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Università, l'illusione egualitaria

di Simonetta Fiori - 14/04/2010




In un saggio lo storico Andrea Graziosi affronta la crisi degli atenei italiani, fra la miopia della politica e il provincialismo dei professori Con un´accusa: il sogno della laurea di massa ha finito per soffocare le eccellenze necessarie Ignoranza completa delle soluzioni che negli altri paesi sono state adottate da decenni
Il costo basso va a vantaggio dei ceti più abbienti, come dimostrano le ricerche di Bankitalia


Il naufragio culturale italiano può essere analizzato da un osservatorio emblematico e ricco di paradossi, che è quello dell´Università. Una scelta di prospettiva che non mette al riparo da malumori e cupezze, ma appare oggi un passaggio necessario per evitare di essere trascinati ancora più a fondo. È questa la scelta compiuta dallo storico Andrea Graziosi nel suo nuovo libro L´Università per tutti. Riforme e crisi del sistema universitario italiano (Il Mulino, pagg. 165, euro 13). Un saggio d´impronta diversa dal consueto pamphlet sul ceto accademico agonizzante, piuttosto diagnosi lucida e amara di chi nell´accademia italiana è cresciuto, ne ha a cuore le sorti e come il personaggio di Andersen dice quello che in molti fingono di non vedere: che la laurea conseguita oggi rischia di essere ancora più evanescente degli immaginari vestiti dell´imperatore. E che, se non si ferma il declino accelerato dalla metà dei Novanta ad oggi, gli atenei italiani rischiano di scivolare ancora più in basso nelle graduatorie europee, a loro volta surclassate da quelle americane, su cui si allunga la minaccia della concorrenza asiatica. Il rischio è «di rimanere indietro di almeno due generazioni».

Forte di un´esperienza tra Italia e Russia, Francia e America – insegnamenti all´École des Hautes Études en Sciences Sociales, a Yale e Harvard, ordinario di Storia contemporanea a Napoli – Graziosi registra la crescente provincializzazione delle nostre università, sempre più integrate alle élites locali e sempre più ai margini della ricerca internazionale. Una chiusura che egli riscontra soprattutto nella sua disciplina, la storiografia, segnata dall´esaurimento di un´élite nazionale cui possa guardare la maggior parte degli studiosi. «Questo indebolimento della cultura nazionale alta», scrive lo studioso, che è anche il presidente della Sissco, la Società italiana per lo studio della storia contemporanea, «sospinge verso il provincialismo e l´isolamento di molti di coloro che sarebbero stati capaci di ispirarsi all´esempio di uno Chabod o di un Romeo, e di partecipare al loro mondo, ma che trovano difficile integrarsi nel dibattito scientifico internazionale anche perché non hanno gli strumenti linguistici necessari». I più bravi, in sostanza, riescono a salvarsi muovendosi lungo traiettorie internazionali; la maggior parte rischia di smarrire il significato del proprio lavoro.
Quel che Graziosi vuole demolire con questo libro è il dizionario di luoghi comuni stratificati intorno all´università nel corso degli ultimi cinque decenni. Un complesso di equivoci proliferato con la complicità di tutti: di una classe politica sostanzialmente miope, incapace di prevedere le conseguenze delle proprie decisioni; di un ceto accademico «parassitariamente accomodato sulle scelte del primo», abile nel trarre immediato vantaggio dalle riforme più sbagliate; di larga parte delle famiglie, incuranti della pessima qualità di un´università gratuita o semigratuita, graniticamente persuase che il "pezzo di carta" ottenuto in un´università con due milioni di studenti certifichi le stesse garanzie della laurea di cinquanta anni fa, quando gli studenti erano duecentomila (una gratuità che va a vantaggio delle classi più forti, come documentano i dati della Banca d´Italia secondo cui il 24 % degli studenti italiani proviene oggi dal 20 % più ricco della popolazione, e solo l´8 per cento dal 20 % più povero).

Il primo equivoco, il più doloroso, è quello in cui sin dagli anni Sessanta si sono imbattute le classi intellettuali e politiche progressiste – di radice cattolica, comunista e anche liberaldemocratica – ossia l´illusione egualitaria che per sconfiggere il privilegio e affermare il diritto sarebbe bastato allargare l´università d´élite in università di massa senza provvedere a una differenziazione degli studi al suo interno. Il degrado attuale, sostiene Graziosi, è anche figlio di quel sogno riformatore inseguito dalla parte migliore del paese, ispirata da intenti nobili e condivisibili, ma di fatto "incapace di difendere il carattere alto della ricerca intellettuale". Un ceto sostanzialmente "provinciale" e ignaro di quel che era accaduto Oltreoceano negli anni Trenta, con la creazione di un sistema di studi diversificato che affiancava alla University of California (Uc), università di ottima qualità, il California State University System, di buon livello ma inferiore. Un´articolazione universitaria destinata a essere arricchita nel 1967 con la creazione di un terzo sistema – il California Community College System – destinato a una platea più allargata di studenti. Era un modo «per rispondere alle esigenze di modernizzazione e di mobilità sociale» lunarmente lontano dalla "sincera" ma "ignorante e distruttiva" passione rivoluzionaria che avrebbe caratterizzato il nostro Sessantotto. Qui la diagnosi si fa severa e, pur riconoscendo nel movimento studentesco l´impegno delle energie migliori, il risultato in materia universitaria viene giudicato implacabilmente mediocre.

Quella narrata da L´università per tutti è una storia di "errori" e "previsioni sbagliate" che non risparmia le classi dirigenti dei decenni successivi, né la pianificazione degli anni Ottanta («quando di pianificazione si parlava in modo critico perfino in Unione Sovietica», annota il sovietologo Graziosi) né la "razionalizzazione" e "l´autonomia" degli anni Novanta, che all´università avrebbero inferto il colpo letale. Dal precedente equivoco egualitario discende l´altro luogo comune tuttora riscontrato nel ceto politico di qualsiasi segno, ossia «la convinzione che l´università sia solo per gli studenti e non per gli studi, e dunque assolva una funzione esclusivamente didattica e formativa», dimenticando «il ruolo essenziale dell´università di ricerca», che non può non essere «selettiva», «meritocratica» e di «limitate dimensioni».

Ma sono le università di ricerca – ci ricorda Graziosi – che formano le élites nazionali, questione che sembra non appassionare più nessuno. E soltanto «differenziando gli atenei e incentivando le eccellenze», rinvigorendo «il settore più debole che è quello del post dottorato di ricerca», è possibile fermare il suicidio culturale in corso. Un obiettivo da raggiungere sostituendo ai vecchi parametri di valutazione, che finora hanno favorito il degrado universitario, nuovi criteri che premino soltanto merito e qualità. Tutte importanti correzioni, quelle suggerite da Graziosi, che richiederebbero rigore in chi è chiamato a ricoprire il ruolo di arbitro. L´Italia smarrita di oggi non sembra incoraggiare il più smagliante ottimismo.