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Una riforma per sostenere la speculazione finanziaria

di Filippo Ghira - 14/04/2010


Recita un vecchio adagio che c’è una cosa molto peggiore di rapinare una banca. Ed è quella di fondarne una. La verità di questa affermazione è stata abbondantemente dimostrata dalla crisi finanziaria innescata negli Stati Uniti a cavallo tra il 2007 e il 2008 con la crisi dei mutui subprime che poi con un effetto domino si è riversata sul settore bancario e su quello assicurativo, e poi a seguire sull’economia reale trascinando nella rovina migliaia di imprese che hanno dovuto chiudere e milioni di dipendenti che si sono trovati senza un lavoro, con i risparmi andati in fumo e senza la casa, peraltro di legno, sulla quale avevano acceso un mutuo.
La crisi Usa è stata il trampolino di lancio per le ambizioni politiche del senatore Barack Hussein Obama che trascinato dall’indignazione popolare verso i repubblicani considerati i referenti del mondo bancario, si è trovato inaspettatamente alla Casa Bianca con il gaudio isterico degli utili idioti progressisti di mezzo mondo convinti che siano ancora gli uomini, in questo caso i presidenti, a poter decidere da soli dei destini di un Paese come gli Usa e di riflesso di quelli del mondo. Altri presidenti americani in verità ci avevano creduto e provato (come Lincoln, Garfield, McKinley e Kennedy) ma quando il loro scontro con l’alta finanza e con le banche aveva raggiunto livelli insostenibili, sono stati velocemente eliminati, assassinati, e sostituiti con i loro vice, evidentemente più funzionali agli interessi dell’economia virtuale, quale appunto è la finanza.
Obama, tenendo conto di questi precedenti e fedele al ruolo che gli è stato assegnato, quello di maggiordomo di Wall Street, è subito intervenuto per salvare con soldi pubblici le banche, le società finanziarie e quelle assicurative che erano sull’orlo del fallimento in seguito all’enorme debito che si era abbattuto sui loro conti a causa delle speculazioni fatte e degli investimenti azzardati, realizzati entrambi senza disporre delle necessarie risorse proprie ma prendendo i soldi in prestito da altri soggetti, fossero essi altre banche o singoli risparmiatori.
Il presidente nero o afro-americano che dir si voglia, ha quindi dimostrato di essere il degno successore del tanto da lui biasimato George W. Bush, avendo versato centinaia di miliardi di dollari in prestiti ad una associazione di autentici gangster, quali appunto sono i banchieri Usa, che per anni hanno potuto agire indisturbati favoriti anche da una politica di bassi tassi di interesse praticata dalla Federal Reserve che ha reso disponibile, e a poco costo, una montagna di dollari per le operazioni degli speculatori.
L’inquilino della Casa Bianca, tanto per sottolineare ulteriormente la sua natura di passacarte, ha dovuto incassare senza battere ciglio le risposte piccate dei direttivi delle banche da lui salvate, in primis la Goldman Sachs, che hanno respinto al mittente il suo invito a non versare premi di produzione, i bonus, ai dirigenti che avevano rimesso in piedi i loro istituti grazie appunto ai prestiti pubblici. Non si possono dare ai manager premi così esorbitanti perché è come se glieli desse lo Stato, aveva obiettato Obama ma le sue parole sono restate inascoltate.
Preso quindi da un soprassalto di dignità, il presidente ha cercato di guadagnare consensi varando una riforma sanitaria che in realtà rappresenta un regalo alle assicurazioni perché ha creato una nuova schiera di potenziali clienti che dovranno sottoscrivere una polizza e poi perché ha fissato l’avvio reale di essa nel 2014, quando non è detto che si troverà ancora alla Casa Bianca a scaldare la poltrona.
Adesso la prossima tappa per verificare l’identità della linea Obama sarà nell’approvazione o meno della riforma del mercato finanziario che già si presenta come il classico topolino partorito dalla montagna. Tanto rumore per nulla insomma.
Il 22 marzo scorso la commissione bancaria del Senato aveva approvato con 13 voti a favore e 10 contrari (tutti repubblicani) la bozza di regolamentazione per il sistema finanziario presentata dal presidente della Commissione, il democratico del Connecticut, Christopher Dodd. Essa, aveva spiegato lo stesso Obama, intende conferire al governo strumenti e poteri che siano in grado di evitare il ripetersi di nuova una crisi finanziaria e che dovrebbe portare maggiore responsabilità nel sistema finanziario e assicurare ai contribuenti che non saranno mai più loro a pagare il prezzo dell'irresponsabilità delle più importanti banche ed istituzioni finanziarie.
Ieri, il segretario al Tesoro, Timothy Geithner, ha definito inaccettabile la sola idea che si possa uscire da questa recessione senza aggiustare le falle del sistema che hanno contribuito a crearla. E quindi guai a non approvare la riforma. In ogni caso, ha messo le mani avanti Geithner, alla fine le operazioni di salvataggio di banche e società finanziarie avranno un costo inferiore a quello previsto. Il vero costo della crisi, ha dovuto però ammettere, “sarà misurato dai milioni di posti di lavoro persi, dalle migliaia di  miliardi di dollari di risparmi bruciate e dalle migliaia di ditte fallite”. E scusate se è poco, diciamo noi.
La riforma, ha ricordato il segretario al Tesoro, prevede la creazione di un'agenzia per la protezione finanziaria del consumatore. “Un'agenzia indipendente e responsabile -  ha insistito - che possa stabilire e far rispettare regole in tutto il mercato finanziario”. Che sarebbe come pretendere di mettere a gestire un bordello un frate che rispetta il voto di castità. Non ci saranno più salvataggi con soldi pubblici, ha garantito Geithner, e il governo vuole dimostrare di disporre di una vera autorità per mettere fine al problema delle istituzioni finanziare, giudicate troppo grandi per essere lasciate fallire e che infatti sono state salvate dal suo datore di lavoro.
La legge, ha aggiunto, attribuisce al governo l'autorità di imporre obblighi severe per quanto riguarda i capitali e la liquidità e limita la possibilità delle banche di possedere, investire o sponsorizzare fondi di investimento speculativi come gli hedge fund e i private equity fund che operano con capitali presi a prestito. E prevede una maggiore trasparenza che porterà il mercato dei derivati fuori dal buio. Si tratta di una legge solida, ha insistito, e il governo combatterà contro ogni tentativo di indebolirla.
In realtà la riforma finanziaria sembra poca cosa perché non va al centro del problema in quanto lascerà di fatto in piedi l’intero sistema dei controlli che si distribuiscono su un complicato e farraginoso meccanismo che funziona sia a livello federale che dei 50 singoli Stati dell’Unione. Una complicazione che in realtà è voluta, perché più numerosi sono gli organi che devono controllare, tanto più elevato sarà il rischio che le informazioni assunte possano disperdersi in mille rivoli ed essere così inutilizzabili ed impedire un intervento pubblico. Controlli più centralizzati avrebbero invece permesso, due anni e mezzo fa, di valutare e prevedere l’indebitamento delle società operanti con i mutui subprime, dei colossi assicurativi e delle banche di investimento, e di fermarne l’attività. Così la riforma, anche se accorperà alcuni organismi esistenti, finisce per creare nuove agenzie che non faranno altro che moltiplicare la complessità del sistema e lasciare gli speculatori liberi di agire e di continuare a derubare i cittadini.