittadino non è come la loro pseudoteoria presuppone e vogliono mutamenti legislativi volti a trasformare il cittadino in quell’essere bestiale e senza dignità presupposto dalla loro pseudoscienza.

Si potrebbe obiettare che se nulla è cambiato, allora l’abolizione dei minimi tariffari non ha comportato un impoverimento dei liberi professionisti. Ma l’obiezione sarebbe del tutto infondata. Perché se il comune cittadino non ha approfittato dell’abolizione dei minimi tariffari – non avrebbe saputo, non avrebbe voluto e non ne avrebbe avuto il potere – al contrario, le grandi imprese capitalistiche (assicurazioni, banche e multinazionali di vario genere)  avendone il potere, hanno approfittato della nuova disciplina. Prima erano costrette a stipulare convenzioni con i professionisti che prevedessero il pagamento dei minimi tariffari. Ora stipulano convenzioni che prevedono il pagamento di una percentuale dei minimi, per esempio il 60%. Con la conseguenza che il piccolo professionista che fatturava diecimila euro l’anno ad una grande impresa, ora ne fatturerà seimila – quattromila euro trasferiti dal lavoro del professionista al capitale – e il grande professionista che ne fatturava centomila ne fatturerà sessantamila – quarantamila euro trasferiti dal lavoro del professionista al capitale. Soltanto le grandi imprese capitalistiche (e invero anche le pubbliche amministrazioni), le quali conferiscono più incarichi annuali al professionista, e quindi possono approfittare del potere di ricatto fondato su  questa quantità – la quale consente al professionista di lavorare al di sotto dei minimi, facendo affidamento su un certo flusso di denaro che assicuri il pagamento delle spese dello studio – hanno beneficiato dell’abolizione del divieto di pattuire compensi inferiori ai minimi tariffari. Si è trattato, dunque, di un puro trasferimento di ricchezza dal lavoro (autonomo) al capitale. Trascuriamo, in questa sede, perché fuori tema, il fatto che gli avvocati sono stati “compensati” con la possibilità di stipulare un patto di quota lite – fino ad ora vietato da oltre duemila anni –  che essi hanno il potere di imporre ai più poveri dei comuni cittadini, ma non certo alle grandi imprese capitalistiche. Alla fine coloro che ci hanno rimesso sono stati proprio i comuni cittadini (e segnatamente i più poveri tra di essi), ossia coloro che secondo l’ideologia e la pseudoscienza neoliberista, avrebbero dovuto trarre vantaggio dalla riforma legislativa.

2. In secondo luogo i liberi professionisti sono stati colpiti dal fatto che il legislatore non ha difeso e anzi ha lasciato aggredire ed eludere il principio del carattere personalissimo della prestazione professionale. L’elusione è avvenuta a causa della diffusione dei grandi studi professionali di stampo angloamericano. Dispone, infatti, l’art. 2232 cod. civ., sotto la rubrica “Esecuzione dell’opera” che “Il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto. Può tuttavia valersi, sotto la propria direzione e responsabilità di sostituti ed ausiliari, se la collaborazione di altri è consentita dal contratto o dagli usi e non è incompatibile con l’oggetto della prestazione”. Orbene, nessuna tenace lotta è stata condotta contro gli studi professionali angloamericani o di stampo angloamericano, che si sono ampiamente diffusi e nei quali centinaia di “liberi professionisti” sono di fatto “assunti” (sono in realtà lavoratori subordinati con ampi tratti di lavoro servile), per lavorare mediamente (minimo) settanta ore a settimana, da pochi “soci”, i quali, già a causa dell’enorme numero dei “dipendenti” e degli incarichi, si valgono di sostituti e ausiliari che, esattamente come avviene nelle grandi imprese, operano sotto la direzione di altri “professionisti” che, a loro volta, rispondono nei confronti di alcuni “caposettore”, i quali (al più) operano sotto la direzione dei soci (quando questi ultimi non svolgono soltanto l’attività di pubbliche relazioni). Questi studi di stampo angloamericano sono fondati essenzialmente sul capitale – e infatti implicano enormi investimenti di capitale (gli studi sovente acquistano, sia pure per interposta persona, immobili che valgono decine di milioni di euro nel centro delle grandi città italiane) – e su quella forma specifica di capitale che è costituita dalle pubbliche relazioni (è la legislazione o l’orientamento giurisprudenziale che ammette i grandi studi di stampo angloamericano a “trasformare” in capitale le pubbliche relazioni). Orbene il principio del carattere personalissimo delle prestazioni professionali implica che se un libero professionista ha talmente tante capacità nelle pubbliche relazioni da riuscire ad ottenere mille incarichi annuali, novecento li deve rifiutare, perché è impossibile che gli incarichi vengano svolti  direttamente da sé medesimo o dagli ausiliari sotto la sua personale direzione. Invece, di fatto, si consente di aggirare il divieto ammettendo la costituzione di quelle che, al di là della forma, sono società di capitali che svolgono attività professionale mediante “professionisti dipendenti” (anche se formalmente autonomi), sebbene, talvolta, ben pagati. E’ agevole concludere che, ammettendo la possibilità di costituire validamente questi grandi studi professionali, si trasferisce ricchezza dal lavoro (dei professionisti dipendenti e dei professionisti che non operano nella “forma” del grande studio, i quali, se non esistessero i grandi studi professionali, avrebbero un maggior numero di incarichi) al capitale (appartenente a coloro che, avendo molte relazioni importanti e soldi da investire e magari ignorando completamente i principi essenziali della professione, sono “soci” del grande studio professionale). Ed è appena il caso di osservare che i professionisti formalmente autonomi sono vincolati da un rapporto che ha tutti i lati negativi del rapporto di lavoro subordinato (in particolare la specializzazione) e non ne ha invece le tutele (orari anche doppi rispetto al lavoratore subordinato; nessuna garanzia contro il “licenziamento”, che ovviamente non sarà denominato così ma che è un vero e proprio licenziamento; e così via).

Anche in questo caso il lavoro è stato colpito lasciando libero di operare il principio della libera concorrenza, che è stata intesa come possibile concorrenza del capitale – che si avvale di lavoro subordinato (formalmente libero) – al lavoro autonomo.

3. Infine, i liberi professionisti (e i cittadini più poveri e meno in grado di scegliere i professionisti che forniscono un servizio di qualità) sono stati colpiti dalla ideologia della concorrenza in un terzo modo: attraverso l’abbassamento dei criteri di valutazione degli aspiranti professionisti negli esami di abilitazione alla professione il quale ha consentito a migliaia di persone laureate o diplomate di esercitare la professione dopo aver superato un facile esame di abilitazione.

L’ideologia concorrenzialista ha tuonato contro la stessa esistenza di esami di abilitazione (ma c’è fortunatamente un articolo della Costituzione, che li prevede: art. 33, comma 5 ) e a favore dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio. E’ il “mercato” che dovrebbe decidere chi può e chi non può fare il libero professionista; ed è il “mercato” che dovrebbe decidere se un professionista deve avere molti o pochi clienti. Di questo passo la strada per l’ammissibilità della pubblicità relativa alle attività professionali sarà presto aperta (e infatti già si sono avuti i primi varchi).

Orbene, le conseguenze di un numero elevato di professionisti e della mancanza di un severo esame volto ad accertare la preparazione dei medesimi – le conseguenze vere, non quelle asserite dai sostenitori della pseudoteoria mercatista – sono le seguenti: i) abbassamento del livello medio delle prestazioni professionali; ii) riduzione dei compensi dei professionisti; iii) crescita delle spese, perché nel mercato aperto delle professioni, non diversamente dal mercato aperto dei beni e degli altri servizi, l’immagine diventa importante: e immagine significa costi.

I commercianti.

Anche il lavoro dei commercianti è stato aggredito dalla ideologia concorrenzialista. Invero i commercianti conferiscono necessariamente nell’attività economica un capitale. Ebbene, la ideologia concorrenzialista ha aggredito non soltanto il lavoro, bensì anche il capitale (sovente un modesto capitale) dei piccoli commercianti.

Segnalo tre aggressioni, tutte dipendenti dall’affermazione del “valore” della concorrenza: la diffusione del contratto di franchising; la proliferazione dei grandi centri commerciali; la sostanziale liberalizzazione delle licenze.

1. Il franchising, generalmente “tradotto” dai giuristi come contratto di affiliazione, meglio dovrebbe essere definito come contratto di sottomissione. Il suo contenuto, infatti, pur variando da caso a caso, può giungere ad essere il seguente: 1) tu affiliato (sottomesso) ti obblighi a prendere in locazione un immobile nella zona da me indicata o sulla quale consento; i metri quadri che deve avere te li indico io 2) lo arredi come dico io; o meglio se intendi arredarlo devi acquistare gli arredamenti da me, compresi manifesti pubblicitari e simili; 3) fai vestire il personale come ti indico io; 4) acquisti da me la merce, e ti dico il minimo che devi acquistarne (per esempio 200.000 euro di merce); 5) ti è vietato acquistare merce da altre imprese; 6) devi pagare una somma (per esempio 150.000 euro) per entrare nella mia rete commerciale. "In cambio", io affiliante, a) ti faccio vendere (in esclusiva, ma non sempre) nella zona prodotti con il mio marchio; e b) ti insegno a vendere, ossia ti do il cosiddetto know how, altro termine ipocrita, così come il termine affiliazione. Infatti, si deve osservare: i) che se l'affiliato ha l'obbligo di acquistare merci dall'affiliante (o comunque l’obbligo di non acquistare merci da altri fornitori), il diritto sub a) non è tale: un comportamento dovuto non può essere contemporaneamente oggetto di un diritto; ii) che il saper vendere (il know how), a parte costosi "corsi" che insegnano la gentilezza commerciale, si risolve nella imposizione degli obblighi relativi all'ampiezza, ubicazione e arredamento dei locali e al vestiario delle commesse e nell’uso delle insegne e del marchio che l’affiliato è tenuto ad utilizare.
Che scambio si realizza con il franchising? Nessuno: io mi asservo e in cambio tu mi asservi.

La validità di tale contratto atipico si è andata affermando, in primo luogo, sotto la spinta di una giurisprudenza esterofila che consentiva la licenza di marchio e di insegna anche quando esse dovevano considerarsi vietate e poi in forza di una modifica legislativa dell’art. 2573 cod. civ. avvenuta, ovviamente, per la necessità di adeguare il diritto interno al diritto comunitario.

Tutti possono constatare come in molti settori commerciali quasi non vi siano negozi che non siano in franchising e come, per ragioni che è agevole comprendere e che perciò non vale la pena spiegare, il franchising vada diffondendosi sempre più, imponendo così ai commercianti di ritirarsi o di sottomettersi. E’ agevole osservare che i commercianti in franchising hanno perduto autonomia rispetto ad un tempo (e per certi versi sono più subordinati dei lavoratori dipendenti) ed abbiano mediamente perduto guadagni a favore dei produttori titolari dei marchi e dell’insegna. Ancora una volta un puro trasferimento di ricchezza dal lavoro del piccolo commerciante (o dal piccolo capitale risparmiato dal medesimo) al grande capitale.

2. La politica volta ad agevolare la diffusione e moltiplicazione dei centri commerciali ha imposto a molti commercianti contratti di affitto molto onerosi e che prevedono royalty altrettanto onerose a favore dei proprietari dei grandi centri commerciali. Inoltre anche l’arredamento di tali negozi è molto oneroso, al punto da imporre mutui e notevoli scoperti con le banche (e quindi il pagamento di interessi). Se poi si considera che molti di quei negozi sono in franchising si comprende agevolmente come oggi i negozianti guadagnino (proporzionalmente) molto meno rispetto a venti anni fa. Essi lavorano anche settanta ore a settimana per valorizzare il capitale (il capitale marchio; il capitale insegna; il capitale immobiliare; il capitale del produttore).

3. Infine anche la riforma del commercio, che ha eliminato o ampiamente ridotto i presupposti delle licenze, al fine di introdurre la mortifera e diabolica concorrenza, ha ridotto il valore del lavoro dei commercianti. Se per esempio consideriamo i bar, possiamo agevolmente constatare che quasi tutti hanno dovuto sostenere grandi investimenti, per banconi, macchine, tavoli e servizio, imposti, ancora una volta dalla concorrenza. Grandi investimenti significa ingenti debiti e quindi notevoli interessi pagati alle banche.

In conclusione è certo che, mediamente, oggi i commercianti, sebbene lavorino molto più rispetto a venti anni fa (sono tanti i giorni di festa in cui, per una o altra ragione, i negozi sono aperti; nei centri commerciali, poi, essi sono sempre aperti), guadagnano molto meno di quello che guadagnavano venti anni fa.

Sintesi.

Il concetto ideologico che ha colpito il lavoro, subordinato o autonomo, è stato il concetto di concorrenza. Concorrenza tra operai appartenenti ai diversi paesi europei e concorrenza dei nostri operai con gli operai dei paesi “in via di sviluppo”. Concorrenza tra professionisti, concorrenza del capitale (grandi studi professionali) con il lavoro autonomo; concorrenza tra commercianti. Lottare contro questo concetto non significa desiderare i monopoli e gli oligopoli. Significa non essere fanatici della continua trasformazione; del continuo reinvestimento; del generale indebitamento dei piccoli imprenditori; della lotta abominevole dei professionisti per la conquista del cliente. Significa proteggere il lavoro subordinato italiano mettendo in discussione la libera circolazione delle merci e dei capitali (quindi le delocalizzazioni) e cioè, da un lato, la cosiddetta globalizzazione (un obiettivo che è stato perseguito, non una situazione di fatto o una necessità, come è stato sostenuto), dall’altro, il mercato unico europeo.

Si tratta di un concetto ideologico, come ben spiega il franchising, il quale, essendo per lo più caratterizzato dall’esclusiva, è intrinsecamente una limitazione della concorrenza (la quale, ovviamente, viene invocata quando serve agli interessi del capitale, non quando li ostacola).

Ci hanno messo gli uni contro gli altri a lottare ferocemente per resistere e spesso a lavorare per le banche titolari dei crediti, perché per resistere siamo stati costretti a contrarre debiti. L’ideologia diceva che sarebbero scesi i prezzi (la concorrenza farebbe scendere i prezzi). Ma se ciò è stato vero, non ne è derivato un maggiore nostro risparmio, essendo quest’ultimo (per ragioni che meriterebbero un altro articolo) diminuito di trenta punti in percentuale proprio negli anni della concorrenza. L’effetto sicuro è che il lavoro – autonomo o subordinato – si è mediamente svalorizzato a favore del capitale.

La formazione politica che deve nascere dovrà avere un programma chiaro, che è il seguente: stabilizzare il rapporto di lavoro subordinato; cessare la politica di moderazione salariale; evitare la concorrenza dei nostri operai con gli operai dei paesi in via di sviluppo, per mezzo delle necessarie misure protezionistiche (le quali sono esercizio della sovranità); seri esami di abilitazione all’esercizio delle professioni; minimi tariffari; divieto della licenza di insegna e di marchio (Benetton e i suoi simili acquistino gli immobili da adibire a negozi, assumano i dipendenti e vendano al dettaglio con i rischi che ne conseguono; oppure si limitino a vendere la merce a chiunque ne faccia loro richiesta senza poter pretendere l’esclusiva); chiusura dei grandi centri commerciali (osceni anche per mille altre ragioni); reintroduzione di una razionale disciplina delle licenze di commercio (purtroppo non ho conoscenza alcuna del settore agricolo; ma è chiaro che il programma dovrà essere integrato con provvedimento a favore dei produttori e che vadano a sfavore degli intermediari). E’ la nostra tradizione, che abbiamo gettato nella pattumiera per immergerci e affogare nel mercato globale e nel mercato unico europeo.

Un simile programma è idoneo a persuadere un’ampia base sociale, che invece è sempre stata divisa. Per colpa del centrosinistra, che ha continuato (a parole) a difendere il solo lavoro subordinato (che invece veniva sacrificato nei fatti); e per “merito” del centrodestra, il quale, collocando dalla stessa parte tutti coloro “che si fanno da sé”, “che sono liberi”, “che producono”, “che hanno inventiva”, è riuscito ad unificare in un'unica categoria il barbiere di periferia di una cittadina di provincia e Berlusconi.

Deve, tuttavia, essere chiaro che l’adozione di un simile programma implica che la forza politica che ci auguriamo che nasca sia contraria alla libera circolazione delle merci e dei capitali e quindi antieuropeista (il diritto comunitario prevede il franchising; consente al praticante avvocato di recarsi in Spagna e di diventare avvocato senza superare un esame di abilitazione; non consente misure protezionistiche; ecc.). Né ha alcun senso sfuggire alla necessità dell’antieuropeismo sostenendo che si è contro questa Europa e a favore di un’altra Europa. Sarebbe pura ipocrisia (se si è in mala fede) o ingenuità (se si è in buona fede). L’Europa è quella che è; quella che risulta dai trattati europei, i quali hanno una storia di parecchi decenni. Al più possiamo ammettere che i buonisti continuino a dire che essi vogliono un’altra Europa, che ci sarà tra trent’anni. Ora però sono chiamati a distruggere l’Europa che c’è.