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La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra.

di Monia Andreani - 13/04/2010

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L’ultimo libro di Luigi Alfieri è dedicato all’analisi della guerra come dimensione antropologica e come dimensione politica. Tale intento – dichiarato all’inizio e portato avanti con costanza fino alla fine - costituisce la peculiarità di questo lavoro, la sua efficacia teorica e prospettica. Alfieri analizza la guerra come “il culmine dell’esperienza umana” (p. 9) e riprende, per svolgerla fino in fondo con coerenza, la celebre definizione di Elias Canetti secondo cui in guerra “si tratta di uccidere”. Il libro si apre con una domanda rispetto alla politica e al rapporto tra politica e verità: Già i filosofi classici hanno cercato il luogo del discorso vero all’interno dello spazio politico, e sono giunti alla conclusione che il governo democratico in cui vivevano, come spazio della conflittualità e del disaccordo, era un luogo del tutto estraneo alla parola unica del discorso vero. Ma se c’è una frattura all’origine tra la dimensione filosofica e la prassi politica, occorre rintracciarla in un altrove rispetto alla razionalità apollinea e alla filosofia che ne è figlia. Per questo il Prologo del volume contiene una importante analisi antropologico-filosofica dell’identità in quanto dimensione collettiva che si coagula attorno ad uno spazio simbolico in cui è possibile costruire il senso del Noi e l’appartenenza ad un gruppo. Il disporsi originario dei componenti del gruppo attorno ad un simbolo, che è di altra natura rispetto al loro essere viventi, porta ad un processo di acquisizione di una identità collettiva. La differenza originaria è necessaria in quanto svolge la funzione di fulcro attorno al quale si può dire di essere tutti uguali – ovvero tutti differenti. Il simbolo che sta al centro del cerchio, attorno a cui si costruisce l’identità, è un confine assoluto e un confine interno, un perno attorno a cui tutti i componenti del gruppo girano insieme. In questo confine che è allo stesso tempo “inaccessibile, intoccabile, privilegiato, impuro […]” (p. 26), Alfieri ritrova il senso del sacro. All’origine dell’identità, quindi, non c’è l’autoreferenzialità di un centrarsi sul noi, ma un girare attorno ad altro: “dunque diremo di essere quelli che hanno un non/noi comune. Un qualunque possibile non-noi comune. Un qualunque possibile non-noi, una qualsiasi dimensione del non-umano. Sarà spesso una dimensione animale. Chi siamo noi? Siamo i Parrocchetti. O gli Opossum. O i Lupi, i Leoni, i Gattopardi […]” (p. 27). René Girard interpreta questo elemento differente come il frutto di una uccisione originaria e collettiva, laddove alla base dell’uguaglianza c’è la differenza primaria, quella che si stabilisce tra molti vivi e un solo morto. All’interno di una conflittualità diffusa, nel gruppo emerge un elemento di differenza che caratterizza un solo individuo, e su questo si catalizza la violenza di tutti gli altri, che sono invece indifferenti rispetto a quella specifica differenza. Allora tutti coloro che sono uguali uccidono il diverso e così rendono manifesta la differenza originale che è la Morte, rappresentata nello specifico dalla sua manifestazione, ovvero da un cadavere. In ogni uccisione che si ripete, ad essere uccisa simbolicamente è quella differenza che scombinava, che catalizzava il conflitto, ma quella differenza è diventata la Morte. Al centro di questo cerchio della violenza sta la vittima che muore da innocente, quindi accettando la propria uccisione, senza la quale noi non saremmo noi, gli assassini, coloro che uccidono la Morte. Elias Canetti, al contrario, non identifica la violenza fondatrice della comunità con il mito del sacrificio della vittima, ma interpreta la scena originaria in maniera capovolta. Il confine è doppio: sia esterno che interno. Fuori c’è il Nemico che è il non-noi, la Morte esterna che ci assedia e che bisogna uccidere per poter rimanere vivi. Ma per uccidere la Morte esterna si ricorre al confine interno, che è anch’esso Morte, intesa come strumento per proteggere il gruppo. Scrive Alfieri: “E’ il tragico paradosso dell’obbedienza, il rischio estremo che viene corso da chi cerca definitiva sicurezza: per non essere uccisi si uccide, ma per poter uccidere bisogna essere uccisi. E’ così che intorno al centro si accumulano i morti, e per chi sta al centro non importa distinguere i morti altrui o quelli propri. Tutti i morti sono suoi, tutti lo rafforzano, lo innalzano, moltiplicano la sua capacità di diffondere intorno morte e obbedienza, e dunque ancora morte. In questa sopravvivenza, in questo vivere grazie ai morti e letteralmente sopra i morti, Canetti vede la sostanza del potere” (p. 33). Secondo Alfieri, entrambe le versioni della fondazione della violenza umana all’interno del gruppo dei viventi sono giuste: né Girard, né Canetti hanno sbagliato, ma hanno ragione solo insieme. La Morte è il confine esterno, ma è anche il confine interno, è un non-noi che sta dentro e fuori. E questo è tanto più evidente se posto in relazione alla guerra, come paradigma della violenza, tra la seconda metà del ‘900 e l’inizio del XXI secolo. Dopo i due orrendi estremi della Seconda Guerra Mondiale – la morte seriale nei campi di sterminio nazisti e la Bomba atomica che ha cancellato due città del Giappone e ha lasciato dietro di sé la scia della morte per contaminazione –, la guerra ha assunto una nuova dimensione. E noi che continuiamo a funzionare come il gruppo originario, giriamo ancora attorno alla Morte, ma avendo diminuito e in molti casi reso virtuali le uccisioni. Ora la Morte per antonomasia è la Bomba che potrebbe uccidere tutti definitivamente, ma che tuttavia rimane virtuale: infatti, data la sua potenzialità annichilente, nessuno vuole che scoppi per davvero. Trasformando la morte in principio costruttivo, come scrive Alfieri: “abbiamo raggiunto il punto di non ritorno da cui nasce una svolta radicale. La guerra l’abbiamo sempre fatta. Ma adesso, o la guerra finisce o finiamo noi” (p. 35). Tuttavia con l’avvento della Bomba la guerra è cambiata ma non è finita, e questo fatto necessita di una riflessione sul conflitto bellico in termini politici e giuridici. Per questo Alfieri si concentra sulla categoria politica di sovranità, e soprattutto sulla differenza tra sovranità interna e sovranità esterna. Secondo l’autore, dopo la Seconda Guerra Mondiale gli Stati che non posseggono nel loro arsenale la Bomba atomica non possono essere più considerati sovrani. La sovranità esterna, infatti, non è data una volta per tutte, e “non si fonda in nessun caso su un titolo di legittimità che non sia la guerra” (p. 42). Tutti gli Stati che non possono vantare la possibilità di fare la guerra con la Bomba non sono più sovrani, nel senso che non possono più essere titolari di un’azione di guerra – se non in coalizione e obbedendo a potenze nucleari. D’altro canto, chi ha la Bomba è condannato ad una sovranità che continua fino a quando possiede l’arma di distruzione; per questo la Russia, nonostante i profondi mutamenti avvenuti dopo la caduta dell’URSS, è ancora uno Stato sovrano. La guerra che stabilisce la sovranità esterna, quindi, non è più possibile, se non come un suicidio collettivo. Pertanto è diventata una non-guerra, che è allo stesso tempo una guerra fredda o una pace nucleare tra Stati sovrani (detentori della bomba). Parallelamente, la Dichiarazione di guerra è scomparsa nella prassi politica internazionale, e anche la stessa parola “guerra” è stata sostituita da altre che corrispondono meglio all’orizzonte mutato. Tuttavia, come fa notare Alfieri con logica stringente, quello che non è cambiato è il paradigma della violenza, ora però giocato nella dimensione della sovranità interna. In questo quadro si inseriscono il terrorismo e l’ormai decennale guerra al terrorismo, che non è una guerra tra soggetti sovrani, bensì una guerra che uccide, fiacca e irrita i giganti nucleari, ma che non sposta la situazione sul piano internazionale – almeno fino al momento in cui il terrorismo internazionale non si dotasse di un pari arsenale nucleare, ma a quel punto diverrebbe un soggetto sovrano. Con un’analisi della dimensione politica della sovranità interna, l’autore riflette – a partire da Hobbes – sul problema del consenso alla guerra. Secondo il paradigma hobbesiano, il sovrano ha tutti gli strumenti per uccidere, e il principale di questi è senza dubbio il consenso, che diventa “legittimità”. Ed è sul tema del consenso che Alfieri nota una irriducibile problematicità delle considerazioni hobbesiane. Infatti la motivazione del pactum originario – col quale i pari rinunciano alla sovranità diffusa e alla possibilità di darsi la morte l’un l’altro in favore di un unico che può uccidere, ma che dà anche la sicurezza di pacificare tutti – non regge alle prove della storia dell’umanità. La sovranità concentrata nelle mani del sovrano ha ucciso molto di più di quella diffusa, e anche l’antropologia culturale fornisce prove inequivocabili in tal senso. A questo punto, decaduto il mito del potere securitario e pacificatore della sovranità, la domanda sul consenso necessita di un'altra risposta, che Alfieri rintraccia nel problema dell’individualismo e del suo limite insormontabile, che è dato ancora una volta dalla morte. “L’indipendenza reciproca (la pari uccidibilità) può darci la sicurezza meglio di quanto farebbe qualunque sovrano. Ma ci lascia soli con la nostra morte. E non è tanto della morte che abbiamo paura, quanto dell’essere soli con lei: del non poter avere una storia che, collegandoci insieme, ci apra un futuro indeterminato, ci consenta di pensare a noi, al noi anzi, rendendoci così perfettamente tollerabile (o desiderabile, addirittura) che muoia l’io. Per questo crediamo così facilmente alla promessa del sovrano (o aspirante tale) di darci la pace: quella pace che in realtà abbiamo già, per conto nostro, ma per conto nostro non ha appunto senso” (p. 54). Il consenso diventa legittimità, e soprattutto garantisce al sovrano la possibilità di identificare il nemico contro cui è possibile fare il salto di qualità e passare dall’essere tutti parimenti uccidibili all’essere tutti insieme uccisori. Il sovrano hobbesiano serve a “darci la guerra” (p. 55) e non a garantire la pace, e questa è la vera cifra della sovranità esterna. A questo punto, la connessione tra le spiegazioni politiche di matrice antropologica della violenza e la dinamica della guerra come prodotto della sovranità portano Alfieri a trattare la tragica vicenda della Shoah secondo la prospettiva degli assassini. L’autore ritorna sul lavoro di Elias Canetti e sulla definizione della guerra come l’esperienza umana in cui si tratta di uccidere. La vicenda della guerra assoluta che si esprime nello sterminio è quella già descritta con grande lucidità da Arendt e da Levi tra gli altri, e Alfieri riporta tale descrizione nell’alveo di una spiegazione antropologica. Nel momento in cui la guerra è dichiarata non in nome di un territorio da conquistare, o di una offesa da risanare, ma per una nuova umanità o per qualsiasi altro concetto astratto, individuato come fine buono e giusto, allora la separazione tra chi uccide per motivi giusti e chi viene ucciso diventa una frattura insanabile, quindi: quelli che uccidono possono dirsi a pieno titolo i buoni: “Noi siamo i buoni, noi vogliamo che gli uomini siano buoni, noi vogliamo che trionfi il bene: di conseguenza, tutti gli altri sono il male. Che cosa deve fare il bene quando combatte il male? Deve ovviamente annientare il male, deve sterminarlo” (pp. 81 - 82). Approfondito il motivo per cui è possibile, ancora oggi, andare in guerra a uccidere e a morire, seguendo un meccanismo collettivo senza fine che ha origini antichissime e non razionali, Alfieri si occupa di fornire una prospettiva di pace, seppure al di fuori del discorso pacifista. Le due Guerre Mondiali del ‘900, con la loro mattanza, hanno inflitto un duro colpo alla “seduttività dell’uccidere” (p. 105): la guerra è stata incriminata come disvalore e la pace promossa come valore, sia in politica internazionale che di fronte all’opinione pubblica. Anche se la presenza della Bomba come arma finale non ha portato alla fine della guerra, ne ha comunque diminuito il potenziale svolgimento su scala mondiale. Ma per sconfiggere la guerra in via definitiva occorre uscire da ogni particolarismo individualista, e accogliere – con la prospettiva di superarlo – il meccanismo della violenza collettiva, quello che si alimenta della costruzione del nemico come portatore di morte. Se si riuscirà a eliminare la morte che è rappresentata dal nemico eliminando anche la suddivisione primaria tra noi e loro si sarà segnato un passo fondamentale per la risoluzione verso la pace. L’altra strada per sconfiggere la guerra è paradossalmente proprio quella inaugurata dalla Bomba. Con essa abbiamo acquisito la possibilità della morte di tutta la nostra specie, e la deterrenza all’uso della Bomba funziona da oltre mezzo secolo per impedire la guerra tra soggetti sovrani. Tuttavia la spinta faustiana alla tecnica, dopo aver ottenuto il risultato della Bomba – che è la morte assoluta –, ci porta a lavorare alacremente sul controllo della vita biologica, con nuove implementazioni della medicina e della farmacologia. Forse in futuro l’umanità potrà avere tra le mani le chiavi della vita della propria specie, e a quel punto il cerchio sarà completo, senza più un nemico – una morte dal di fuori –, e senza più una morte da uccidere dentro il cerchio simbolico, la guerra sarà debellata, ma a costo di un controllo tecno-politico spaventoso, per quanto fantascientifico. Il libro si chiude con un capitolo dedicato ai modelli di difesa presenti nella Costituzione italiana. L’autore affronta un’analisi storica e giuridica molto precisa degli articoli 11 e 52 della Costituzione, dedicati alla guerra; ma si spende anche in una riflessione storica, intensa e molto documentata, sulla costruzione simbolica e politica dell’esercito italiano a partire dal Risorgimento e fino ai nostri giorni, con il moltiplicarsi degli impegni internazionali in operazioni militari chiamate sempre diversamente e mai con la parola “guerra”.

Alfieri, Luigi, La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra.
Perugia, Morlacchi, 2008, pp. 199, € 16,00, ISBN 978860742230