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Antonio Pennacchi. Canale Mussolini

di Annalisa Terranova - Miro Renzaglia - 08/04/2010




NEL CANALE MUSSOLINI LA MEMORIA DEL 900
…E VENNERO I GIORNI DELLA CREAZIONE

Annalisa Terranova

Romanzo storico, più che romanzo epico, l’opera più appagante di Antonio Pennacchi, Canale Mussolini (Mondadori, pp. 460, € 20,00), in corsa per il Premio Strega, è soprattutto una saga familiare. Quella dei Peruzzi, trasportati dagli eventi e dalla fame dal Veneto alle terre della bonifica, come altre famiglie chiamate a redimere le paludi pontine dal fascismo caparbio e modernizzatore. Un’impresa che meritava il suo racconto, se non agiografico, almeno onesto. E quello di Pennacchi è un bel racconto, a volte ironico, a volte commovente, comunque sempre partecipe di quella sostanza “mitica” che sta dietro l’opera demiurgica della creazione di terra nuova.  Proprio così, Terra nuova si chiama infatti la prima cronaca dell’Agro Pontino di Corrado Alvaro, che non a caso parla a proposito della bonifica dei “giorni della creazione”, avvenuta tramite la separazione della terra dalle acque: cominciava la vita.

Una vita diversa da quella che lì avevano fatto fino a quel momento gli eterni pastori locali, costretti a sopravvivere ai margini dell’Agro. Scrive infatti Corrado Alvaro: «Il canale corre come un vecchio fiume, opaco e verde; ma là dall’argine erboso le case azzurre dei coloni avanzano come un esercito ordinato, e sulle soglie di esse i contadini lavorano alle opere di cinta e all’aiuole dei giardinetti… l’uomo, metro per metro, metterà un ordine familiare e umano, stabilendo le sue consuetudini di vita, il geranio e la margherita davanti alla casa, e l’aiuola su cui disegna con la ghiaia bianca le sue scritte di Evviva, la Stella e il Fascio».

Il canale è lo stesso Canale Mussolini attorno a cui ruota il romanzo di Antonio Pennacchi: acqua ribelle alla fine domata e ridotta alla ragione, ricondotta negli argini, sottomessa. «È il Canale Mussolini che dà vita a tutto l’Agro e se non ci fosse lui, staremmo di nuovo tutti sott’acqua». La terra che emerge dall’acqua è il risultato di un evento mitico, che necessita di attori, di testimoni, di protagonisti. Pennacchi ce li presenta con il loro dialetto da “cispadani”, grazie al filo delle memorie della voce narrante, e il lettore non se li dimenticherà più.

«Noi arrivammo in trentamila – leggiamo nel romanzo – a popolare come birilli inermi questo tappeto di biliardo, un vuoto senza fine tutto asciutto e terra vergine. Sembrava il deserto e la nonna dei Toson appena la sbarcarono dal camion disse proprio: “Ma qui ghe xè il deserto” e scoppiò a piangere ed urlare». Quel deserto col passare delle settimane e degli anni diventerà terra irrigata dove ricominciare da capo.

Per la coralità dell’azione Canale Mussolini è stato giustamente paragonato al Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, ma la storia dei Peruzzi fa venire in mente anche altre famiglie care alla storia letteraria italiana, famiglie in cerca di riscatto sociale, famiglie che lottano con la fame e per la sopravvivenza. Il romanzo dei Peruzzi, anche per questo, può essere considerato un po’ come I Malavoglia di Giovanni Verga. Verista resta lo stile e l’ispirazione di fondo dell’autore, ma diverso è il finale: la sorte riserva ai nuovi nuclei dell’Agro Pontino un insperato benessere, nonostante la guerra, e non c’è la condanna del fato per il tentativo di disincagliare l’ostrica dallo scoglio, bensì il plauso dei posteri per un’impresa riuscita che sembrava impossibile. Ci sono gli umili in quel romanzo e in questo: solo che da una parte rimangono sconfitti, qui invece risultano vittoriosi.

Poi c’è il fascismo. Visto come lo può vedere Antonio Pennacchi, come lo può considerare l’autore del romanzo autografico Il fasciocomunista (Mondadori, 2003): come la trasformazione e la lenta degradazione di un impeto rivoluzionario e di originaria matrice socialista, come il tentativo di dare risposte agli ultimi, di non lasciare indietro i diseredati. Una tesi che ha disturbato Franco Cordelli (che sul Corriere l’ha utilizzata come arma demolitoria del romanzo) ma che invece possiede una sua dignità. C’è il Duce che è una specie di Mosè del Novecento (e tutti sanno che i paragoni, più sono iperbolici meno sono apologetici…). «Mosè le aveva solo divise le sue acque e temporaneamente: giusto il tempo di far passare la sua gente e poi richiuderle. Il Duce e il Rossoni le hanno prosciugate invece per sempre queste terre dalle acque loro. Hanno preso di petto il Mar Rosso e gli hanno detto: “Và in malora. Qui faremo un etterno giardino”». Ma c’è anche il Duce che si lascia stranire dalle donne, che è geloso di Balbo e di Cencelli, che si lascia soggiogare da Hitler. C’è anche, a disturbare il ritmo, l’annotazione politicamente corretta sui guai che il fascismo ha portato all’Italia: interpolazioni che appaiono posticce perché nascono dalla preoccupazione dell’equidistanza. Nelle terre della bonifica questa ansia non si avvertiva e non si avverte. Senza il fascismo quella terra nuova semplicemente non sarebbe venuta alla luce. Per questo l’antifascismo a Latina-Littoria e dintorni è poco più di un vezzo. Lo stesso Pennacchi  ne prende atto quando racconta nel romanzo: «Nessuno difatti a Littoria toccò niente il 25 luglio, neanche un fascio di marmo sopra i muri, neanche un busto del Duce – fummo gli unici in tutta Italia, sempre probabilmente per la storia del debito e della terra – dalle altri parti invece già dalla mattina alle sei la gente stava con gli scalpelli in mano…».

I Peruzzi sono fascisti: ben sei fratelli partecipano alla marcia su Roma: «Mi sa che ce ne sono state poche di famiglie in Italia con tutti questi figli sciarpalittorio e marciasuroma  e zio Turati non aveva nemmeno sedici anni ed era il più armato, tutto pieno di pugnali e bombe a mano legate alla cintura…». Ma prima di essere fascisti sono mezzadri, sanno trattare con la terra e con le bestie («I miei parenti hanno sempre parlato con gli animali e ci si sono sempre intesi quasi meglio che con i cristiani…»), si fanno scandire il tempo e le giornate dai riti contadini, ai quali sovrintende la femmina più importante, la nonna: «Appena nascevi, mia nonna ti assegnava il tuo lavoro – “A tì questo, a tì quelo, a tì quel’altro”. E l’albio (l’abbeveratoio) toccava ai ragazzi». Ed è ancora la nonna che accende il primo fuoco e cucina la prima polenta nel podere 517 appena assegnato ai Peruzzi. È un matriarcato quello che si instaura nel podere dei Peruzzi: la nonna che comanda, che sovrintende alle nascite e ai matrimoni e alle morti, il nonno all’osteria. Un vero e proprio matriarcato dove le donne possono trovarsi anche le une contro le altre, a contendersi l’unico vero bene che per la famiglia contadina conta più di tutto, più della terra e più del Duce: i figli. E le donne sono le figure più originali della storia: dall’Armida che parla con le api fino alla zia Santapace che spara assieme ai tedeschi contro gli alleati che arrivano a bombardare le terre strappare alla palude, passando per i capricci di zia Bissolata, un vero caratteraccio, una di quelle che ti fa passare i guai. Gli uomini fanno la guerra, con coraggio o con rassegnazione. Vanno incontro al destino che a volte li sovrasta. Le donne invece il destino se lo costruiscono, con lo stesso coraggio e con meno rassegnazione.

Ma non c’è solo la grande storia, quella del fascismo, nel romanzo di Pennacchi, c’è anche la storia materiale, quella che secondo molti storiografi documenta meglio di ogni altro reperto la “vita collettiva” di un’epoca: il modo di vestire, il cibo, l’acqua, il bagno, l’igiene, i racconti serali, i fienili, il pagliaio, il gabinetto, l’uccisione del maiale. Non c’è particolare della vita del podere che venga risparmiato al lettore. A cominciare dalla strenua lotta contro la zanzara anofele, quella che trasmetteva la malaria, debellata alla fine solo grazie al Ddt degli americani. E forse proprio in queste pagine, che sono più documentative e a volte frenano il ritmo della narrazione, emerge da parte dell’autore la passione investigatrice che l’ha portato a coccolarsi per decenni l’idea di scrivere un libro del genere, un libro scritto per amore e per dovere, dove c’è l’acqua finalmente domata dalla terra arata e c’è la casa appena costruita, il podere che accoglierà le generazioni a venire: «I poderi – ossia i casali – erano tutti celesti. A due piani, col tetto a due falde e capriate di legno. Tegole rosse alla marsigliese. Grondaie per la raccolta dell’acqua e discendenti. Sopra il tetto il comignolo grosso – tondo – in cemento prefabbricato, uguale per tutti. Le finestre nuove di zecca erano verniciate di verde e non avevano persiane ma, all’esterno, zanzariere, poi i vetri e dietro, all’interno, gli scuri i legno verniciati chiari, pannelli che richiusi non lasciavano filtrare la luce… Era un podere nuovo di zecca. Un sacco di camere. I muri odoravano ancora di calce, le porte di vernice e un podere così bello e spazioso non l’avevamo mai visto prima…».

La terra, la casa, i legami familiari, più forti di ogni altra relazione, quelli che determinano il posto di ciascuno, come sa appunto la nonna che per ciascuno, come un direttore d’orchestra, pensa a un luogo da occupare, a una mansione da svolgere, perché nessuno può permettersi, in un microcosmo del genere, di starsene con le mani in mano. E ognuno ha un preciso dovere. Un mondo enormemente distante dal nostro, non lontanissimo nel tempo ma davvero antico rispetto all’oggi, alla dimensione in cui conta solo l’individuo, con i suoi strazi e con i suoi sogni, coni suoi diritti e con il suo piccolo insignificante benessere. Nel mondo dei Peruzzi è il gruppo, la somma di tante energie, a dare il tono e il peso alle vicende. Vicende di una comunità e non di singoli, singoli che non vengono mai dimenticati, mai messi da parte, o per essere esaltati grazie alla loro condotta o per essere condannati in virtù delle loro umanissime colpe. Il fascismo è solo lo sfondo, con il suo Duce che parla in dialetto, anche lui percepito al di fuori della tragedia di cui è stato protagonista, riconsegnato anche lui alle relazioni familiari che nel romanzo si intrecciano, anche lui comparsa di un filò l’abitudine di riunirsi tutti insieme, la tradizione che i coloni si portarono dietro dal Veneto e che li induceva a ritrovarsi tutti a sera, dopo cena, ora in un podere ora in un altro «a raccontarsi storie, fòle, favole e roba del genere, al lume di candela o di petrolio». «D’inverno ci mettevamo in stalla, assieme alle bestie perché ci faceva più caldo. Lei doveva vedere la gente che si portava da casa la sedia o uno sgabello, per paura di restare in piedi…».

Il romanzo è appunto un lungo filò, sui Peruzzi, sui coloni, sulla redenzione dell’Agro, sulla vita e sulle vite di persone che senza rendersene conto hanno compiuto un’impresa epica. La storia che aleggiava da decenni sulla palude redenta in cerca di un autore e che, finalmente, l’ha trovato.

C’È UNA PIETAS FASCIOCOMUNISTA
DENTRO DI NOI

miro renzaglia

Uno dice Antonio Pennacchi [nella foto] e la mente va a Latina-Littoria, o meglio all’Agro pontino, tanto l’uomo e lo scrittore sono in simbiosi intima con quella città e col suo territorio. E con la sua storia. Soprattutto con quella delle origini: la bonifica delle paludi e la fondazione urbana. Perché sarà pur vero che oggi Pennacchi preferisce darsi del compagno e votare Pd, ma provate a toccargli uno dei pochi eucaliptus rimasti o una pietra di un qualche muretto della città fondata e ve lo ritroverete in piazza a sguainare  muscoli e corde vocali contro chi s’azzardi al sacrilegio. Tutta la sua opera è in realtà un solo libro: il libro della geografia storica e sentimentale delle “terre redente” dal fascismo e dei personaggi che l’hanno popolata e che la popolano. L’intero edificio narrativo costruito a partire da Mammut (1994) trova la sua pietra angolare oggi, nel 2010,  con questo Canale Mussolini (Mondadori, pp.460, € 20,00) in odor di Premio Strega. Ivi si narra la vicenda della migrazione della famiglia Peruzzi, mezzadri, dal Veneto al basso Lazio, dove divennero, a bonifica finita, padroni della terra e del loro lavoro. «Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo», dice. Qualcuno lo ha definito romanzo epico (e i nomi dati dall’Autore ai personaggi, Paride, Temistocle, Pericle, Armida, etc. sono una freccia direzionale in tal senso). Lui lo definisce storico…

…e io – gli dico – ci aggiungerei popolare.

E vedi un po’ che non fosse popolare: io mica scrivo per i Zorzi Vila (nel romanzo, i proprietari terrieri veneti che sfruttano il lavoro dei mezzadri, ndr) o per i Caetani (i veri proprietari originari delle paludi pontine, ndr). Io scrivo per la gente mia che è tutta figlia del popolo. Sì, romanzo popolare me sta bene. Ma nun te scordà de di’ che è pure storico: perché i nomi dei personaggi me li so’ inventati, ma la vicenda è tutta vera. Io scrivo solo quello che ho vissuto o che ho imparato da chi l’ha vissuta, la storia. E se nun so quarche cosa o quarche cosa nun me torna, prima de di’ fregnacce me documento, io…

In effetti, credo che ci siano pochi appunti da fare al libro sul piano della corrispondenza alla verità. Solo che ti dovrai sorbire la cicuta di quelli che “la storia non si revisiona”.

Che vor di’?

Dài, lo sai meglio di me: il fascismo, male assoluto, non può essere rivalutato storicamente. E tu, volente o nolente, racconti di un fascismo che prima toglie la terra ai ricchi, poi la bonifica e infine la regala ai contadini.

Senti, il fascismo ha fatto un sacco de puttanate, dalle leggi razziali alle guerre contro sto mondo e quell’altro. Ma mica gliel’ha ordinato nessuno de fa’ le bonifiche e de fondà le città. L’ha fatto perché pure questo c’era nel suo Dna. Anzi c’era più questo delle puttanate che ha fatto. A me che me ne frega de quelli che vonno restà attaccati alli pregiudizi loro? La storia del fascismo è pure quella delle bonifiche. E io la racconto. Nun je piace? E nun la leggessero…

Al di là del contesto storico, il libro restituisce uno spaccato di vita rurale. E si sente che è un ricordo a te caro. Sei un nostalgico delle lucciole, come Pasolini?

No, figurate che io so’ per la riapertura della centrale nucleare a Borgo Sabotino (frazione di Latina, ndr). E’ vero che per me quella è un’epopea quasi maggica, ma nun soffro de torcicollo storico. Però me piace pure nun dimenticamme niente de quello che un tempo valeva: la cultura rurale, le grandi famije contadine. Che c’avranno avuto pure un sacco de difetti, ma nun erano quer ritrovo de nevrotici che so’ diventate le famije de oggi.

Sei sicuro di non averla idealizzata troppo la famiglia dei bei tempi andati?

No, nun me sembra: hai visto che combinano ad Armida quando, disperso il marito Pericle nella guerra d’Africa, rimane incinta del nipote Paride? Er parentado je leva i figli.

Armida. Secondo me è lei la vera eroina del romanzo.

Sì. Ma avrai pure capito che nel racconto so’ sempre le donne a fa’ la trama. Gli uomini fanno il lavoro sporco e le guerre ma so’ loro, le donne, che tengono in piedi la famiglia e la guidano. C’hai presente come se conclude il romanzo?

Sì. Tutta la famiglia si trova di notte, mentre a piedi evacua dalla zona di guerra, su un campo di mine. Salta per aria la cagnetta e tutto il convoglio rimane bloccato. Serve un volontario che preceda il gruppo. Si offre Armida, la reproba, che va avanti seminando il terreno di farina per lasciare agli altri la traccia sicura da seguire.

E nun te sembra la metafora perfetta de chi guida chi verso la salvezza?

A proposito di metafore. Ho letto che Franco Cordelli sul Corriere di martedì scorso cita le tue “digressioni tecniche”, quasi fossero un limite alla spontaneità del testo.

Sì, vabbeh. Allora è un limite pure la terzina in endecasillabi a rima alternata di Dante. Ma che razza de critica è? Se uno pensa che pe’ scrive’ un romanzo basta l’ispirazione e invece la tecnica, il mestiere, il montaggio del testo so’  un impiccio, me dici de che stamo a parlà? Te lo dico io: a quello nun j’è andato giù che ho scritto che Ezra Pound era un fasciocomunista. Dài, chiedo pietà.

A proposito di pietà. Anzi, di pietas: mi sembra questa la misura etica del tuo romanzo.

Certo. Tu, compà, nun sei niente se nun te senti parte del tutto, della famiglia, della società, dello stato, del mondo, dell’universo e pure der nemico tuo. Te sei “uno” co’ tutto. E pe’ sentitte “uno” co’ sto tutto, devi esse’ giusto e clemente anche co’ chi te sembra che te sta contro. Vedi che nel romanzo, dopo la guerra, zia Bissola va in una sezione socialista, dove si esalta il valore della resistenza locale al tedesco e rivendica che la resistenza l’ha fatta pure lei, ma agli americani però. A quella, proprio nun j’era entrata nella testa l’idea che il male stava tutto da una parte e il bene tutto dall’altra. Ecco, per me questa è la pietas: la partecipazione al tutto, la clemenza verso gli sconfitti.

Poco prima della chiusura del romanzo, Paride riparte per il Nord, volontario nella Rsi. Tu lasci intendere che tornerà vivo nell’Italia “liberata”. E’ l’anticipo del tuo prossimo libro?

Pò esse’. Però prima famme vince er Premio Strega co’ Canale Mussolini… Poi ce comincio a ragionà su…