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Vladimir Majakovskij come Ezra Pound?

di Marco Iacona - 15/04/2010

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Ascoltare Carmelo Bene recitare Vladimir Majakovskij (la sua veemenza solo a tratti simbolica), pensando magari a Cesare Pavese e alla sua fine prematura – agosto 1950 – toccante e violenta, è uno dei “trucchi” per comprendere a fondo vita, opere e quant’altro di Majakovskij futurista russo e fra i massimi poeti della prima parte del Novecento morto anch’egli suicida ottant’anni fa, il 14 aprile del 1930.    
Majakovskij è stato soprattutto il poeta della rivoluzione d’ottobre («…è la mia rivoluzione», confesserà in quei giorni), di quella cosa che ha dato inizio all’orrore del totalitarismo sovietico, ma come tutti i grandi cantori del suo tempo è stato prima di tutto un rivoluzionario dello spirito, con una grandezza trasformata anche in commozione discreta. Non fu un uomo completamente «libero» quello sì, perché grazie alla sua “epica” diede voce a un regime fondato sull’assenza di libertà, eppure fu quasi sempre al sicuro da quel male che attanagliò gli intellettuali di regime, che si chiamava (e si chiama ancora) cieco conformismo. Majakovskij si schierò insomma con la coscienza – o con l’ingenuità – di sposare una causa «giusta», finì per spararsi un colpo di pistola e per pagare oltre che le contraddizioni dei sentimenti, anche quelle che lo avevano condotto ad abbracciare un regime, come un «rimedio» che si sarebbe presto rivelato peggiore del «male». Diverso nella poetica – nei contenuti innanzitutto – da Ezra Pound, eppure simile per certi aspetti relativi alla “fede e agli “ideali”, il poeta georgiano fu un esempio fra i maggiori di quel legame politica-letteratura che si consumò in anni stracolmi di ideologia. Se la “banale” finalità di un poeta è “cambiare il mondo”, la primavera del sovietismo fu anche quella di Majakovskij. In proposto c’è poco da dire: il “rivale” di Filippo Tommaso Marinetti seppe far bene il proprio mestiere.       
Per questo ci sembra giusto ricordarlo e per questo, come ha scritto Vittorio Strada, oggi è praticamente impossibile muovere facili accuse né all’uomo né tantomeno al poeta Majakovskij: «… nel Majakovskij poeta della rivoluzione c’è un fascino perverso che impedisce di mettere in un canto i volumi delle sue opere del periodo sovietico: il suo didatticismo utopico è pur diverso da quello partitico dei piccoli e medi rimatori laureati del regime; il kitsch sovietico di tante sue poesie ha la suggestione di un sogno ossessivo; il sarcofago che egli costruisce nel poema Vladimir Iliċ Lenin ha la maestosità dell’analogo mausoleo nella Piazza Rossa, destinato a restare anche quando sarà svuotato della mummia che contiene; la verità con cui l’impareggiabile violenza bolscevica viene apertamente cantata supera l’edulcorata immagine sentimentale che il “realismo socialista” ha cercato di dare dei disastri del comunismo; patetica ma sincera è la sua critica del “burocratismo” e del “filisteismo”, quasi fossero queste le cause dei malanni della rivoluzione, mentre “burocratico” e “filisteo” era il partito che il poeta esaltava, idealizzandolo; infine il suicidio conclusivo, suicidio letterario e poetico, che chiude un gioco di contraddizioni non più dominabili, suggello catastrofico e salvifico del destino majakovskiano, della sua tensione ateo-religiosa che nella rivoluzione aveva trovato un surrogato di soluzione così come la sua ricerca di amore in ogni donna aveva un effimero appagamento».
Majakovskij fu ribelle fin dalla nascita (certi tratti biografici potrebbero apparire simili a quelli di un artista maledetto o perfino di una moderna rock-star…), nato nel 1893, presto orfano, rivoluzionario antizarista, “militarista” ma solo per qualche stagione, inizia a scrivere poesie in carcere; entra poi nell’Accademia artistica e nel 1912 firma insieme a David Burljuk, Viktor Chlebnikov, Aleksej Kruċenych e altri un manifesto d’ispirazione marinettiana (“Schiaffo al gusto del pubblico”), ove si afferma fra l’altro che «il passato è angusto» e «soltanto noi siamo il volto del nostro tempo», e si invita a fare a meno dell’elite letteraria russa: Puskin, Dostoevskij, Tolstoj e gli altri (il futurismo così come altre avanguardie europee cominciava ad avere successo in Russia, anche se alcuni “filtri” culturali erano già evidenti). È l’atto di nascita del futurismo russo che lascia spazio, com’è giusto che sia, a una infinità di discussioni, critiche e ripensamenti. Nel biennio 1913-14 (anno quest’ultimo del viaggio di Marinetti a Mosca) si assiste a un grande dibattito in seno alle avanguardie russe sia sul ruolo che sulle tematiche del futurismo di marca italiana. Majakovskij è uno dei protagonisti del tempo riuscendo a trascinare la forza della propria inventiva all’interno delle tematiche avanguardiste (o forse viceversa) saldandole poi, via via, al rivoluzionarismo di stampo comunista e creando nuove “variazioni” sul tema della modernità e il legame con la molteplicità delle sue espressioni. Tanto per dirne una ad esempio, il rapporto fra guerra e “ideologia” per il gruppo russo si nutrirà di contenuti esattamente opposti a quelli italiani (che com’è noto sprofondavano nel più appassionato militarismo).
Da quegli anni inizia per Majakovskij una carriera saggistica e letteraria spesso frenetica (fonderà peraltro anche il Lef: Fronte di Sinistra delle Arti, che si farà carico di un realismo “rivoluzionario” critico, adesso, verso il formalismo “borghese”); sempre pronto a servire la causa comunista, il poeta georgiano firmerà fra l’altro una serie di opere destinate a passare alla storia: Mistero buffo (1918), 150.000.000 (1920) e Lenin (1924). Ma è difficile scordarsi della propria originalità. Majakovskij sarà a tal punto un ribelle, a volte un tutto-fare (attore perfino in una pellicola che si rifarà al Martin Eden di jack London) che si può dire sia il vero punto d’incrocio fra due rivoluzionari della modernità, l’iconoclasta Friedrich Nietzsche e la grande «speranza» Karl Marx; una miscela esplosiva che alimenterà non di rado la sua voglia di protagonismo perfino nei versi autobiografici: «…Ma uno come me dove potrà ficcarsi? Dove mi si è apprestata una tana? S’io fossi piccolo come il Grande Oceano, mi leverei sulla punta dei piedi delle onde, con l’alta marea carezzando la luna. Dove trovare un’amata uguale a me? Angusto sarebbe il cielo per contenerla!... In quale notte delirante, malaticcia, da quali Golia fui concepito, così grande e così inutile?». Vittorio Strada traccia ancora un percorso “parallelo” in compagnia dei due giganti del pensiero: «Si potrebbero vedere due Majakovskij, nel segno l’uno di Nietzsche, l’altro di Marx (e di Lenin), ovvero un solo Majakovskij in cui l’impulso elementare di rivolta nichilistica contro il mondo costituito (“borghese”) si assoggetta tragicamente nel servizio a una rivoluzione positiva (programmatica) e istituzionale (comunista)…». Un poeta insomma che avrebbe completamente “sbagliato” la seconda parte del proprio programma, quasi un modello “perfetto” per le critiche di Augusto Del Noce alla società comunista.
Ma di errori (se così vogliamo intenderli), Majakovskij ne commette molti altri. Grande amico fra gli altri di Boris Pasternak, Aleksandr Blok e Gorkij, nel 1915 si legherà strettamente ai coniugi Osip (Lili e  Brik, appartenenti alla polizia politica) dando vita a un triangolo amoroso della durata di tre lustri. L’amore per Lili è forse alla base del suo suicidio ma c’è chi suppone che dietro la morte del poeta ci possa essere la lunga mano dello stalinismo. Majakovskij è difatti quello che si può considerare un ultraortodosso di un regime che tuttavia lo ama sempre meno, perché (storia vecchia e risaputa) lo considera poco comprensibile alle masse e perché mal sopporta le critiche che il poeta rivolge alla burocrazie del nuovo potere. La sua fine fisica è dunque parallela alla sua fine politica. Come per tutti gli «illusi» dalle ideologie, il giudizio su Majakovskij, ancorché non di «condanna», sarà così destinato a rimanere a lungo sospeso. L’uomo che aveva cantato la «terrestrità» del compagno Lenin viaggia oramai da ottant’anni lungo percorsi troppo distanti dal pianeta terra.