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Il punto della crisi

di Laura Stefani - 14/04/2010

 

 
Il Worldwatch Institute, prestigioso centro di ricerca americano sullo sviluppo sostenibile, ha recentemente dichiarato: «La scarsità di acqua dolce è la sfida ambientale contemporanea a cui stiamo dando meno importanza». Affermazione che non vale per Maude Barlow.
Questa signora canadese dall’aspetto rassicurante è in realtà una delle attiviste più agguerrite a livello internazionale in materia di diritti e accesso all’acqua e uno dei leader del Global Water Justice Movement. Fondatrice di Blue Planet Project, associazione mondiale per la protezione dell’acqua, nominata Senior Advisor on Water presso l’Assemblea Generale dell’Onu, è anche autrice di numerosi saggi tra cui Oro blu (2004, Arianna Editrice) e il recente Blue Covenant: The Global Water Crisis and The Coming Battle for the Right to Water (McClelland & Stewart). A lei abbiamo chiesto di fare il punto sulla crisi idrica mondiale.

Emergenza
«Siamo di fronte a un’emergenza sia umanitaria sia ambientale perché la richiesta di acqua dolce sta crescendo, ma le riserve stanno scarseggiando. La popolazione mondiale si è triplicata nel corso del XX secolo, mentre il consumo di acqua è aumentato sette volte. Se non cambiamo le nostre abitudini, nel 2030 la domanda supererà del 40% la disponibilità. Ogni anno milioni di persone muoiono per mancanza d’acqua o per aver accesso solo ad acqua inquinata». I dati riportati nel libro sono agghiaccianti: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’80% delle malattie o delle infezioni nel mondo sono provocate da acqua contaminata o sporca. Per lo stesso motivo, ogni otto secondi muore un bambino. «Eppure, l’accesso all’acqua potabile dovrebbe essere un diritto umano fondamentale e non dovrebbe essere negato a nessuno, solo perché privo di mezzi economici. L’enorme disparità di approvvigionamento dipende da tre fattori» spiega Barlow, «la disponibilità naturale dei singoli paesi; il grado d’inquinamento (soprattutto nelle metropoli l’acqua superficiale è talmente inquinata da non potere più servire al consumo umano: è il caso dell’India o dell’America Latina); infine, la povertà. Molti paesi sono divisi in due: chi si può permettere di pagare per avere acqua pulita e chi deve accontentarsi di fonti contaminate». Questa disparità di accesso si traduce in disparità di consumi: mentre in certi slums di Bombay, un wc può essere diviso anche tra 5000 persone e un africano consuma in media sei litri di acqua al giorno, negli Usa il consumo pro capite è di 600 litri. In realtà, è stato calcolato che una persona ha bisogno di circa 50 litri per rispondere alle necessità di base come bere, cucinare, lavarsi.

Patrimonio o merce?
Dell’importanza dell’acqua come risorsa, soprattutto economica, si sono accorte alcune multinazionali; tra le principali, le francesi Suez e Veolia e l’inglese Thames Water. «Il grande dibattito contemporaneo è sulla questione acqua come patrimonio comune dell’umanità o acqua come merce. Come sostiene l’avvocato americano Jim Olson, la privatizzazione è incompatibile con la sua natura di bene comune, e quindi, con i diritti umani inalienabili. Purtroppo il business dell’acqua, favorito anche dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, è diventato un affare multimilionario controllato da corporations con grandissimi margini di profitto: non c’è limite alla quantità di denaro che si può guadagnare mettendo le mani su acquedotti, sistemi di trattamento, imbottigliamento. Per dare una cifra, ogni anno beviamo 250 miliardi di litri d’acqua in bottiglia (l’Italia contribuisce con 12 miliardi): una vera follia, che genera oltretutto un grave problema ambientale. Molte compagnie, specialmente nei paesi del Sud del mondo, gestiscono i servizi idrici pubblici, imponendo tariffe alte a fasce di consumatori che non se le possono permettere». Tanto che Barlow parla di una sorta di apartheid dell’acqua: «Alcuni paesi occidentali godono di un sistema pubblico e garantito, ma contemporaneamente sostengono la privatizzazione nei paesi più poveri, limitandosi a ignorare le nefaste conseguenze. Inoltre, ormai esistono veri e propri mercati dell’acqua, dove le imprese private possono comprare e vendere diritti su acque sotterranee e superficiali o interi sistemi idrografici e sottrarre così questa risorsa a comunità indigene e agricoltori locali».

Pratiche insostenibili
Nessuno sembra preoccuparsi delle enormi conseguenze nemmeno a livello ambientale: «L’inquinamento delle acque superficiali, spinge a estrarre quantità sempre maggiori di acqua sotterranea. Questa è trasportata verso le grandi metropoli assetate o verso aree coltivate in zone semi-desertiche, perfetto esempio di agricoltura non sostenibile. Ma l’entità del prelievo è superiore alla capacità naturale del pianeta di rigenerare le falde e i bacini acquiferi. Così stiamo alterando profondamente il ciclo idrologico e stiamo desertificando zone sempre più grandi, uno dei casi più eclatanti è quello della Nord della Cina». Altre zone critiche includono il Medio Oriente, 22 paesi africani, India, Australia, la Mexican Valley e il Sud Est degli Stati Uniti. «Invece, per arginare la crisi basterebbe lasciare l’acqua dov’è già in natura e averne cura. Si ripristinerebbe un ciclo idrologico efficiente, capace di mitigare gli effetti del riscaldamento globale. Inspiegabilmente la questione idrica non rientra nel dibattito sul clima, ma l’abuso di questa risorsa è una delle maggiori cause del cambiamento climatico. I bacini idrologici alimentano il ciclo dell’acqua e aiutano a contrastare l’innalzamento delle temperature».
Tornando alle coltivazioni “insostenibili”, che peso ha l’uso agricolo dell’acqua? «L’agricoltura intensiva è il maggior consumatore d’acqua al mondo: l’irrigazione per la produzione agricola è pari al 65% delle risorse idriche usate dall’uomo. E il principale responsabile è l’agribusiness, che sta prosciugando le falde acquifere. Ad esempio, il bacino sotterraneo di Ogallala negli Usa, uno dei più grandi al mondo con una superficie di 450 000 chilometri quadrati, sta irrigando oggi – con 200 000 pozzi al ritmo di 50 milioni di litri al minuto – la metà delle aree coltivate che irrigava negli anni Settanta, avendo perso gran parte del suo volume d’acqua. Gli immensi campi destinati alla produzione di biocombustibili, come l’etanolo, stanno letteralmente divorando le riserve idriche. Ci vogliono 1700 litri d’acqua per produrre un litro di etanolo. Il Brasile ha intenzione di esportare 200 miliardi di litri di etanolo entro i prossimi 15 anni: moltiplicate 1700 per ogni litro e avrete la cifra del disastro». Enormi dighe artificiali e impianti di desalinizzazione, queste le soluzioni finora adottate di fronte alla scarsità idrica, ma per Barlow non fanno altro che peggiorare il problema: «I progetti di questo tipo su larga scala sono dannosi: le 45 000 grandi dighe distribuite nel mondo interrompono il corso dei fiumi e ne bloccano lo sbocco naturale al mare, distruggono l’habitat acquatico e obbligano a migrare moltissime persone. Anche i grandi impianti di desalinizzazione non sono risolutivi: sono cari, consumano molta energia e scaricano sostanze velenose nei mari».
L’emergenza idrica sta creando una quantità di rifugiati climatici sempre crescente e sta diventando una questione di sicurezza nazionale e globale. «Molti paesi iniziano a mettere gli occhi sulle scorte esistenti fuori dai propri confini, come gli Usa sulle acque canadesi e la Cina che ne sta già prelevando grandi quantità dall’altopiano tibetano, fonte di acqua per quasi metà della popolazione mondiale. Ci saranno serie conseguenze sul piano geopolitico e i conflitti saranno inevitabili».

Tre princìpi
Allora quali obiettivi porci a breve e medio termine? «Un mondo dove l’acqua è garantita si costruisce su tre princìpi: la conservazione delle fonti; il concetto di acqua come diritto umano, patrimonio comune e responsabilità pubblica; acqua per mantenere la pace, invece che fonte di conflitti. Dobbiamo imparare a considerare l’acqua come parte della natura, non come veicolo di profitto economico. Convertirci a produzioni alimentari locali, biologiche, sostenibili: se vogliamo proteggere le risorse, questo è il passo più importante. Laddove è possibile, smettere di bere acqua in bottiglia. È fondamentale assicurare l’accesso all’acqua a tutti: non deve essere un privilegio di chi può pagare. Non bisogna smettere di lottare finché dai rubinetti di tutto il pianeta esce acqua potabile. Io non voglio vivere in un mondo che lascia morire i figli di chi non può comprare acqua. È una battaglia, questa, che ha obiettivi sacri».

Per informazioni: www.blueplanetproject.net