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L’Africa tra instabilità ed emigrazioni

di Alfonso Arpaia - 18/04/2010


 
L’Africa tra instabilità ed emigrazioni

Finché ci saranno [grandi squilibri demografici, economici e politici], ci saranno migrazioni di massa: perché popoli che producono molti figli e poca ricchezza cercheranno sempre pane e lavoro presso i popoli che producono pochi figli e molta ricchezza”1. Sono queste le parole dell’ex Ministro dell’Interno italiano Giuseppe Pisanu con riguardo a quelle che sono in linea generale le fondamentali cause geopolitiche che spingono i poveri del mondo a emigrare.

Ogni qualvolta apprendiamo di nuovi episodi di violenza in Italia commessi da extracomunitari (o a danno di essi, come nel caso di Rosarno a gennaio scorso), ovvero dell’arrivo di centinaia di infelici via mare, per noi cittadini italiani è ancora difficile proiettare automaticamente la nostra attenzione alle carestie africane e alle guerre, veri e propri detonatori di quelli che sono poi i suddetti squilibri globali che trasferiscono, nel giro di poco tempo, una situazione di tensione da un’area all’altra del mondo. L’infinita quantità di disperati che attraversa il Mediterraneo ogni giorno per approdare sulle nostre coste è spesso costituita da sopravvissuti a soprusi subiti non soltanto nel paese di partenza ma anche lungo il tragitto di inferno e morte nel Sahara. Il World Migration Report del 2005 curato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni descrive l’Africa come il Continente con le popolazioni a più alta tendenza migratoria nel mondo e i flussi migratori da tale Continente verso l’Occidente vanno progressivamente aumentando: lo stesso Senegal, considerato tradizionalmente come un Paese di destinazione dei flussi migratori, ha cominciato ad essere terra di emigrazione per moltissimi in età lavorativa, con Gambia, Francia e Italia come mete privilegiate dei giovani lavoratori senegalesi.

Rimane il problema per cui le guerre e le guerriglie, le varie forme di instabilità e di violazione dei diritti umani che si verificano in Africa ogni giorno costituiscono allo stesso tempo una preoccupazione anche per noi italiani, dal momento che tali fenomeni implicano automaticamente, in molti casi, la fuga di masse di donne e uomini, con o senza bambini, che non vedono garantiti i propri diritti economici e culturali nel proprio contesto di provenienza. Lo stesso fattore della povertà, per quanto posto statisticamente in secondo piano rispetto a quello della sicurezza quale fattore dello spostamento di vaste popolazioni nel mondo, non può affatto essere trascurato se si pensa che gli stenti, la fame e la sete sono essi stessi fattori detonanti per lo scoppio di tensioni di varia natura: al giorno d’oggi, circa il 40% della popolazione mondiale e cioè quasi due miliardi e mezzo di persone, vive grazie a una fetta del 5% del reddito prodotto a livello planetario. Detto in altri termini, a occhio e croce il doppio dell’intera popolazione della Cina ha accesso a un ventesimo dell’intero reddito mondiale!

Sarà compito dei governi occidentali e, più in generale, della cooperazione tra i nostri governi e quelli dei Paesi in via di sviluppo, creare basi realmente sostenibili per far sì che flussi enormi e costanti di disperati non si trasformino in fattori di insostenibile squilibrio – demografico e culturale – di lungo termine. Possiamo idealmente concepire una sorta di “linea” che comprenda in sé un insieme di possibili scenari e che agli estremi abbia da un lato la crescita sostenibile dell’Italia grazie ad un equilibrato ma costante e costruttivo afflusso di immigrati e dall’altro una non auspicabile situazione di perenne tensione causata da tensioni interetniche e da terrorismo, oltre che da livelli incredibili di criminalità, con il nostro Paese “ideale” crocevia di loschi traffici internazionali che vedrebbero protagoniste le organizzazioni criminali di mezzo mondo. Crescita economica sostenibile e arricchimento culturale da un lato; forte criminalità con un’Italia testa di ponte del crimine internazionale dall’altra. Quel che è certo è che i cambiamenti, in positivo e in negativo, non si avranno soltanto ad opera di chi sta al potere, bensì anche attraverso le tendenze sociali presenti nella società italiana e di quella di ogni altro Paese occidentale. Purtroppo il tessuto politico e sociale del nostro Paese non presenta né l’apertura culturale di Paesi e regioni come quelli della Scandinavia, né le opportunità occupazionali di Canada e Usa: eppure ciò non ha impedito l’arrivo continuo di flussi di clandestini nel nostro Paese.

Il fenomeno migratorio è sempre più un tema di risonanza globale: dal 2000 al 2009 il numero di migranti a livello mondiale è passato da 175 a 220 milioni di individui e, tra il 1994 e il 2004 nell’Africa subsahariana, il numero di persone che vivevano con meno di un dollaro al giorno è nettamente aumentato.

Persecuzioni, conflitti, povertà materiale e salari molto bassi spingono le popolazioni del Sud del mondo a cercare lavoro ma anche asilo politico in Occidente. Gli sfollati, il cui status attiene solitamente agli spostamenti all’interno di uno stesso paese, ammontavano a circa 26 milioni nel 2009; nello stesso anno i rifugiati a livello globale erano ben 11 milioni e tutto ciò sta ad indicare come, nell’epoca della globalizzazione e, soprattutto, in questi anni di crisi, favorire gli spostamenti già massicci di popolazione non basta di certo ad alleviare i problemi di insicurezza e povertà che caratterizzano continenti quali l’Africa, l’Asia, il Sud America e il Medio Oriente – in altre parole il Sud del Mondo.

L’Europa oggi deve far fronte a ben tre direttrici di immigrazione clandestina: quella dalla Cina, quella dal subcontinente indiano e quella dal Continente africano – quest’ultimo il caso più complesso da un punto di vista geopolitico, data la vasta costellazione di paesi, lingue, culture e soprattutto conflitti interetnici del Continente nero. I percorsi in questione sono molto pericolosi e, in quanto direttrici nella maggior parte dei casi clandestine, sono più lunghi e più costosi per i migranti rispetto ai percorsi ordinari; con la conseguenza che sempre più spesso, i profughi clandestini preferiscono fermarsi nei paesi e nelle regioni ai margini del Continente europeo, quali i Paesi del Nordafrica, l’Ucraina, la Bielorussia e la Turchia.

Certo è che per l’Italia l’importanza del contesto africano (o dei contesti africani), discende senz’altro dalla vicinanza geografica del nostro Paese al Continente nero: nonostante la percentuale di africani andati all’estero sul totale dei popoli migranti di tutto il mondo si sia ridotta nel corso dei decenni, i cittadini dell’Africa occidentale sono tuttora quelli con la maggiore mobilità del pianeta. Vorrei qui ricordare come l’Africa occidentale sia caratterizzata da un lato da fortissime tensioni interne alla luce del fatto che l’ingente presenza di petrolio, diamanti e uranio attrae investimenti costantemente alti da parte di multinazionali assetate e dall’altro le popolazioni indigene dell’Africa occidentale vengano decimate in sanguinosissimi conflitti.

Tuttavia non esistono solo le esigenze economico-lavorative dei migranti, bensì anche quelle dei cittadini occidentali i quali, specie in Paesi come il nostro, patiscono spesso il fenomeno della disoccupazione di lungo corso; l’esperienza internazionale ha dimostrato come gli interventi a sostegno dell’immigrazione non debbano guardare solamente ai movimenti internazionali: quella della libera circolazione all’interno dell’area ECOWAS (la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) è stata una mossa politica che ha notevolmente contribuito alla riduzione dei flussi migratori di africani verso l’esterno e uno degli obiettivi dell’ECOWAS è proprio quello di incoraggiare lo sviluppo locale nelle zone di maggiore emigrazione. E’ e sarà compito dei governi africani ed europei quello di attuare delle politiche di sostenibilità tanto per le popolazioni migranti quanto per quelle di arrivo. Non bisogna dimenticare come la stessa Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite ha proposto qualche anno fa la creazione di posti di lavoro labour-intensive e cioè che si possa fare leva soprattutto sulla forza lavoro e non sulla tecnologia: tra questi appunto i posti di lavoro in agricoltura. Si tratta di una raccomandazione da seguire se si vuole evitare insostenibili problemi in larga scala nel Continente africano. Nel frattempo è certo che sia a causa della scarsità di forza lavoro che si rinviene in Occidente in alcuni settori produttivi, sia a causa di una popolazione occidentale sempre più longeva e a un’economia globale che fino a pochi anni fa sembrava essere in espansione, sono molti i Paesi sviluppati che mostrano la necessità di ricevere migranti. Del resto, se qui in Italia si è abituati a pensare alla sola agricoltura come settore bisognoso di manodopera proveniente dal Terzo Mondo, è pur vero che l’urgenza di personale in tutto l’Occidente si presenta anche nelle tecnologie dell’informazione e nella sanità, così come nei lavori manuali. Non dobbiamo pensare che i flussi di immigrati provenienti da regioni come l’Africa siano caratterizzati soltanto da individui poco qualificati: spesso si tratta di diplomati o di laureati, tra i quali non mancano medici e infermieri o ancora, ad esempio, ingegneri che dall’Algeria decidono di emigrare in Francia (è questo uno dei tanti esempi che si possono fare).

La posizione geografica del nostro Paese, con Otranto, Lampedusa e le coste orientali della Calabria, fa dell’Italia un attore chiave delle vicende migratorie internazionali, dal momento che un eccessivo freno all’ingresso di immigrati significherebbe violare i diritti umani di tanti che hanno bisogno di migliorare la loro condizione politica (come nel caso dei rifugiati) o economica; viceversa, un’eccessiva apertura agli ingressi vorrebbe dire porre a rischio non soltanto l’Italia ma l’intera Europa, che si ritroverebbe invasa da centinaia di migliaia di individui ai quali potrebbe essere difficile poter garantire una vita facile, al riparo dalla tentazione di finire nelle maglie della criminalità. Certo è che i fenomeni di instabilità africani ai quali si è fin qui accennato potrebbero sconvolgere col tempo la stessa Europa che, proprio come gli Stati Uniti con il Messico, è tuttora incapace di affrontare in maniera concreta (e sostenibile) i problemi locali e globali presenti ai suoi confini marittimi: sta di fatto che, sia nel caso degli Usa sia in quello dell’Ue, esistono delle barriere all’arrivo di tanti disperati che fanno comunque di tutto per superare tali sbarramenti, siano esse costituite da ferro, cemento, mare o guardie di frontiera.

E’ ovvio come la credibilità dell’Italia, così come di qualsiasi altro paese impegnato a vario titolo nei confronti dei paesi africani, si giocherà almeno su due fronti e cioè su quello interno (con la capacità di saper dare qualcosa di concreto ai nuovi arrivati e a coloro i quali già vivono nel nostro Paese) e su quello africano (aspetto a sua volta suddivisibile in azioni di cooperazione ed investimenti e azioni militari di mantenimento della pace): sarà questo il nostro volto nei confronti di tante comunità di infelici, peraltro spesso “sedotte” dalle mire di un fondamentalismo religioso che recluta moltissime persone in un’Africa ancora povera, nonostante i massicci investimenti esteri e la recente diffusione di Internet.

A proposito della grande rete informatica mondiale, c’è da prevedere come la progressiva estensione di tale strumento in Africa possa portare a una massiccia diffusione di un’immagine quasi idilliaca sotto il profilo economico oltre che politico, dell’Europa e degli Stati Uniti, quasi che gli emigrati dal Continente africano possano trovare una terra promessa in Occidente. La globalizzazione ha senz’altro creato un’immagine “fantastica” di un Eldorado occidentale che include anche l’Europa, un’immagine a causa della quale molti compiono un travagliato viaggio che per tantissimi termina spesso e volentieri con un ritorno forzato a casa, per altri addirittura con la morte a causa delle enormi difficoltà incontrate o delle torture subite da guardie di frontiera corrotte.

Un paradosso della globalizzazione oggi consiste nel fatto che, mentre da un lato gli stati favoriscono sempre più rapidi flussi monetari, di beni, di servizi e di informazioni attraverso le frontiere nazionali, essi stanno al contempo limitando il movimento di lavoratori provenienti dai cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Ciò si contrappone alla visione di questi ultimi i quali vorrebbero delle politiche più “permissive” nei confronti dei loro migranti: ciò tenuto conto del fatto che favorire maggiori afflussi di popolazione verso l’Occidente contribuirebbe ad alleviare la pesantissima piaga della disoccupazione nei Paesi in via di sviluppo.

I Paesi occidentali, a livello bilaterale o servendosi dei canonici forum multilaterali quali l’Ue per la conclusione di intese che coinvolgano vaste regioni del mondo, potrebbero servirsi dello strumento degli accordi internazionali per agevolare l’accesso nei Paesi occidentali di forza lavoro qualificata proveniente da settori quale quello paramedico: il Continente africano abbonda di infermieri qualificati che nei propri Paesi sono sottopagati o disoccupati; l’innalzamento dell’età media delle popolazioni degli stati occidentali fa sì che da noi vi sia un forte bisogno di forza lavoro di questo genere.

Allo stesso tempo, Europa e Africa dovranno cooperare costantemente per combattere le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici clandestini di immigrati e, sul fronte somalo, una sempre maggiore attenzione dovrà essere prestata al fenomeno della pirateria.

Se questi potranno essere i settori di intervento privilegiati a livello di azioni politiche, a livello sociale invece, l’apprendimento di nuove lingue potrebbe aiutare notevolmente noi occidentali a comprendere meglio quelle che sono le comunità allogene presenti sui nostri territori: un particolare occhio di riguardo dovrebbe aversi per idiomi quali il cinese, l’arabo, il rumeno (lingua della comunità che è di recente divenuta maggioritaria in Italia tra quelle straniere) o l’urdu, quest’ultima (lingua ufficiale del Pakistan) è la versione “pachistana” dell’hindi il quale è a sua volta anche la seconda lingua più parlata al mondo da madrelingua dopo il cinese mandarino. La comprensione di tali lingue vorrebbe dire anche carpire l’essenza di nuovi “mondi”, nuove realtà culturali ma anche religiose, scongiurando il pericolo di pregiudizi culturali e religiosi che sempre di più sembrano caratterizzare un paese come quello nostro, il quale sembra aver dimenticato il proprio passato di popolo emigrante. Anche qui tuttavia mi sembra che un ruolo chiave possano giocarlo i nostri governi i quali potrebbero incentivare la creazione di corsi durante i quali si insegnino tali lingue o ancora favorire la massiccia diffusione di canali televisivi stranieri. Se non si vuole che le previsioni di Huntington sullo scontro di civiltà si avverino in pieno, caratterizzando non soltanto le politiche di Occidente, Medio Oriente e Sud del mondo ma anche le stesse opinioni pubbliche del pianeta, bisogna far sì che quello tra culture divenga un incontro costruttivo e non uno scontro e ciò dovrà inevitabilmente coinvolgere le stesse società.

* Alfonso Arpaia è dottorando in Lingue moderne.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore, e potrebbero non coincidere con quelle della redazione di “Eurasia”