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Sant’Agostino visto da Bertrand Russell: un classico esempio di pregiudizio positivista

di Francesco Lamendola - 15/04/2010




Sant’Agostino, come - del resto - qualunque altro filosofo, può piacere o non piacere, sia come uomo, sia, soprattutto, e quel che più conta, come pensatore.
È chiaro, d’altra parte, che, quando un filosofo giudica il pensiero di un altro filosofo, non ci si può aspettare che il suo giudizio sia rigorosamente imparziale: sarebbe chiedere forse troppo alla natura umana. Ciascuno tende a giudicare secondo i propri gusti e, più ancora, secondo le proprie categorie mentali, estetiche, religiose, politiche, eccetera.
Quello che si può, e anzi si è in diritto di esigere, è che il giudizio su di un filosofo sia formulato con mente sgombra da preconcetti, almeno nella misura del possibile; che si sforzi di essere spassionato; che distingua i difetti (come anche i pregi) dell’uomo, da quelli del pensatore; che lo collochi nella cornice storico-culturale che gli è propria e non pretenda di giudicarlo in base ai parametri culturali di un’epoca successiva.
Si tratta, insomma, di assumere onestamente le vesti dello storico, e sia pure di quel particolare genere d storiografia che è la storia della filosofia.
Se un filosofo non è in grado di deporre, in qualche misura, le proprie simpatie e le proprie animosità; se non sa liberarsi, almeno in qualche misura, del proprio abito mentale, per assumere quello altrui, allora è bene che rinunci all’impresa e che lasci il campo a un onesto storico della filosofia, che non sia filosofo egli stesso, ma che sappia valutare oggettivamente i dati della storia del pensiero.
In questo senso, e in linea di massima, è altrettanto vero che, di norma, un musicista non è la persona più adatta per dare giudizi di merito sui grandi musicisti del passato, perché troppo coinvolto e immedesimato nel proprio modo di intendere il fatto musicale; né un pittore, uno scultore, un architetto, sulla storia dell’arte passata; né uno scienziato, sulla storia della scienza passata.
La cosa è ancora più evidente se si pensa ad un regista cinematografico. Immaginiamocene uno dell’ultima o penultima generazione, uno a caso, come Quentin Tarantino: col suo stile (estremamente violento), le sue preferenze (i western all’italiana di Sergio Leone), le sue antipatie (il cinema di idee: Bergman, Truffaut, eccetera); ebbene, sarà la persona più adatta per scrivere una storia della cinematografia e per valutare serenamente l’opera di altri grandi registi del passato, che avevano un modo completamente diverso di intendere il cinema?
Ma torniamo alla storia della filosofia e alla difficoltà di metterla in mano ad un filosofo di professione. Il fatto che egli sia competente in materia è, certamente, un vantaggio; ma il fatto che sia radicalmente immerso nel proprio orizzonte culturale è, altrettanto certamente, una difficoltà pressoché insormontabile.
Se ad essa si aggiunge una grossa dose di narcisismo, di protagonismo, di presunzione personale, di faciloneria nell’esprimere giudizi - strano ma vero, non tutti i filosofi sono persone ragionevolmente pacate e capaci di comprendere il messaggio di un altro filosofo -, allora la difficoltà diventa una vera e propria impossibilità. Non esistono, cioè, le condizioni perché quel filosofo possa scrivere in modo passabilmente obiettivo una storia della filosofia: egli, infatti, siederà come un giudice onnipotente sulla cattedra di un tribunale immaginario, pronto a lanciare fulmini a destra e a sinistra, per assolvere o condannare inappellabilmente questo e quell’altro.
Ebbene, tale è precisamente il caso di Bertrand Russell, un uomo tanto smanioso di mettersi in mostra, quanto rinchiuso nelle proprie orgogliose certezze positiviste e che non possedeva gli strumenti mentali per accostarsi con serenità di giudizio ad alcuni momenti e ad alcune figure della storia della filosofia.
La sua «Storia della filosofia occidentale» è, in effetti, quanto di più lontano si possa immaginare da una onesta e imparziale esposizione della storia del pensiero europeo, viziata sino alla radice da pesantissimi pregiudizi neopositivisti che ne deformano la prospettiva, fino a mostrare una totale incomprensione per quelle epoche e per quei pensatori che più sono lontani dalle convinzioni e dalla sensibilità dell’Autore.
Un buon esempio di ciò è dato dal ritratto che egli fa di Sant’Agostino e soprattutto del ruolo, a suo dire gravemente negativo, svolto dalla sua speculazione filosofica sulla storia dell’Occidente nei secoli seguenti. Per Russell, affondano nel pensiero di Agostino le radici della cattiva pianta delle feroci e superstiziose dottrine medievali: laddove si dà per scontato che il Medioevo sia stato feroce e superstizioso e che esso non abbia nemmeno espresso, a rigor di termini, un pensiero filosofico vitale e originale, ma solo delle dottrine fideistiche e oscurantiste; si dà per scontato, cioè, proprio quello che si pretende di aver dimostrato.
Addirittura, si ha la sensazione che l’essere stato Agostino nemico implacabile dell’eresia pelagiana susciti in Russell una sorta di orgoglio nazionale ferito, dato che Pelagio era gallese come lui, oltre che un rigurgito di antipatia per il cattolicesimo, altrettanto caratteristico della cultura britannica dopo la Riforma; antipatia che l’autore di «Perché non sono cristiano» non si è mai sforzato di dissimulare.
Perché non dire apertamente che Agostino, in quanto esponente del pensiero cristiano, gli è antipatico, indipendentemente dai contenuti specifici della sua filosofia, dal momento che rappresenta la cosa da lui più detestata, ossia la religione? In «Perché non sono cristiano», infatti, Russell, senza tanti giri di parole, ma con imbarazante semplicismo, scrive testualmente: «Io sono fermamente convinto che le religioni, come sono dannose, così sono false. Il danno recato da una religione è di due specie: uno dipende dalla natura generica della fede, l’altro dalla natura particolare dei dogmi accettati.»
Dunque, è chiaro che il pensiero di Agostino, con tali premesse, non può che aver recato danno al progresso dell’umanità: qualunque pensiero religioso è nefasto, quale più, quale meno. E questa non è una forma di pregiudizio? Non è, cioè, un formulare un giudizio inappellabile, prima ancora di aver ascoltato quello che l’altro ha da dire?
A parte la dubbia legittimità del metodo seguito da Russell, quello cioè di addossare a un filosofo la “responsabilità” di quanto messo in pratica dagli uomini delle generazioni successive (se ciò fosse verro in linea di principio, allora non vi è dubbio che Nietzsche sarebbe “responsabile” dei crimini nazisti: ma ormai nessuno storico della filosofia che sia un po’ serio sostiene più una sciocchezza del genere), dal quadro delineato dal filosofo gallese traspaiono chiaramente tutti i più vieti pregiudizi del suo approccio storico al pensiero e all’opera di Agostino e, inoltre, la sua tendenza a concepire la storia della filosofia come un tribunale che emette sentenze di assoluzione o di condanna, a suo beneplacito.
Vogliamo precisare che le nostre presenti osservazioni non nascono in alcun modo da una particolare simpatia per la figura o per il disegno speculativo di Sant’Agostino; il punto non è questo: il punto è che Russell prende Agostino come bersaglio di comodo per sfogare su di lui tutta la sua insofferenza e la sua rabbia verso i valori spirituali di cui la filosofia agostiniana è stata espressione.
Fra parentesi, il metodi di Russell ricorda molto quello degli storici di una volta (ad esempio, di Concetto Marchesi come storico della letteratura latina): vale a dire quello di presentare i singoli pensatori come monadi isolate e autosufficienti, quasi che non fossero espressione del sentire e del pensare di tutta un’epoca e di tutta una civiltà; salvo, poi (contraddizione lampante), sopravvalutare enormemente gli effetti storici del pensiero dei singoli filosofi, sulla società del loro tempo e sulle generazioni successive.
Ecco, dunque, come Russell vede l’influenza del pensiero di Agostino sui secoli successivi (da: «Storia della filosofia occidentale» (traduzione italiana di L. Pavolini, Milano, Mondadori, 1977, pp. 353-55):

«Alla lotta contro l’eresia pelagiana possono riferirsi molte delle parti più importanti della teologia di sant’Agostino. Pelagio era un gallese, il cui vero nome era Morgan (che significa “uomo del mare”, come “Pelagio”, in greco). Era un ecclesiastico colto e piacevole, meno fanatico di molti tra i suoi contemporanei. Credeva nel libero arbitrio, metteva in discussione la teoria del peccato originale, e pensava che solo grazie a un loro sforzo morale gli uomini agissero virtuosamente. Se agiscono rettamente, e sono ortodossi, vanno in cielo come ricompensa delle loro virtù.
Queste teorie, benché possano sembrare ora dei luoghi comuni, provocarono allora grande emozione e, soprattutto per gli sforzi di san’Agostino, furono dichiarate eretiche. Ebbero però un considerevole, per quanto momentaneo, successo. Agostino dovette scrivere al patriarca di Gerusalemme per metterlo in guardia contro l’astuto eresiarca, che aveva persuaso molti teologi orientali ad accettare le sue teorie. Anche dopo la sua condanna, molti, chiamati semi-pelagiani, difesero, sia pure in forme attenuate, le sue dottrine. Occorse un lungo tempo prima che il genuino insegnamento di Agostino si affermasse in modo completo, specialmente in Francia, dove la condanna finale dell’eresia semi-pelagiana ebbe luogo nel concilio di Orange (529).
Sant’Agostino insegnava che Adamo, prima della Caduta, aveva posseduto il libero arbitrio e avrebbe quindi potuto astenersi dal peccato. Ma allorché egli ed Eva mangiarono la mela, la corruzione entrò in loro e si trasmise a tutti i loro posteri, nessuno dei quali può, con la sua volontà, astenersi dal peccato. Soltanto la grazia di Dio mette l’uomo in grado d’esser virtuoso. Dato che tutti ereditiamo il peccato di Adamo, meritiamo tutti la dannazione eterna. Tutti coloro che muoiono non battezzati, anche i fanciulli, andranno all’inferno e soffriranno tormenti senza fine. Non abbuiamo alcuna ragione di lamentarci di questo, dato che tutti siamo cattivi. (Nelle “Confessioni” il sant enumera le colpe di cui si rese responsabile nella culla). Ma, per spontanea grazia di Dio, alcuni tra coloro che sono stati battezzati, vengono scelti perché vadano in paradiso; questi sono gli eletti. Essi non vanno in cielo perché sono buoni; siamo tutto totalmente malvagi, fuorché quando la grazia di Dio, che è conferita solo agli eletti, ci mette in grado d’esser diversi. Non si può dare alcuna ragione del fatto che alcuni siano salvati e altri dannati; ciò è dovuto alla scelta immotivata di Dio. La dannazione dimostra la giustizia di Dio; la salvazione la sua misericordia. Entrambe ugualmente dimostrano la sua bontà.
Gli argomenti in favore di questa feroce dottrina che fui ripresa da Calvino e da allora non è stata più fatta propria dalla Chiesa cattolica, si possono trovare negli scritti di san Paolo, particolarmente nella “Epistola ai Romani”. Tali argomenti sono trattati da Agostino come un avvocato tratta la legge: un’abile interpretazione, in modo che dai testi si tragga il più possibile il significato voluto. […] Può sembrare strano che la dannazione dei fanciulli non battezzati non sia stata trovata spaventevole e possa anzi esser stata attribuita a un Dio buono. Il sentimento del peccato lo dominava in modo tale, che Agostino erra realmente convinto che i bambini appena nati fossero membra di Satana. Gran parte di ciò che c’è di più spietato nella Chiesa medioevale si può rintracciare in questo triste sentimento della colpa universale.
C’è una sola difficoltà che disturbò veramente sant’Agostino dal punto di vista intellettuale. Questa non consiste nel fatto che può sembrare una cosa insensata l’aver creato l’Uomo, quando l’immensa maggioranza della razza umana è predestinata a eterni tormenti. Ciò che lo disturbò è che, se il peccato originale è ereditato da Adamo, come insegna san Paolo, l’anima, come il corpo, deve provenire dai genitori, perché il peccato è dell’anima e non del corpo. Agostino incontra delle difficoltà nella trattazione di questo problema, ma dice che, dal momento che la Scrittura tace in proposito, non è evidentemente necessario alla salvezza arrivare a una esatta teoria in materia. Quindi lascia la questione indecisa.
È strano che gli uomini di notevole levatura intellettuale prima dei secoli bui si siano preoccupati non di salvare la civiltà o di espellere i barbari o di riformare gli abusi dell’amministrazione, ma di predicare i meriti della verginità e la dannazione dei fanciulli non battezzati. Dato che queste erano le preoccupazioni che la Chiesa trasmise ai barbari convertiti, non fa meraviglia che l’epoca successiva abbia sorpassato quasi tutti gli altri periodi storici per crudeltà e superstizione.»

È quasi imbarazzante vedere con quanta ingenua noncuranza Russell maneggia i concetti centrali della teologia cristiana, per dare l’impressione che le idee di Pelagio fossero una forma di cristianesimo mite e ragionevole, mentre quelle di Agostino erano la quintessenza del fanatismo e del più cupo pessimismo.
Al di là del fatto che la forza polemica contro l‘eresia pelagiana, sicuramente, ha spinto Agostino ad accentuare fin troppo il pessimismo della visione cristiana dell’uomo (pessimismo che, peraltro, non deve fare scandalo; tale è anche la visione del buddismo, ad esempio, in misura perfino maggiore; ma nel cristianesimo il pessimismo è controbilanciato dall’amore infinito di Dio), a Russell, evidentemente, sfuggono i veri termini della questione, per la sua assoluta incapacità di assumere la prospettiva di ciò che gli è antipatico.
Dal punto di vista cristiano, l’idea che non esista il peccato originale e che gli uomini possano salvarsi da sé, senza bisogno di un aiuto soprannaturale, è, puramente e semplicemente, inaccettabile, perché scalza le basi stesse del cristianesimo. Pertanto, è perfettamente logico che uomini come Agostino abbiano visto il pericolo di quella dottrina e si siano adoperati per mettere in guardia la Chiesa e i fedeli. Bisognerebbe dire, piuttosto, che, se si detesta il cristianesimo, si prova simpatia per il pelagianesimo, poiché esso è, nella sua essenza, inconciliabile col cristianesimo, anzi, tale da svuotarne la sostanza, lasciandone sopravvivere solo il guscio vuoto; allora sì, che si sarebbe onesti.
Non è onesto, invece, presentare Pelagio come un precursore o, addirittura, come un campione del libero pensiero, e Agostino come un campione del fanatismo e dell’intolleranza, perché ciò significa misconoscere il contesto storico, teologico e filosofico in cui si muovono i due personaggi. Sono chiare le ragioni per le quali Russell prova simpatia per Pelagio (oltretutto, come ci tiene a precisare, suo conterraneo) e antipatia per Agostino; ma egli non ha l’onestà intellettuale di mostrare che le idee di Pelagio, sotto un’apparenza di cristianesimo, costituivano la negazione dell’essenza del cristianesimo: il riconoscimento della tendenza al male insita nell’uomo e la necessità della sua redenzione per mezzo dell’Incarnazione e della Grazia.
Questo è il nocciolo del cristianesimo: l’uomo non può liberarsi dal male con le sole sue forze: può farlo solo per mezzo di Cristo e della Grazia divina; dottrina che, lo ripetiamo, può piacere o non piacere; ma, se non piace, ciò non autorizza a deformare i termini del suo contenuto e a presentare in maniera tendenziosa i conflitti teologici interni ad essa.
Quanto alla visione finale di una Chiesa cattolica che, mentre i barbari irrompono e la civiltà agonizza, si preoccupa dei meriti della verginità e della dannazione dei fanciulli non battezzati, c’è poco da dire, tanto è evidente la malafede di una tale ricostruzione storica. Senza voler negare che vi siano stati anche quegli elementi di fatto, il panorama intellettuale e spirituale del cristianesimo del IV e V secolo è infinitamente più vario, ricco e complesso di come Russell lo presenta; la conclusione, poi, in cui si afferma che il Medioevo è stato il culmine della barbarie e della superstizione, scimmiotta, forse nemmeno inconsapevolmente, la celebre chiusa della «Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano» dell’illuminista Edward Gibbon: «Ho descritto il trionfo della barbarie e della religione».
Con l’abilità di un avvocato abituato a manipolare lo spirito della legge, rispettando la lettera (la similitudine adoperata da Russell gli si rivolge contro), egli sposta tutta la discussione sul terreno della predestinazione e della dannazione dei bambini non battezzati, fingendo di ignorare che non è questo l’aspetto caratterizzante del pensiero di San Paolo e nemmeno di quello di Sant’Agostino. L’aspetto centrale della teologia di San Paolo è l’amore di Dio e l’amore vicendevole degli uomini; quello della teologia di Sant’Agostino, la negazione che la materia sia il male e l’affermazione che il male, addirittura,  non si può né insegnare né imparare, perché esso non è una sostanza. E, se è vero che il Medioevo ha ereditato da San Paolo e da Sant’Agostino taluni aspetti teologicamente discutibili, come quello della dannazione dei bambini non battezzati (ma ideò il Limbo appunto per porre rimedio a tale crudele teoria), è altrettanto vero che esso ereditò soprattutto gli aspetti costruttivi di quella teologia, primo fra tutti l’idea che non ci si salva con la scrupolosa osservanza della legge (come sosteneva il giudaismo), ma mediante l’amore infinito e gratuito di Dio.
Tacere questo aspetto centrale, significa distorcere tutta la prospettiva del discorso complessivo sul cristianesimo, allo scopo di avvalorare i propri preconcetti anticristiani.
Ma questo ha poco a che fare con la storia della filosofia; semmai, con i gusti personali di Bertrand Russell in fatto di teologia.